3. Des coquillages rouges
Vengono e vanno in un sussurro l'onde.
Sembra che l'una dopo l'altra salga
per veder meglio. E chiede una, risponde
l'altra
Giovanni Pascoli
Milo l’onomastico
lo festeggiava in febbraio.
Perché
di anni ne aveva venti e ormai era un uomo. E gli uomini, in Grecia, gli anni
non li festeggiano.
Ma
Camus non lo sapeva.
Perché
Camus non era greco, e quando lo aveva conosciuto Milo di anni ne aveva sei e
il compleanno lo festeggiava ancora.
Camus
non lo sapeva e un regalo (una volta) glielo aveva fatto. Prima che Milo gli
dicesse che il compleanno, lui, non lo festeggiava più.
Ma Camus aveva alzato le spalle e aveva fait la tête. Perché il broncio, Camus, lo metteva poco, ma quando lo metteva Milo non sapeva più dirgli di no. E Camus lo sapeva mettere bene, il broncio. Con le labbra un po’ arricciate e le braccia strette strette sul petto.
Lo sapeva mettere bene, il broncio, Camus; e Milo non riusciva mai a dirgli no (e la testa non andava su e giù. Perché Isavros gli aveva insegnato che la testa va alzata, su e giù, se vuoi dire no).
Avevano quattordici anni, e Milo il compleanno non lo festeggiava più.
Ma Camus non lo sapeva. Perché lui, il compleanno, lo festeggiava. Anche se di regali e auguri non ne voleva sapere.
E aveva fatto un regalo a Milo (ma una volta sola). Perché gli uomini, in Grecia, gli anni non li festeggiano.
Milo lo aveva ancora, il regalo di Camus.
E non lo toglieva quasi mai. Perché era bello, il komboloi che Camus gli aveva regalato. Con il cordone di cuoio e le perle azzurre. Perché i Greci ai bambini mettono collanine azzurre, anche se gli occhi azzurri portano il malocchio.
Ma a Milo l’azzurro piaceva. Perché era il colore del mare (e Camus non glielo aveva ancora detto di odiarlo, il mare).
Era bello, il komboloi di Camus.
E adesso restava fermo attorno al polso. Ma prima, quando Camus il regalo glielo aveva fatto, attorno al polso, fermo, non stava. Perché Milo i polsi li aveva ancora troppo sottili e il komboloi scivolava sempre giù. Ma attorno alla mano Milo non ce lo voleva portare.
Perché il komboloi (che era un regalo) non è un rosario. E attorno alla mano
Milo non ce lo voleva lasciare.
Avevano
quattordici anni, ed era Novembre.
E Milo
il regalo lo aveva accettato lo stesso. Perché Camus se ne andava e Milo non
aveva voglia di dirgli kalò chimòna.
Perché kalò chimòna lo dici all’amico
che va in città per l’inverno. Ma Camus, per l’inverno, in città non ci andava.
C’era
la neve dove andava Camus. La neve alta e fredda ed eterna.
Milo,
la neve, non l’aveva mai vista, e non ci teneva. Perché la neve è fredda e il
freddo a Milo non piaceva. Perché il mare, con la neve, non è più azzurro e non
ci si può nuotare.
Ma a
Camus la neve piaceva; perché la neve se lo mangiava, il mare.
C’era
la neve dove andava Camus, e avevano quattordici anni. Camus era un maestro e in Siberia lo aspettava un
bambino. Ma il mare (che è un mostro) se lo sarebbe mangiato, quel bambino.
E per
l’altro bambino (quello con gli occhi tristi senza mama) il mostro (che è il mare) sarebbe stato Camus.
Avevano
quattordici anni, ed era Novembre.
E non
erano ancora stati separati.
Il komboloi di Camus Milo lo teneva ancora
attorno al polso. Ma adesso non scivolava, perché il polso sottile non lo era
più. Anche se Gavriìl ci giocava e lo tirava, il komboloi non se ne andava. E Milo lo lasciava fare. Perché a
Gavriìl piaceva il komboloi (che era
un regalo) dalle perle azzurre come il mare.
Era
Novembre, e Milo di anni ne aveva venti.
E il komboloi era sempre attorno al polso.
Anche se Gavriìl ci giocava e lo tirava.
Ma
Camus non lo avrebbe più visto, il komboloi
al polso di Milo.
Perché
Camus non sarebbe tornato. E a portarlo
via non era stato il mare (che è un mostro). Ma Camus lo aveva portato via
la neve (che il mare se lo mangia). La neve bianca e fredda ed eterna.
E un
bambino senza mama.
Era
Novembre, e Gavriìl festeggiava l’onomastico. Ma Milo il compleanno non lo
festeggiava. Perché gli uomini, in Grecia, gli anni non li contano.
Camus
lo aveva conosciuto Graviìl. Quando aveva tre anni e si aggrappava alle gambe e
rideva e voleva essere preso in braccio. E Camus in braccio lo aveva preso,
Graviìl.
Avevano
sedici anni, e la domatia sotto
l’arancio con le imposte blu non era stata più vuota. Perché Milo aveva
insistito e Camus non era riuscito a dirgli no.
Graviìl,
adesso, in braccio non voleva più essere preso. E sgambettava sotto l’aglio e i
pomodori appesi ad essiccare. Perché di anni, ormai, ne aveva sette e si
credeva un uomo. Anche se il compleanno lo festeggiava ancora.
Gavriìl
aveva sette anni e la catena d’oro con la croce al collo. E quella catenina, al
collo, gliela aveva messa Milo; perché Isavros era stato boethòs e il padrino regala la catenina d’oro con la croce.
Milo
catenine d’oro con croci al collo non ne aveva. Perché Isavros lo aveva sempre
chiamato Mile, e una mamma e un papà,
Milo, non li ricordava. Ma il komboloi
invece lo portava sempre. Perché il komboloi
glielo aveva regalato Camus (e non sapeva che Milo il compleanno non lo
festeggiava più).
Ma
quando avevano sedici anni Gavriìl voleva ancora essere preso in braccio e
Camus non aveva saputo dire no.
Perché per Camus la testa, quando va su e giù, non significava no.
Camus lo
aveva preso in braccio, Graviìl; ma sulla barca colorata non era voluto salire.
Anche se il mare (che è un mostro sonnacchioso) era calmo e blu e caldo. Perché
il mare, a Melo, è sempre caldo. E c’erano le syrmata con le porte blu e il molo di legno e l’acqua che entra
dentro.
Milo la
ricordava, la giornata con Camus a Mandrakìa.
Graviìl
che sembrava un gatto e l’ouzo forte,
il miele e il bicchiere d’acqua.
Milo,
nella domatia sotto l’arancio, ouzo non ne aveva; ma non importava.
Perché lo sapeva che Kòstas lo avrebbe dato, a Camus, l’ouzo da bere. E Camus lo aveva bevuto d’un fiato, come la vodka (ma
vodka non era). Anche se non sapeva perché.
Camus
l’aveva bevuto l’ ouzo (come beveva
la vodka), e aveva mangiato il miele e lasciato il cucchiaio nel bicchiere. Ma
non sapeva che voleva dire: tornerò.
Perché Milo glielo aveva detto dopo, cosa voleva dire.
Glielo
aveva detto alla sera, sotto i polipi freschi del Mèdousa, con davanti il piatto di marìdes invitante. Perché Camus il mare (che è un mostro) lo
odiava, ma il pesce no. Il pesce non c’era riuscito, a odiarlo. Perché il père il pesce lo pescava e maman, alla sera, lo cucinava e cantava
la canzone. Quella della nave che tornava sempre.
Milo glielo
aveva detto alla sera che l’ouzo (che
è secco e sa di anice e lo si deve allungare con l’acqua) vuol dire: tornerò. Ma Camus non sarebbe tornato,
anche se l’ouzo lo aveva bevuto.
Milo la
ricordava, la giornata a Mandrakìa.
Camus
al tavolo del kafeneìo (perché, a
Dicembre, gli uomini stanno al kafeneìo);
Kòstas che parla, parla e racconta. Racconta di quando Milo era bambino e a
Mandrakìa ci veniva a pescare e i gradini (che sono bianchi e blu) li faceva di
corsa. Tutta una corsa d’un fiato: dalla chiesetta si gira sotto la tamarice e
poi le scale. Un gradino dietro l’altro con il fiato in gola, il piccolo molo e
poi giù, nell’acqua calda che entra in casa, di notte.
Camus
sui gradini del porticciolo (ma non c’era la nebbia, e l’isola del re
addormentato), le reti stese e un gatto che si lascia accarezzare. Camus, i
gatti, li adorava e ci giocava. Anche se il gatto (che era una gatta, in
verità) era nero e lungo il molo camminava un ierèas.
Avevano
sedici anni, e Camus non se ne era andato
e il komboloi di Milo (che era un
regalo) girava e girava contro il tramonto.
Milo la
ricordava bene, quella giornata a Mandrakìa.
Il kafès sketòs dietro vetri appannati e pareti
giallognole di nicotina. Kòstas che ride, ride e parla. Perché Camus era venuto
con Milo, e Kòstas lo conosceva, Milo, da quando per le scale (bianche e blu,
giù verso il porticciolo) quasi ci ruzzolava.
Milo la
ricordava bene, quella giornata.
Le note
rapide del bouzouki e il fazzoletto
che gira di mano in mano. Perché il syrtos
lo si balla con il fazzoletto, in quella lunga spirale che si arrotola e
srotola. Camus non ne aveva voluto sapere, di ballare (anche se il ditirambo,
ad Atene, da bambino lo aveva ballato).
Camus,
di ballare (con il fazzoletto che gira e gira), non ne aveva voluto sapere, ma
rideva e scuoteva la testa (e non voleva dire no. Perché la testa non andava su e giù) e a Milo diceva tu ès à molité fou.
Perché
Camus, il francese, ogni tanto lo parlava. E Milo sbuffava e ruotava gli occhi
perché lui, il francese, non lo capiva. Ma Camus il francese ogni tanto lo
parlava lo stesso (e Milo si arrabbiava); perché era quello che gli restava del
prima.
Per
Camus c’era un prima. Ed era un
paesino in Bretagna, il mare (che ancora non era un mostro e il père non se lo era mangiato) e una nave
che tornava sempre.
Il
francese era il prima. Ma per Milo
non c’era un prima.
C’era
solo sempre. Ed era la sua isola. E
Camus sulla sua isola ci era andato; anche se il mare lo odiava (ma il pesce
no, ne era riuscito, ad odiarlo)
Milo,
il francese, non lo sapeva. Ma non gli importava. Perché Camus rideva (e Camus
non rideva spesso) e il komboloi dal
polso non scivolava più.
E Milo
la ricordava bene, la risata (rara) di Camus.
Perché
a Milo ridere piaceva. Piaceva tanto.
E la domatia (che è sotto l’arancio) non era
stata più silenziosa, quando avevano sedici anni. Anche se Camus diceva che a
ridere, lui, non era bravo. Ma ascoltare lo sapeva fare; e Milo gli raccontava
di quando un marinaio era venuto dal mare, da Cipro. Era un re e Afrodite gli
aveva detto: c’è un’isola a Occidente.
Sarà tua. E allora l’isola ne aveva tanti, di nomi. Come i suoi colori. Ma
il marinaio (che era un re) sull’isola c’era venuto e le aveva dato il suo
nome.
Camus
ascoltava (perché di ridere, diceva, non era bravo) e non pensava che il mare
era un mostro, perché Milo, di raccontare, era bravo. Non pensava al mare (che
ti può mangiare) Camus, ma all’isola azzurra oltre le nebbie, giù in fondo alla
discesa (e devi ricordarti di girare, in fondo alla discesa). L’isola delle
Mele. E Milo aveva riso e gli aveva detto che, allora, sei solo tornato a casa.
A Milo
ridere piaceva tanto.
Perché
la domatia era sempre silenziosa,
fino a quando aveva avuto sedici anni. La domatia
(sotto l’arancio) era silenziosa, ma a Milo il silenzio non piaceva (non aveva
paura; non gli piaceva e basta). Ma
gli piaceva ridere, perché se rideva si ricordava che il silenzio non c’è
sempre (anche se non gli faceva paura).
Camus
aveva riso tanto, quella giornata a Mandrakìa.
Anche
se di ridere, diceva, non era bravo. Aveva riso e, alla sera, aveva aiutato
Graviìl a mettere i tondini scintillanti (che sono il mare. Ma Camus non lo
sapeva) sulla piccola barca a vela.
Milo
non ne aveva, nella domatia, di
barchette di legno e tondini scintillanti. E a Camus, che ancora ridacchiava
con i kourabièdes in mano (e la mano
era appiccicosa, perché lo zucchero si scioglieva), Milo aveva detto: suggnòme.
Perché
di navi e tondini scintillanti, nella domatia,
Milo non ne aveva.
Ma
aveva le kalendas, nella sua testa, e
le aveva cantate. Perché Milo la canzone della nave che torna sempre non la
sapeva cantare (e Camus non glielo aveva ancora detto, che quella era una bella brutta canzone). Ma le kaledendes le sapeva cantare. E le aveva
cantate per Camus, mentre i kourabièdes
(con lo zucchero appiccicoso) finivano uno ad uno.
E
c’erano le chitarre, i violini e le nissiotike
quel giorno a Mandrakìa.
Perché
Milo a casa di Kòstas non ci tornava da tanto e non era tornato da solo.
C’erano le nissiotike, quando avevano
sedici anni e Camus rideva e Graviìl voleva essere preso in braccio.
C’era
anche il clarinetto, quella sera, da Kòstas.
E il clarinetto (di quella sera) suonava ancora. Perché Milo da Kòstas ci era tornato, ma adesso di anni ne aveva venti e il komboloi sempre al polso. Anche se Gavriìl ci giocava e gli piaceva il komboloi (che era un regalo) dalle perle blu.
Ci era
tornato, Milo, da Kòstas. Ed era Novembre.
E
quando gli avevano chiesto: non torna più
quel tuo amico? Milo aveva alzato la testa, su e giù (perché Isavros gli
aveva insegnato così). E aveva detto: no,
non torna più.
Perché Isavros
gli aveva insegnato a rispondere così.
E
Kòstas aveva capito e non aveva chiesto più. Perché Kòstas sapeva del mondo bello come una favola (e che, una favola, non lo
era più). Kòstas sapeva e non aveva fatto più domande.
Ma Milo
non ci voleva ancora credere, che Camus non sarebbe tornato.
Non ci
voleva credere che, a tornare, è solo la nave della canzone. E che la neve se
lo era portato via. Non ci voleva
credere perché Camus, la neve, la amava; perché il mare (che è un mostro) la
neve se lo mangiava.
Milo
non ci voleva credere ancora.
Ma la domatia era di nuovo silenziosa e il
clarinetto suonava. E Camus non rideva più (anche se diceva che, di ridere, non
era capace). Ma Milo scrollava le spalle e scherzava, perché Camus di ridere
era capace, se voleva. Ma Camus non rideva più.
Perché
Camus se lo era portato via la neve
(che è un mostro) che si mangia il mare. La neve e un bambino senza mama.
Milo
non ci voleva ancora credere, che Camus non
sarebbe tornato.
Anche
se era Novembre e Graviìl festeggiava il suo onomastico.
Milo il
compleanno non lo festeggiava, perché gli uomini, in Grecia, gli anni non li
festeggiano. Ma il komboloi attorno
al polso lo lasciava sempre. Perché glielo aveva regalato Camus quando avevano
quattordici anni (e non sapeva che gli anni, in Grecia, non si fanno).
Graviìl
festeggiava l’onomastico a Novembre, e Milo aveva vent’anni.
E Camus
(lo aveva detto, ma non ci credeva) non sarebbe
tornato.
Il
clarinetto suonava e Milo aveva iniziato a battere il piede a terra. Su e giù;
su è giù (come quando la testa vuol dire no).
Aveva
iniziato a battere i piedi, Milo, e a strascicarli. E non gli interessava se
non c’era nessuno a ballare con lui. Perché Kòstas aveva capito e gliela
avrebbe fatta ballare, la miraloghia.
Anche se non c’era nessuno e Graviìl festeggiava l’onomastico.
Milo
non ci voleva ancora credere, che Camus non sarebbe tornato.
Ma la miraloghia la voleva ballare lo stesso.
E forse Camus avrebbe riso (Camus che rideva poco) e gli avrebbe detto tu ès à molité fou. E Milo avrebbe
scosso la testa e alzato gli occhi, perché lui, il francese, non lo sapeva.
Ma
Camus tu ès à molité fou non lo
diceva più e non rideva (Camus non ride quasi mai). E Milo la miraloghia l’aveva ballata da solo,
sulla sua isola. Perché Camus non sarebbe tornato.
Ma Milo
non ci voleva credere, anche se ormai lo sapeva.
Non lo
voleva capire, Milo, che Camus non sarebbe tornato
(perché la neve – un mostro – se lo era mangiato). Ma lo aveva detto. E la mirologhia la stava ballando.
Anche
non ci credeva ancora.
Proseguendo
Ci siamo: terzo capitoletto.
Questa storia, personalmente, mi sta coinvolgendo non poco.
Non perché la reputi ben scritta, un piccolo capolavoro o altro. Anzi, al
contrario: io stesso sono la prima che, ad ogni nuova lettura, trova qualcosa
da modificare, una parola (e non solo una) da modificare, imprecisioni e pezzi
che, proprio, prima mi sembrano di dover esser riscritti, poi mi sembrano
passabili e alla fine, di nuovo, ricomincerei a scriveli.
Però mi coinvolge.
Ed è anche, credo, la storia in cui ho dovuto più di ogni
altra rileggere i vari capitoli mentre li scrivevo. Non perché non avessi
presente la trama (quella c’è. Cambia certo; ma c’è); ma perché la mente di
Milo è incredibilmente bella.
Mi sta coinvolgendo tanto. Punto.
E mi sta permettendo di rivivere ogni conoscenza che ho
della terra di Grecia. E, sarà stupido, ma risento calore, sale e sabbia sul
corpo.
Lo stile, invece.
Battaglia, battaglia. Perché questo flusso di coscienza in terza persona si sta rivelando decisamente
ostico. Mi sono accorta di girare, spesso, attorno alle medesime immagini. E
prima mi sono detta: è normale.
Perché Milo sta ripercorrendo i ricordi che ha di Camus, e soprattutto del
periodo in cui sono stati a più stretto contatto senza preoccuparsi di essere
anche Saint. Poi, di contro, mi sono detta: è
ridondante.
E adesso non lo so più.
Di certo, mi sono accorta di aver mescolato tantissimo gli
elementi del mare e della neve. Insomma: Camus amava il mare, poi lo odia, ma
il pesce (che lo pescava il père) non
riesce a detestarlo e ama la neve che il mare lo mangia. Milo, al contrario, il
mare lo adora, e la neve la odia, perché gli ha portato via Camus. E ognuno dei
due elementi (mare e neve – che in fondo sono sempre acqua) ha tradito o tradisce o tradirà colui che lo ama.
Infine, prima di lasciarvi ai dovuti e sentiti
ringraziamenti, le solite noticine finali (disarticolate e senza riferimento,
ma ho scoperto che inserire rimandi nel testo distrae. Meglio una parentesi finale. Ma ovviamente sono solo
piccole umili impressioni personali).
Rileggendo, non vorrei che fossero troppo lunghe. Se dessero
fastidio, fatemelo sapere; vedrò di trovare un’altra soluzione.
1. Ab
ovo, ovvero parto dal titolo: Des coquillages
rouges [ Delle conchiglie rosse]. In verità, conchiglie non se ne trovano, in
questo capitolo. Ma ho scelto questo titolo per il valore simbolico che la conchiglia
possiede: la riflessione. E
soprattutto la riflessione intimistica. Il rosso, invece, l’ho scelto, fra la
tavolozza cromatica, perché in Grecia è un colore apotropaico, cui si ricorre
per esorcizzare il timore di un possibile litigio. Le conchiglie rosse sono, quindi, fuori di allusione, alcune
riflessioni di Milo sui suoi ricordi per cercare di superare (e ancor prima
elaborare) il lutto ed evitare di litigare
con se stesso in primo luogo.
L’onomastico di Milo è il 23 febbrario (San Milo di
Benevento), ma anche il 22 Maggio. La scelta di preferire Febbraio a Maggio è
dettata unicamente dal fatto che anche Camus è nato in quel mese e mi allettava
l’idea di un riferimento soffuso.
3.
fait la tête è espressione colloquiale e
piuttosto giovanile per dire mettere il
broncio.
Tu ès à molité fou, invece, significa tu
sei matto (detto in tono bonario)
4. Il komboloi sono le cosiddette “perle dell’ansia”. Molto diffuse in
Grecia, sarebbero la rivisitazione del rosario mussulmano (tasbhi) o cattolico,
ma senza un numero preciso di grani. L’origine, tuttavia, rimane incerta, e
benché esistano monaci che indossino rosari molto simili al komboloi la sua funzione unicamente
religiosa non è attestata. Solitamente, in quando comunemente oggetto
antistress, il komboloi si tiene in
tasca e nel momento di usarlo lo si posiziona sulla mano, attorno al dito
medio, per poi farlo oscillare con un movimento della mano (per maggiori
informazioni: http://www.rhodian.com/komboloi.htm).
Milo, anti convenzionalmente, tiene il komboloi attorcigliato al polso come un braccialetto e non lo usa
come scaccia tensione, in quanto per lui riveste un particolare significato
affettivo. Soltanto nella scena del tramonto, sui gradini, il komboloi mi Milo viene fatto girare,
pressappoco come vorrebbe l’uso normale.
Un’ultima piccola nota: komboloi,
in greco, sarebbe plurale, in quanto, appunto, significa perle
dell’ansia. Ho preferito tuttavia l’articolo al singolare, intendendo braccialetto di perle dell’ansia.
5. kalò chimòna, in greco
moderno, buon inverno, tipico saluto
che, in ottobre-novembre, gli isolani si rivolgono al momento di imbarcarsi sui
traghetti, in quanto la maggior parte dei Greci, in inverno, lascia le isole,
soprattutto per lavoro, e si trasferisce in città e sul continente.
6. Gavriìl, in italiano Gabriele, in
Grecia festeggia l’onomastico il giorno 8 Novembre (compleanno di Milo),
assieme a San Michele. La festa è avvertita come importantissima in tutto il
Paese.
Kòstas, invece, è il diminutivo familiare di Kòstantin
7. Boethòs,
in greco moderno, significa padrino.
Il battesimo greco avviene ad un anno di distanza dalla nascita del bambino,
che fino a quel momento non ha nome e viene semplicemente chiamato bebi. Dopo esser stato immerso nel fonte
battesimale e aver ricevuto il nome, il bambino viene vestito di bianco, riceve
il sacramento della benedizione e il prete gli mette al collo una croce d’oro
impartendogli la prima comunione. Proprio questa croce d’oro è, solitamente,
regalata al bambino da parte del o dei padrino/i, che ricoprono un ruolo
basilare nel rito e a fine cerimonia vedono la propria mano baciata dai
genitori del battezzato.
9. Mandrakìa: minuscolo villaggio di pescatori costruito lungo un promontorio
roccioso con vista sullo stretto con Kimolos e caratterizzato dalla presenza
delle syrmata, darsene di forma
cubica scavate nella racca da mare, vento e anche dalla mano dell’uomo, una
volta usate solo come riparo per le imbarcazioni, ma successivamente anche come
vere e proprie abitazioni. Dal momento che affacciano praticamente sul mare,
con l’alta marea il sottile spazio di banchina viene sommerso e l’acqua filtra
nelle case, con le loro caratteristiche porte colorate. Il porticciolo cui
Kòstas fa riferimento esiste realmente, così come le scale che Milo da bambino
percorreva e anche la chiesetta, che sono posti nella zona nord-nord-ovest del
piccolo borgo.
Esiste anche il Mèdousa, che costituisce l’unica taverna di tutto il paesino ed
affaccia direttamente sul mare. Secondo l’uso greco, i polipi vengono appesi a
fili accanto alle case e ben visibili dai tavolini dei ristoranti.
Ecco lo scorcio di Mandrakìa cui faccio riferimento
nella storia:
10. Nota gastronomica: l’ouzo è uno dei tradizionali liquori
greci, a base soprattutto di aneto e capace di raggiungere i 40° o 50°. Quando
una persona si reca in visita, specialmente se straniera, l’usanza greca vuole
che gli si offra un bicchiere di ouzo
(solitamente allungato con acqua e ghiaccio e usato come dissetante o
aperitivo), un vasetto di miele e un bicchiere d’acqua. L’ospite deve bere il
liquore, mangiare un cucchiaio (e uno solo!) di miele e mettere il cucchiaio
nel bicchiere, come promessa che tornerà.
I marìdes,
invece, sono bianchetti infarinati e fritti in olio d’oliva, solitamente
serviti come primo o secondo. Si servono con lattuga (possibilmente di Kòs),
aneto e cipolle novelle.
Il kafès sketòs,
letteralmente caffè amaro, è il
tipico caffè greco, preparato facendo bollire la polvere di caffè in appositi
bricchi chiamati briki e servito in
tazzine piccole. Ha un sapore intenso e un aroma particolare, per cui va bevuto
solo dopo che la polvere si è depositata sul fondo. Il kafès viene servito in vari locali, fra cui appunto il kafenèio, che in Grecia rappresenta una
vera e propria istituzione e rappresentano, soprattutto nei piccoli paesi, un
vero e proprio universo (quasi) esclusivamente maschile.
11. Altra piccola nota linguistica: ierèas significa prete. Secondo la superstizione greca, vedere
nello stesso giorno un prete e una gatta nera attira la sfortuna.
Suggnòme
significa, invece, scusami.
Per anzianità, parto dal ditirambo,
un ballo (e un canto) sacro in onore di Dioniso, che i bambini in età compresa
fra i sette e i sedici anni erano soliti eseguire durante le Panatenee prima
dell’apertura delle giornate dedicate al teatro. Essendo vissuti al Santuario
per due anni almeno (dai sei agli otto) e considerando che il Tempio vive in
una specie di non-tempo, sia Milo che Camus possono aver dovuto imparare ed aver
eseguito il ditirambo.
Il syrtos è la
danza più diffusa sulle isole ed è effettuata ancora secondo la consuetudine
antica con i ballerini che creano lunghe catene perfettamente cadenzate e che
si tengono per mano con l’ausilio di un fazzoletto, visto che il costume non
prevedeva la possibilità del contatto fisico.
Tutti questi balli, solitamente, sono accompagnati da
chitarra, violino, clarinetto (da solo per quanto rigurda l’ultimo) e dal bouzuoiki, un particolare strumento a
tre corde rifatto su un simile strumento di ascendenza antica.
L’ultima è la mirologhia,
un canto di origine epirota eseguito per la commemorazione dei defunti e in
occasione dei funerali e caratterizzato da un misto di austerità, di poesia e di angoscia quasi
intollerabile e con un movimento ritmato o strascicato dei piedi. Il
clarinettista che l'accompagna compie prodigi di virtuosismo.
Le nissiotike invece sono
specie di canzoni popolari, nate nelle isole . Ogni isola ha il suo nissiotico e il suo modo di ballarlo. Il
violino, la lira, il clarinetto e la chitarra, accompagnano le alte voci
femminili e la bassa voce di un unico uomo.
13. Il nome Melo, in greco, significa mela, così come Annwyn, in cornico e in
bretone, deriverebbe dalla radice aval,
che appunto significa mela. La frase
di Milo si basa unicamente su questo gioco di parole: Camus sarebbe
semplicemente tornato all’isola delle
mele.
[Remerciements]
Shinji: felice davvero che entrambi i
capitoli siano stati di tuo gradimento^^
Miloxcamus: Già: Milo non è affatto il solo,
fra i Cavalieri d’oro, cui le forbici non stanno molto simpatiche. Ma dovranno
averle anche loro, no, le loro piccole manie? Milo, in questo momento, è
completamente dipendente da Camus. O meglio, dal suo ricordo. E, a voler esser
precisi, sta girando attorno a tutta la sua memoria. Perché, finora, si sta
riferendo solo al passato lontano, non a quello più vicino. Ma dovrà decidersi
ad affrontare anche quello.
Grazie anche per l’immagine. Trovarla per caso in internet è
stato una specie di colpo al cuore (predestinazione? XD)
Lily88: di nuovo (perdona se sono
ripetitiva) ti ringrazio per la recensione ampia. E hai perfettamente ragione:
questo capitolo è ingenuo, fin troppo a volte. Ma ho sempre ritenuto che le
condizioni di allenamento al santuario dure, ma mai spietate, almeno fino a
prima di Arles. Parallelismi. Oddio. Sto costruendo la storia, tutta, su parallelismi
e rimandi fra capitoli. E sto decisamente incastrando
Camus e Milo. E Milo si sta rivelando estremamente arduo da giostrare. Sembra
tanto infantile, quasi lineare e ingenuo. Eppure nasconde una profondità che,
davvero, mi spaventa.
Gufo_Trave: Ti scusi?! Perdona, ma qui l’unica
che deve scusarsi sono io, che non mi sento capace di ringraziare a dovere la
cortesia che mi usi. *inchino-inchino*.
Camus e Milo, in effetti, li vivo così: complementari. In bene o in male. Camus odia il mare,
Milo lo ama. Milo odia la neve, Camus la adora. E in mezzo ci sta Hyoga, che
ama e odia neve e mare. La storia è il lutto di Milo, certo, ma Hyoga non posso
dimenticarlo e Milo dovrà decidersi ad affrontare anche quel pensiero.
Infine, un grazie speciale a Blackvirgo.
E le mie scuse per il lungo silenzio (la casella di posta ha
dato ancora qualche problema). Adesso ho sistemato ed è nuovamente tutto
regolare.