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Autore: Bloody Alice    11/09/2014    1 recensioni
[oneshot]
New York mutava in fretta, ad una velocità insostenibile, soprattutto le persone, e secondo Alexander quelle cambiavano sempre in peggio.
La vita nella grande mela non aveva ritmo: ognuno seguiva il proprio passo e non era necessario preoccuparsi del resto, di ciò che non ti toccava direttamente e che accadeva solo ad altri.
Genere: Angst, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ground zero.
 


New York mutava in fretta, ad una velocità insostenibile, soprattutto le persone, e secondo Alexander quelle cambiavano sempre in peggio.
La vita nella grande mela non aveva ritmo: ognuno seguiva il proprio passo e non era necessario preoccuparsi del resto, di ciò che non ti toccava direttamente e che accadeva solo ad altri.
Alexander, diciotto anni appena compiuti e capelli corvini più spettinati di quelli di Harry Potter, mal sopportava gli sconosciuti individui di quella metropoli. Si poteva tranquillamente definirlo come uno di quei ragazzi arrabbiati con il mondo, per altro senza apparente motivo.
E Alexander un motivo non ce l’aveva davvero.
Si svegliava la mattina chiedendosi che ci facesse , sfogliava i suoi fumetti e si domandava perché, e si arrabbiava. Era possibile che fosse già arrivato a quel momento della propria esistenza in cui non si riesce a trovare uno scopo decente per andare avanti?
La gente a Times Square non rifletteva sulla vita?
Camminavano tutti avanti e indietro, senza una vera meta: davvero snervante, pensava Alexander, ma di fatto anche lui era come tutti loro, come tutti gli altri.
Girovagava senza destinazione, imbattendosi negli anfratti più singolari dell’immensa metropoli sulla costa orientale.
Alla domanda di sua mamma tutti i giorni « Dove vai? » lui rispondeva con un vago « In giro. », per poi tuffarsi nello smog cittadino.
Sua madre si preoccupava, lo sapeva, ma almeno lui tornava a casa sempre, alla fine, non come certi suoi compagni che uscivano la sera e non si facevano vedere nemmeno la mattina seguente.
Però a fuggire ci aveva pensato. Ma per andare dove?
Uscire da una gabbia di smog e uomini in giacca e cravatta per poi gettarsi in un’altra gabbia per giunta lontano da casa, con venti dollari in tasca?
Fuori discussione. Era il problema del sogno americano, o dei sogni in generale. Tante idee e speranze, un mondo intero come ostacolo.
Così Alexander continuava ad annoiarsi.
 
A Central Park in estate faceva caldo, ma Alexander non ci badava troppo quando girava con il suo skateboard per le vie del parco. Noioso, ma qualcosa – anche quella più inutile – doveva pur farla e, chissà, magari uno di quei giorni sarebbe inciampato nel suo “senso della vita”.
Fu mentre tentava di placare una delle sue tempeste di neuroni che una pallonata lo colpì, facendolo cadere sull’erba umida. Imprecò.
« Mio padre dice che certe parole non si devono pronunciare. » la voce, squillante, gli giunse alle orecchie e gli colpì i timpani.
Alec alzò lo sguardo ceruleo e si trovò di fronte un bambino con capelli castani e occhi del medesimo colore. Sembrava la versione miniaturizzata di Peter Parker e non tardò a presentarsi « Robin, otto anni. » annunciò con aria quasi solenne, porgendogli la mano.
Alexander si alzò e riprese lo skateboard. La voce del piccolo Robin arrivò nuovamente alle sue orecchie « Dica un po’ signore, dov’è che va in giro tutto solo? ».
Il ragazzo osservò il bambino « Non sono un signore. Ho appena diciotto anni ».
« E com’è che ti chiami? ».
« Alexander. » borbottò in risposta.
Robin lo squadrò da capo a piedi « È un bel nome ».
Alec sbuffò « Felice di saperlo. » disse. Ma i bambini molesti non potevano capitare a qualcun altro? « Senti » proruppe Alexander tra gli schiamazzi nel parco « Ma tu non hai dei genitori? » chiese ed il bambino prese a dondolare sul posto « Certo che li ho. » rispose.
« Ti sei perso? ».
Robin arrossì « Se fosse così, tu mi aiuteresti a cercarli, vero? ».
Alec sospirò. Nonostante all’inizio non fosse propenso ad aiutare un mini-Parker, dopo qualche minuto stava girando per Central Park con quel bambino di otto anni aggrappato alla t-shirt con una parlantina iper-sviluppata.
« … A me piace il gelato a te piace il gelato? Mia madre a quest’ora mi porta sempre a mangiare il gelato e a me piace quello al pistacchio. A te piace quello al pistacchio? » Alec gli tappò la bocca con una mano, ma l’altro continuò il suo discorso, con la voce che squillava « Perché non andiamo a prendere un gelato? Non sembri troppo dolce, per me un po’ di gelato ti farebbe bene ».
Il diciottenne guardò Robin e pensò che decisamente il gelato era perfetto per farlo tacere. Fu nella gelateria in cui si fermarono che il bambino ritrovò i suoi genitori.
La madre ringraziò Alexander almeno una decina di volte e Robin, prima di andarsene, lo abbracciò: arrivava appena al suo petto e non smise di parlare nemmeno mentre aveva il viso premuto contro la maglietta « Dovresti essere più dolce, come il cioccolato. » mormorò, dopo di che lo liberò dalla stretta e lo salutò.
Alec rispose con un sorriso sghembo ed un cenno della mano.
 
Dopo una settimana Alexander continuava a ripensare a Robin, alla sua voce e, per chissà quale motivo, cercò di essere davvero più dolce, o per lo meno tentò.
Come cominciò all’improvviso, così finì.
Aveva aderito ad un’iniziativa di volontariato a pochi isolati da casa sua, su proposta di un’insegnante. Non aveva fatto i conti con i volontari: persone dolcissime, sì, ma tutte con una vocazione nella vita. Alexander era scappato.
Seduto al tavolino della gelateria vicina a Central Park aveva ordinato una di coppa gelato mangia-finché-scoppi, deciso ad annegare nel pistacchio, rendendosi conto di quanto fosse irrimediabilmente incapace di affrontare quelle crisi di senso di inutilità che parevano cogliere solo lui e nessun altro in quella metropoli.
La nota voce squillante di bambino lo strappò dai suoi pensieri e, alzando gli occhi dalla sua coppa di gelato sciolta al sole, vide Robin in piedi davanti al tavolo, con una coppetta in mano e la bocca sporca di cioccolato.
« Pensavo » disse il bambino « che non ti avrei rivisto. Mamma dice che ritrovare qualcuno è difficile, soprattutto in città grandi come questa, dove non si fermano tutti ad aiutarti ».
Robin si sedette senza troppe cerimonie, come avrebbe fatto un adulto. Dopo qualche attimo Alec pensò che in fondo ascoltare quel bambino fosse quasi divertente.
« Andrò a trovare alcuni miei parenti per il prossimo mese. » disse il piccolo con aria seria. Alexander annuì, cercando di stare attento al discorso, ma si sentiva nervoso e la sua mente divagava in continuazione, pensando a come avrebbe reagito la sua insegnante.
Robin lo strattonò per la maglia « Ti voglio bene. » sussurrò.
Alexander sgranò un attimo gli occhi « Ci conosciamo appena. » rispose, ma l’altro disse che non importava « La maestra di religione ci ha detto che siamo tutti fratelli e dobbiamo volerci bene. » poi rimase in silenzio alcuni secondi.
« Ti voglio bene. » ripeté.
« Lo so. » disse Alec « Me l’hai appena detto ».
Robin arrossì e annuì, prendendo a dondolare sul posto « Pensavo fosse meglio ripetertelo. Le persone dimenticano presto cose così importanti ». 
Alec annuì senza riuscire a ribattere. Quand’era stata l’ultima volta che aveva detto a sua madre “ti voglio bene”?
Robin lo ridestò nuovamente dai suoi pensieri « Sai, dovresti essere più sereno, come il cielo in estate. E sarebbe magnifico se fossi più felice. Te lo immagini, un mondo dove nessuno è indifferente e sono tutti felici? Felici come … » la voce di sua madre interruppe a metà il bambino, che sorrise ad Alec « Tra un mese ci rivediamo, vero? Io vengo sempre qui alla stessa ora, nei week end, quindi ci rivediamo ».
Il moro annuì nuovamente.
 
Quel giorno di inizio settembre Alec si era svegliato con la nausea e aveva deciso di bigiare a scuola, andandosene in giro per New York. Pensò che forse Robin sarebbe tornato in città e allora avrebbe fatto un salto in quella gelateria a Central Park, nel week end.
Con l’idea di risentire quella parlantina riempire il silenzio della caotica New York quasi si rilassò, mentre imboccava una via per la West Street.
Era mattina, il tempo pareva scorrere con una lentezza esasperante.
Poi, all’improvviso, New York si svegliò dalla sua indifferenza ed udì un boato, tremò, Time Square impazzì.
Alexander alzò gli occhi verso le nuvole e gli aerei.
Il fuoco dirompeva, il cielo crollava, era striato di sangue.
Le persone urlavano, correvano, soffocavano tra la polvere.
Le alte Twin Towers caddero, prima l’una e poi l’altra, come castelli di carte mal costruiti e spazzati via dal vento.
Parve un tempo infinito, un tempo non misurabile in minuti e ore, bensì ponderabile solo con il senso di panico e di terrore che avvolgeva tutto. 
C’era chi pregava e la città tenne il fiato sospeso, ma in realtà non ci volle molto: è sempre facile distruggere qualcosa di effimero come ciò che creano gli esseri umani.
Gli parve di sentire la voce di Robin che lo chiamava, poi ogni cosa si spense nella polvere. Un improvviso dolore lo aveva colto ancor prima di sapere ciò che era davvero accaduto.
New York si fermò e pianse.
Alexander pianse con lei.
E odiò il mondo attorno, ancora, mille volte più di intensamente di prima.
Anche la terrà crollò, gli crollò sotto i piedi, la città sembrò collassare su se stessa, ma in realtà solo le imponenti torri d’acciaio erano scomparse dall’orizzonte offuscato dalla polvere e dai detriti.
Rimase in ginocchio, gli occhi rivolti al cielo. Stava pregando.
Non sapeva nemmeno chi, ma sperava che qualcuno, da qualche parte, lo ascoltasse.
Doveva ascoltarlo.
 
La settimana dopo, Alexander non riuscì a muoversi da casa sua.
Non era ferito, non aveva avuto bisogno di soccorsi, attendeva solo di svegliarsi dall’incubo, e nel frattempo continuava a far passare lo sguardo dal soffitto color panna alla televisione, che trasmetteva immagini a cui lui non prestava attenzione.
La realtà della cronaca in tutto il mondo era che il cielo newyorkese si era sgretolato e lui si era ritrovato a pensare perché, a cercare di capire cosa fosse realmente successo.
Aveva flash continui di ciò che era accaduto e non riusciva a farsene una ragione.
Non riuscì a rielaborare ciò che stava vivendo. Inciampò tra i vestiti e i libri sparsi sul pavimento, cadendo a terra, e pensò che magari sarebbe potuto rimanere su quelle piastrelle fredde per tutta la vita.
Quando rialzò lo sguardo, incrociò nuovamente lo schermo della televisione, che trasmetteva un servizio sulle vittime all’attentato, e lo vide.
Era una fotografia che ritraeva la piccola copia di Peter Parker, accompagnata da una melodia triste, che Alexander però non percepì.
Si figurò Robin la prima volta che lo aveva incontrato e anche la seconda, quando aveva la bocca ricoperta di cioccolato, il suo abbraccio, la sua voce squillante e la parlantina che all’inizio aveva trovato insopportabile.
Si alzò, pensando a tutti quelli che avevano perso qualcuno, alle migliaia di foto appese sui muri della metropoli, con nomi, volti, recapiti telefonici in attesa di una risposta.
Il giornalista che parlava al telegiornale era un rumore lontano.
 
Alexander scese le scale di corsa, prese al volo lo zainetto pieno di borchie, spille e strappi e ci infilò dentro qualche fumetto di Spiderman scelto a caso dalla sua collezione – quella che non poteva toccare nessuno.
Arraffò un pacchetto di patatine dalla cucina e si fiondò verso la porta, con sua madre che lo fissava stupita.
La voce della donna lo bloccò sull’uscio di casa: « Dove vai? »
« Vado nel centro di ricreazione, quello ad un isolato da qui. » rispose, lanciando una veloce occhiata al piccolo foglio di carta che aveva appoggiato sul mobile all’ingresso.
La signora Ross osservò stupita il figlio « Così vicino? ».
Alexander si voltò e le rivolse un sorriso.
Non era un sorriso propriamente felice, ma era un inizio.
« Certamente. » disse « Non è necessario andare troppo lontano, per aiutare qualcuno. » sussurrò poi, forse troppo piano perché sua madre lo sentisse, e subito dopo uscì.
Prese a camminare lungo la via della Grande Mela sotto quel cielo grigio fatto di smog, con la voce di Robin ancora nitida nella sua testa, a sovrastare il pianto della metropoli ancora in lutto.

 
{ « Dovresti essere più dolce. Come il cioccolato.
E più sereno, come il cielo in estate.
E sarebbe magnifico se fossi anche più felice.
Te lo immagini? Un mondo dove nessuno è indifferente agli altri, dove tutti sono felici?
Felici come … non so come cosa, sai, ma essere felici sarebbe già un inizio, poi troveremo un paragone. »
}







 






 
   
 
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