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Autore: fiorinatinelcemento    12/09/2014    1 recensioni
Riley Coleman è una ragazza inglese ritrovatasi in Australia all'inizio del 2013 a causa del lavoro del padre, psicologo in una clinica di recupero per persone drogate o alcolizzate. Qui, il padre intreccerà una relazione con una donna in cura, Jenna, che nella loro vita porterà il figlio adolescente, Ashton. Quando Jenna andrà via lasciando un vuoto nella vita del figlio e del compagno, Riley si ritroverà a mettere da parte il cinismo che la caratterizza e a provare ad essere da sostegno per i membri della sua inusuale famiglia. Ignara di come una cosa del genere, per la prima volta, scuota Ashton dalla sua perenne chiusura emotiva, si ritrova in qualcosa più grande di lei, mentre nella sua vita entrerà silenziosamente un'altro ragazzo, Luke.
Lei si ritroverà in mezzo ai due, ma questa storia non è una favola a lieto fine. Qui si racconta di diversi modi di amare, di sentimenti provati per la prima volta, di come si impari a lasciare andare, delle volte. E' così che si racconta la vita, è così che va, a volte.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Capitolo 1.
I wish I had a normal life.     
                                                     (12 Dicembre 2013)

Come ogni mattina della mia nuova vita in Australia, mi era toccato alzarmi e far fronte ai miei doveri di studentessa, doveri più comunemente denominati scuola. Sebbene fosse una delle cose meno necessarie nella mia vita, preferivo comunque studiare e portare buoni voti per evitare che la già evidente frustrazione di papà si trasformasse in astio profondo. Eravamo già quasi al periodo natalizio, periodo per me totalmente inutile nel quale, secondo delle strane leggende, le case venivano addobbate e si compravano regali per i familiari. Io non avevo mai avuto un padre molto affezionato a certi tipi di eventi, mentre l’assenza di una figura femminile in casa aumentava il nostro scetticismo e poco entusiasmo verso la nascita di un Dio che beh, non ho mai avuto l’onore di vedere. I miei si erano sposati in chiesa, ma dopo la morte di mia madre mio padre ha praticamente chiuso in un cassetto ogni cosa che potesse anche solo fargli venire un dubbio su qualcosa che non fosse scienza. Mamma, per lui, era morta di malattia e basta. Nessun Dio aveva visto in lei un elegante fiore da trapiantare nel suo mistico giardino, quindi non vedevo perché ad andare a messa con la nonna, dovevo essere io.
E’ incredibile poter notare quante insane e contorte riflessioni potessero nascere dal semplice imput di una doccia tiepida appena svegli. L’iperattività di pensiero uccide, dicono, ma non per quello avrei rinunciato alla caffeina, mio amore indiscusso dall’età di dodici anni. Dopo aver asciugato la mia chioma da Jessica Rabbit dei poveri, come amavo chiamarla io affettuosamente, corsi in camera ancora in asciugamano, giusto in tempo per non farmi vedere da un esemplare di Ashton sconosciuto ad occhi umani da almeno una settimana. “Dio, se ci sei, ti prego di non sottopormi mai più al rischio di un evento così imbarazzante”, mi ritrovai a pensare, tornando a quel discorso mentale che stavo facendo a me stessa nella doccia. E mentre la mia mente elaborava pensieri propri un po’ come può fare un matto dedito ai monologhi, mi ero vestita automaticamente, ovviamente avevo l’aspetto di una che si era vestita al buio. Sfilai la maglietta arancione, che nemmeno sapevo esistesse nel mio armadio, e ne infilai di fretta una blu notte, colore che si abbinava decisamente meglio a quelli che erano i miei colori. Non per nulla avevo contornato i miei occhi blu con una semplice matita di un colore poco vistoso, mentre sulla faccia non spiccava nessuna traccia di fondotinta o altro corpo estraneo. Le labbra erano abbastanza piene da e rosee da non aver bisogno di rossetti o altri intrugli da principessina di bellezza. Nonostante le curve non mi mancassero, mi ritenevo ben proporzionata grazie alla mia altezza, nel complesso mi andavo bene così. Voglio dire, non facevo invidia a Barbie, ma fare invidia ad un concentrato di plastica uscito da una mente malata non era di certo un’ideale di vita, almeno non per me.

Il solito rituale della preparazione mattutina si era concluso con il consueto bicchierone di caffè amaro, ma ci fu una grossa sorpresa, o un miracolo, quella mattina. Ashton, invece di ciondolare sul divano come ogni mattina da quattro mesi a quella parte, era vestito, insolitamente profumato, fermo davanti alla porta a fissarmi.
Solitamente non avevamo grande dialogo, ma quel suo comportamento mi inquietava. “L’orso è uscito dal letargo o cosa?” dissi io, involontariamente sarcastica verso chi, ovviamente, era meglio non esserlo. “Torno a scuola, rossa.” Furono le sue parole. Non sapevo se essere più terrorizzata o sollevata da quella notizia, ma in quel momento decisi che potevo cogliere il lato positivo della cosa ed evitare di prendere il bus. “Bene, allora oggi mi farai vedere come guidi un’auto, sempre che tu non sia troppo pigro anche per quello.” D’istinto afferrai le chiavi della seconda auto, ovvero quella che mio padre mi aveva comprato per il compleanno e che io, per forza di cose, non avevo ancora utilizzato per l’ovvia assenza della patente di guida.
Se guardando il dolce, angelico faccino di Ashton credete di potervi fidare di lui, vi sbagliate di grosso. La sua intenzione, più che la mia auto, riguardava la sua moto. Inutile dire che Riley Coleman non era una fifona, non esternamente almeno, quindi è inutile dirvi che avev accettato senza ribellarmi.

“Tu sei completamente matto, Ashton!”
Le mie urla di disappunto le sentirono tutti, ne ero sicura, ma poco mi importava. Quando la moto varcò il cancello della scuola e si fermò con una sgommata, non tardai a scendere e togliere il casco, scaricandolo al suo petto. Avevamo rischiato di schiantarci come minimo contro tre macchine per via della sua guida molto discutibile, in più era passato davanti allo scuolabus facendo i gestacci ai ragazzi e al conducente. Se aveva intenzione di metterci nei guai, ci stava riuscendo alla grande.
“Oh, avanti, capisco che sei inglese, ma non essere così bacchettona!”
Il suo tono di voce mi risultava totalmente stupido, irritante, ma sentirlo ridere dopo tutti quei mesi era rincuorante e faceva sì che mi venisse il cuore tenero.
“Guardate, il figlio dell’alcolizzata è tornato a scuola. Che c’è, la mancanza della mammina ti ha fatto rimanere a casa a piagnucolare?”
Ed ecco il cliché dei cliché. Poteva mai mancare il cretino tutto musocli, surf e football a rompere in un liceo per figli di papà? Ovviamente no. E si era messo contro quello sbagliato, perché Ashton aveva già abbandonato la sella della moto ed era sul piede di guerra. Brandon Twain sapeva come colpirlo, purtroppo. Istintivamente gettai a terra lo zaino e mi misi in mezzo ai due, anche se Ashton mi sovrastava in altezza.
“Tappati quella bocca, Twain, o giuro che ti stacco i denti uno per uno a mani nude e poi te li faccio ingoiare.”
La voce di Ash era quasi un ringhio, non mi piaceva. Chissà quanto ci era voluto per costruire un muro intorno a quella vicenda e alle dicerie che circolavano.
“Provaci Irwin, mal che vada potrai seguire le orme di tua madre e affogare le tue frustrazioni nell’alcol.”
Questo era troppo, era troppo davvero che lui facesse di tutto per minare la serenità di un persona che sostanzialmente non gli aveva fatto assolutamente niente. Ashton, dal canto suo, era già in precario equilibrio scolastico per via delle assenze, una sospensione per rissa  lo avrebbe portato dritto alla bocciatura. Premetti entrambe le mani sul petto del mio fratellastro e lo spinsi via, poi mi rivolsi all’altro.
“Ascoltami bene, Twain. Se non vuoi il setto nasale KO è meglio che tu vada a rendere più interessante la tua miserabile vita da un’altra parte, perché non è giornata.” Mi avvicinai a lui così pericolosamente che per un attimo sembrò che lui avesse paura, ma no, non poteva permetterselo. Brandon Twain non poteva avere paura davanti a tutta la scuola.
“Coleman, vai a fare la puttanella altrove.”
A quel punto non sapevo chi, fra me e mio fratello, volesse picchiarlo più forte. Nel frattempo si era raccolta una folla consistente intorno a noi. Il pugno al naso di Brandon partì dalla mia mano con una tale spontaneità e violenza, che l’adrenalina mascherò il dolore per almeno un paio di minuti. Brandon era a terra, io ero soddisfatta di me, ma sapevo che lui non si faceva tanti problemi a fare a botte con qualcuno, nemmeno se si trattava di una ragazza più piccola. Come previsto, si stava rialzando e mi si stava avventando contro, io ero già pronta al dolore che probabilmente avrei sentito di lì a pochi secondi.

Cliché numero 2, non lo avevo considerato. Il classico cavaliere che ti salva quando ti rassegni al fatto che stavolta le prenderai di santa ragione.
Riaperti gli occhi, Brandon era di nuovo a terra e stavolta con un occhio pesto, quasi sanguinante.
“Chiedile scusa.”
Il ragazzo davanti a me aveva più o meno la stazza di Ashton, mi indicava e parlava con tono calmo. Brandon lo guardava con aria di disprezzo.
“Ho detto chiedile scusa, Twain. Fallo o sarò felice di beccarmi una sospensione per averti pestato a sangue.”
Brandon, per tutta risposta, si alzò. Era come se sapesse che ne era capace, gli si leggeva in faccia qualcosa di simile a timore misto a rispetto, più qualcosa che non riuscivo a decifrare.
“Anzi, chiedi scusa a entrambi e vattene.”
Allora lo disse, a denti stretti e sottovoce, sotto gli occhi di tutta la scuola.
“Scusatemi.”
“Più forte.”
Il ragazzo davanti a me lo incitò con l’aria di chi non si sarebbe trattenuto. Brandon fu costretto a ripetere a tono più alto, lo sconosciuto si girò poi verso di me. Non mi sbagliavo, era biondo. Gli occhi azzurri, i lineamenti induriti dalla sua espressione, giocava con il piercing al labbro.
“Bene, adesso andate in classe.”
Il biondo, di cui ancora non conoscevo il nome, si rivolse a tutti gli studenti e rimase finchè l’intera folla non fu tornata alle lezioni, Brandon era entrato in auto e se n’era andato insieme agli idioti del suo misero gruppetto di surfisti. Io stessa avevo un compito di biologia da svolgere, ma dovevo prima fare qualcosa per la mano indolenzita.
“Tu.”
Lo sconosciuto si rivolse a me con fare noncurante, guardando però Ashton come se gli stesse implicitamente dicendo di tenermi d’occhio.
“La prossima volta evita di metterti nei guai..” continuò, le labbra tradivano un leggero sorriso “..e fai qualcosa per quella mano.”
Afferrò la sua tracolla a qualche passo di distanza da noi, poi si avviò al cancello. Ashton, per tutta risposta, mi cinse le spalle con il braccio e mi scortò fino all’infermeria. Gli avevo detto di non farlo, ma non mi diede ascolto. Mi voltai, chissà se lo avrei rivisto.


Bene, eccoci qui. Sono l'autrice e questo è un piccolo spazio per ringraziare chi segue, mette in preferito e recensisce, chi mi dà dei consigli per migliorare  e mi fa crescere come scrittrice. Un grazie speciale va a tutti coloro che leggono, fatemi sapere che ne pensate, la mia casella di posta è lì per voi! Un abbraccio!

   
 
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