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Autore: Ekaterina Belikova    12/09/2014    1 recensioni
La storia ha inizio il 16 gennaio 1941 a Charleston, West Virginia. In tutta l'Europa imperversa la terribile e distruttiva Seconda Guerra Mondiale e, nonostante, gli Stati Uniti non siano ancora entrati in guerra vengono continuamente mandati volontari, scorte di cibo e armi per aiutare gli Alleati.
Elizabeth "Liz" Williams è la figlia di uno dei più importanti generali dell'Esercito americano e ha appena compiuto diciassette anni. Anche se vive lontano dalla guerra è costantemente preoccupata che il suo adorato fratello maggiore Henry venga mandato al fronte ed è consapevole, a differenza delle altre ragazze della sua età, di quello che sta succedendo nel mondo.
La sera del suo compleanno esce di casa di nascosto per andare a ballare con la sua migliore amica Emma, ma non sa che questo la porterà incontro a un enorme cambiamento di nome James Carter.
Dal testo:
"Era giovedì 16 gennaio del 1941, giorno del mio diciassettesimo compleanno, nonché il giorno in cui la mia vita cambiò per sempre. La mia vecchia vita fu stravolta e spazzata via come un uragano lasciando posto a qualcosa di ancor più bello e allo stesso tempo ancor più terribile. "
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Storico
Capitoli:
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Quinto capitolo

 
 
Quando mi svegliai erano passate le cinque da pochi minuti e James dormiva sereno stringendomi fra le braccia. Cercai di liberarmi senza svegliarlo, ma doveva avere il sonno alquanto leggero dato che aprì subito gli occhi guardandomi disorientato per qualche secondo. Gli rivolsi un timido sorriso e le mie guance si tinsero di rosso a causa della situazione in cui ci trovavamo.
 
-Oh, Elizabeth… che cosa sei? –esclamò con la voce roca e chiuse gli occhi sospirando. Il mio corpo venne percorso da un intenso brivido dopo le sue parole. Mi feci coraggio e alzai una mano per accarezzarli la guancia e sfiorare una piccola cicatrice sotto l’occhio destro che era difficile da scorgere da lontano. Riaprì gli occhi di scatto e mi fissò quasi spaventato. Continuai ad accarezzarlo sentendo la morbidezza della sua pelle e la ruvidità della barba che iniziava a ricrescere. Percorsi il contorno delle sue labbra con la punta delle dita e sentii una morsa alla bocca dello stomaco. Il mio cuore batteva sempre più forte mentre le mie carezze si estesero sulla mascella, sul mento e sul collo.
Ad un tratto James mi afferrò la mano fermandomi e rimasi sorpresa dal suo gesto, forse avevo frainteso i suoi sentimenti nei miei confronti pensando che potesse provare quello che sentivo io. Cercai di non fargli scorgere la delusione nel mio sguardo mentre aspettavo una spiegazione e mormorai delle scuse.
-Non scusarti, Elizabeth. Non ti ho fermata perché non ho gradito i tuoi gesti –disse continuando a tenere la mia mano fra la sua molto più grande.
-Ma… -cercai di dire qualcosa, però fui interrotta da lui.
-L’ho fatto perché sei nel mio letto, fra le mie braccia e sono pur sempre un uomo, piccola Elizabeth – continuò con la voce sempre più roca. Arrossii violentemente alle sue parole perché ne compresi appieno il significato. Lui mi desiderava.
-Oh… - sussurrai abbassando lo sguardo.
-Non hai idea di quello che provochi dentro di me ogni volta che ti guardo –disse e alzai lo sguardo sorridendogli.
-Credo di saperlo, invece, perché anch’io provo lo stesso – confessai arrossendo ancora di più, anche se pensavo non fosse possibile. Sentii le sue braccia stringermi più forte e le sue labbra baciarmi la fronte a lungo, come se non volesse lasciarmi andare.
Restammo così per un po’ di tempo, l’una tra le braccia dell’altro senza riuscire a dire o fare di più. Ci bastava guardarci negli occhi e sfiorarci con la punta delle dita e con gli sguardi.
-Puoi accompagnarmi da Emma? –chiesi spezzando il silenzio.
-Ora?
-Sì, così riuscirò a entrare in camera sua prima che sua madre si svegli – risposi. James annuì e mi liberò controvoglia dalle sue braccia.
 
Dieci minuti più tardi eravamo in auto, diretti verso la città e la mia destinazione. Le nostre mani erano intrecciate e provavo un dolore quasi fisico al pensiero di dovermi separare da lui. Arrivammo troppo in fretta e non riuscivo a salutarlo. La notte passata insieme aveva portato il nostro rapporto a un altro livello e aveva anche reso difficile starci lontani.
 -Voglio rivederti, Elizabeth, e starti accanto ogni singolo giorno finché non partirò – disse allungando una mano per accarezzarmi i capelli. Fremetti sotto il suo tocco e socchiusi gli occhi. –Anche io, James, ma non voglio pensare alla tua partenza o alla mia per ora. Voglio solo godermi il tempo che possiamo passare insieme.
Ci guardammo negli occhi per un tempo interminabile, poi James si schiarì la voce, gli posai un bacio sulla guancia, e scesi dalla macchina salutandolo un’ultima volta.
 
Senza non poca fatica riuscii a entrare nella stanza di Emma dalla finestra, dopo averla svegliata tirando dei sassolini sulla superficie sottile del vetro. Tolsi i vestiti e m’infilai sotto le coperte accanto a lei rabbrividendo a causa del freddo. Eravamo entrambe stese su un fianco, una di fronte all’altra, e lei teneva la testa appoggiata a un gomito per guardarmi meglio.
-Allora? –chiese lei maliziosa mordendosi il labbro inferiore, segno che era estremamente curiosa.
-Che cosa?
-Lo avete fatto? Racconta, su –mi esortò facendomi arrossire.
-No, Ems, abbiamo solo parlato per ore e dormito –risposi tranquillamente.
-Non vi siete nemmeno baciati?
Scossi la testa in segno di diniego e lei manifestò il suo evidente dispiacere.
-Oh Santo Cielo, Liz, che cosa vi ci vuole per capire che siete pazzi l’uno dell’altra? – chiese quasi esasperata facendomi ridere.
-Però abbiamo dormito nello stesso letto, abbracciati per tutta la notte, e mi ha chiaramente detto di desiderarmi più di quanto sia lecito – le confessai alquanto imbarazzata, un po’ per accontentarla e un po’ per convincermi che i fatti accaduti quella notte fossero reali e non solo frutto della mia mente.
Emma quasi cacciò un urlo, ma si trattenne portandosi una mano davanti alla bocca per evitare di svegliare la madre. Ci guardammo per un po’ negli occhi sorridendo e poi scoppiammo a ridere. Adoravo la mia migliore amica, le volevo un bene infinito, e - per un breve ma intenso istante - pensai a come sarebbe stato se avessi perso anche lei, com’era appena successo con Lucas. Smisi di ridere e diventai seria, pensierosa e le lacrime minacciavano di uscire da un momento all’altro, di nuovo. Deglutii cercando di fermarle e di non far capire a Emma i miei pensieri, ma lei se ne accorse ugualmente, mi conosceva troppo bene.
-Ehi, Liz, non essere triste! - esclamò dolcemente accarezzandomi la guancia. –Lucas è in un posto migliore adesso, dove non c’è tutta questa sofferenza e crudeltà.
-Come fai a dire una cosa del genere? Lui voleva vivere, tornare a casa, sposare Diana. Dovevamo fare quel viaggio, Emma! – dissi alzando di un’ottava il tono della voce.
-Lo so, tesoro, ma ci sono persone destinate a vivere ottant’anni e altre diciotto. Pensa che è morto felice di sapere che tu e Diana lo avete amato e lo amate ancora così tanto. È morto per dare un futuro felice a te, a noi e ai nostri figli…
Non risposi, mi limitai a farmi abbracciare dalla mia migliore amica e a pensare agli occhi incredibilmente azzurri di Lucas e al suo sorriso, finché non mi addormentai.
 
 
 
Ero nella mia stanza, seduta sul bordo del letto, con il cappotto ancora addosso e in mano un pacco di lettere. Dieci per l’esattezza.
Appena entrai in casa, mia madre mi consegnò quelle lettere tenute insieme da uno spago che il postino aveva portato il giorno prima. Erano tutte di Lucas, lettere arretrate che non erano arrivate perché il servizio postale era altamente scadente. Sembrava quasi uno scherzo del destino, il fatto che quelle lettere fossero arrivate tutte in una volta e proprio in quel momento in cui avevo bisogno di sentire che Lucas aveva davvero fatto parte della mia vita. Sentivo la necessità di avere qualcosa che portasse un pezzo della sua anima per tenerlo nel mio cuore e nei miei ricordi per sempre. Avevo preso le lettere e, sotto gli sguardi preoccupati della mia famiglia, ero salita al piano di sopra.
Presi un respiro profondo e slegai lo spago per liberare le buste. Guardai le date, la più vecchia risaliva a sei mesi prima e l’ultimo al giorno del mio compleanno. Non trovai la forza per aprirle, lo avrei fatto in un momento più lontano, quando il dolore per la sua morte sarebbe stato un po’ meno forte.
 
All’ora di pranzo, mia madre m’informò che il funerale si sarebbe tenuto martedì e che quel pomeriggio sarebbe andati tutti a casa Hemmings per dare supporto ad Anne.
-Andrò da Diana per vedere come sta – dissi prima di mettere in bocca una forchettata carne.
-Che non ti venga in mente di andare al fronte, Henry, altrimenti ti uccido con le mie mani! – esclamò mia madre minacciando mio fratello maggiore con la forchetta. Il diretto interessato deglutì, evidentemente terrorizzato da nostra madre, e annuì con foga. Nostro padre scoppiò a ridere e lanciò uno sguardo amorevole alla mamma: -Mia cara, se tu minacciassi in questo modo Hitler, la Germania si ritirerebbe dichiarandosi sconfitta! - La mamma divenne paonazza e lanciò un’occhiataccia al marito e a noi altri che stavamo ridendo per la sua espressione buffa e indignata e per la battuta di papà.
 
 
Più tardi, quel giorno, andai a casa Roberts e dopo aver suonato il campanello mi aprì Pam. Aveva un’espressione triste sul viso, i capelli leggermente scompigliati e una macchia sulla spalla destra.
-È chiusa in camera sua da ieri pomeriggio e non ne vuole sapere di mangiare, né di uscire, né di alzarsi da quel maledetto letto…
La seguii verso la stanza della nostra amica limitandomi ad annuire. La bellissima Diana Roberts era rannicchiata sul letto come una bambina, indossava gli stessi vestiti del giorno precedente, aveva le occhiaie scure sotto gli occhi, le labbra screpolate e rovinate dai morsi, le guance e il cuscino bagnati di lacrime e stringeva al petto una fotografia di Lucas. Sembrava così piccola e fragile, era stata picchiata, torturata, distrutta, annichilita dal dolore.
Mi sedetti sul bordo del letto, accanto a lei, e le spostai una ciocca di capelli dalla fronte.
-Come riesci a respirare, a vivere? – chiese con la voce roca a causa del pianto e del prolungato silenzio.
-È difficile, ma lo faccio per lui – rispondo con la voce ridotta ad un sussurro.
-Che vuoi dire? Lui, ormai, è… - non riuscì pronunciare l’ultima parola.
-Lucas era allegro e sorrideva, sempre. Se potesse ci direbbe di andare avanti, vivere, amare, ridere per lui. – Abbozzai un sorriso. – Non avrebbe mai voluto vederci tristi, nemmeno per la sua morte.
-E cosa dovrei fare? Alzarmi e fare finta che non sia successo niente? – Si stava alterando.
-Certo che no. Nessuno te lo chiede, Dee. –Inspirai profondamente prima di continuare. – Alzati da qui, esci fuori e vivi! Non devi dimenticare o smettere di soffrire perché è impossibile, col tempo ti abituerai al dolore e ti sembrerà che non ci sia più. Ma vivi, Dee, fallo per lui che non può più!
-Come fai a sapere che funzionerà?
-Non lo so, ma è quello che ho intenzione di fare io! – Le baciai la guancia umida di nuove lacrime e mi alzai dal letto. –Ho sentito profumo di torta al cioccolato quando sono entrata e credo che i dolci di tua madre siano il modo migliore per iniziare a vivere!
Pam scoppiò a ridere e Diana abbozzò un sorriso mettendosi a sedere sul letto. Diede un’ultima lunga occhiata alla foto di Lucas e la posò sul comodino. -È quello che avrebbe fatto lui, siete uguali, Liz! – esclamò alzandosi.
Passammo il resto del pomeriggio mangiando la torta al cioccolato della signora Roberts, bevendo the caldo e raccontando vecchi aneddoti su Lucas davanti al camino acceso. Come quella volta a cinque anni –dopo che sua madre ci lesse “Peter Pan” -, quando si buttò giù dal tetto di casa sua pensando di riuscire a volare grazie ad un pensiero felice e alla cipria di Anne Hemmings –credeva fosse polvere di fata! - L’unica cosa che ottenne fu una gamba rotta, un mese di punizione e le prese in giro dei suoi fratelli.
-Hai intenzione di partire anche tu? –chiese Diana con un filo di voce.
-Domani andrò alla base, però molto probabilmente mi manderanno in un posto come Pearl Harbor. Non andrò in guerra finché non sarò costretta – dissi cercando di tranquillizzarla. A dire il vero, non ero molto sicura di quello che avevo appena detto. Ero abbastanza coraggiosa o matta – pensatela come vi pare – da andare al fronte perché c’erano soldati che avevano bisogno di cure o anche solamente di qualcuno che tenga loro la mano durante gli ultimi istanti di vita.
-Promettimi che starai attenta quando arriverà il momento –sussurrò guardandomi intensamente. Annuii e suggellai la promessa con un sorriso.
-Dov’è finita Emma? –chiese dopo un po’ Pam cercando di alleggerire la situazione.
-Aveva appuntamento con un certo Dave Coleman – risposi con un sorriso malizioso. Emma era uscita con tanti ragazzi e dopo qualche appuntamento li mollava prontamente con qualche scusa tipo “non siamo fatti per stare insieme” o “non abbiamo gli stessi gusti”. Però sembrava alquanto presa da Dave ed ero felice di vederla così spensierata. Lei cercava di sempre di apparire più grande e matura di quello che era, ma Dave la faceva sentire piccola e tirava fuori il meglio di lei.
 
 
Quando tornai a casa quella sera, trovai mio padre e mio fratello Henry in cucina che stavano facendo bruciare qualcosa. Max e Daisy, seduti al tavolo, battevano cucchiai e forchette sulla superficie di legno ridendo gioiosamente.
-Che cosa state cercando di fare? –chiesi varcando la soglia. Si voltarono entrambi nella mia direzione e mi guardarono come se fossi la cosa più bella del mondo.
-Abbiamo fame e mamma, Izzy e Rose sono ancora dalla signora Hemmings – spiegò Henry con un’espressione comicamente triste sul viso. Mio padre aveva un’espressione molto simile alla sua. Scossi la testa divertita.
Tolsi dalle mani dei piccoli le posate, mettendole sulla credenza, e lanciai loro un’occhiataccia quando iniziarono a protestare urlando. Nella padella sul fornello c’era qualcosa di nero e bruciacchiato che emanava uno strano odore e non era molto invitante. Lo gettai immediatamente nella spazzatura ordinando a Henry di lavare la padella.
Ero pronta a improvvisare qualcosa per la cena, ma un foglietto di carta posato in un angolo del ripiano attirò la mia attenzione. La calligrafia era della mamma: “Per la cena guardate nel forno.
Seguii le istruzioni e trovai arrosto e patate in una teglia, dovevo solamente riscaldare tutto per una decina di minuti. Presi la scatola dei fiammiferi e accesi il forno che iniziò a irradiare calore.
-Come avremmo fatto senza di te, sorellina! –esclamò Henry facendo ridere papà.
-Ci hai salvati dal digiuno, Liz – disse nostro padre sedendosi al tavolo.
-Certo, ma non statevene lì impalati a fare nulla. Finite di apparecchiare! –esclamai sventolando un mestolo che avevo afferrato dal ripiano.
Fecero entrambi il saluto militare: -Sissignora!
Il piccolo Max cercò di imitarli e urlò qualcosa che sembrava un: -Iii iniolaaa!
Scoppiammo tutti a ridere e Daisy gli scompigliò i capelli.





 
L'angolo di Katjusha

Lo so, avete voglia di linciarmi e ne avete tutto il diritto! Ci ho messo un sacco di tempo per scrivere questo capitolo perché le vacanze, ahimè, sono alla fine e ho dovuto studiare e lavorare. 
Eventuali errori verranno corretti in seguito.

Ringrazio la mia Sam - comeilmaredinverno - per il banner ♥

Che ne pensate di questo capitolo? Aspetto i vostri pareri.

Ci vediamo al prossimo (spero di essere più veloce) capitolo :)
  
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