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Autore: aduial    13/09/2014    3 recensioni
Inghilterra. Una storia d'amore vissuta a cavallo tra due secoli, il 1700 e il 1800. Ma cosa succede quando l'uomo di cui sei innamorata è il promesso sposo di tua sorella?
Storia partecipante a "Il contest delle coppie: tanto ammòre per tutti" indetto da passiflora91 sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Titolo: La libertà di amarsi
Pacchetto: Elizabeth e Mr. Darcy
Genere: drammatico, romantico
Rating: giallo
Coppia (se c'è, ovviamente): het
Avvertimenti: tematiche delicate, triangolo
Note: *citazione di François de La Rochefoucauld
Note dell'autore (facoltativo): le metto alla fine, per non spammare nulla della storia.
 
La libertà di amarsi
 
«Mr. Cavendish è alla porta»
«Ti ringrazio, Mary. Fallo entrare»
La domestica uscì dalla stanza, accomiatandosi con un cenno del capo. Poco dopo un giovane uomo dall’abbigliamento distinto ed elegante fece il suo ingresso nel salotto. Le tre donne lo attendevano in piedi, ognuna con un’espressione diversa dipinta sul viso. La più anziana, Mrs. Jenkins, lo guardava con un sorriso compiaciuto, lanciando qualche occhiata di soppiatto alla figlia maggiore, Isabelle. Si complimentava con sé stessa per essere riuscita ad assicurarsi un così buon partito, certa che Isabelle avrebbe avuto tutto quello che aveva sempre desiderato: ricchezza economica e prestigio sociale.
«Mie care signore, siete semplicemente incantevoli» disse l’uomo, inchinandosi elegantemente. «Siete un adulatore, Mr. Cavendish» sorrise Mrs. Jenkins. Il giovane fissò lo sguardo sulla sua futura sposa, accarezzando con gli occhi i morbidi boccoli biondi e la pelle di porcellana. Poi la sua attenzione si spostò sulla più giovane delle donne presenti nella stanza. Frenò la lingua, per evitare di pronunciare il suo nome, che, spontaneo, gli era salito sulle labbra. La fanciulla sollevò il volto e i loro occhi si incatenarono per un istante, poi lei distolse lo sguardo, come se quel semplice contatto la ferisse nel profondo. Quel nome non pronunciato rimase sospeso tra loro, come una promessa mai espressa.
 
Finito il pranzo, le donne si ritirarono nelle loro stanze, mentre Mr. Jenkins e Mr. Cavendish si diressero verso la biblioteca. Il primo si accomodò su una morbida poltrona di velluto, sporgendosi appena per accendersi un sigaro. Poi tornò ad appoggiarsi allo schienale, fissando un punto indefinito davanti a sè. Il più giovane si avvicinò a uno scaffale di legno scuro, leggendo attentamente i titoli dei libri che vi erano posti sopra. Sfiorò delicatamente, con la punta delle dita, i volumi di scrittori contemporanei e non: Jane Austen, William Wordsworth, Samuel Coleridge, Daniel Defoe e molti altri. I libri lo avevano sempre affascinato. Gli permettevano di evadere da una vita di obblighi e responsabilità. I mondi di carta che quelle pagine creavano gli davano l’illusione di poter essere felice. Sospirò, voltandosi verso l’altro uomo. «Allora, Napoleone continua la sua avanzata» disse, nel vano tentativo di intavolare una conversazione. «Suvvia, Edward. – lo redarguì Mr. Jenkins – Non dovete fingere che questo argomento vi attiri». Il silenzio ripiombò nella stanza, rotto soltanto dai passi del giovane che si dirigeva verso l’altra poltrona. Dopo poco, il più anziano riprese a parlare: «Siete qui per discutere della dote di mia figlia, vero?»
Edward si schiarì la voce: «In realtà sono qui per dirvi che non voglio una dote in denaro. Sono già abbastanza ricco, non ho bisogno della dote che Isabelle potrebbe portarmi. Quei soldi utilizzateli per aumentare la dote della vostra figlia minore, in modo tale da renderla un partito migliore». Mr. Jenkins rimase pensoso per qualche istante, soppesando le parole dell’altro.
«Cosa volete che vi dica, Edward? Non posso far altro che ringraziarvi e augurarvi di essere felice con la mia Isabelle». Il giovane rispose con un sorriso tirato. «Penso di aver bisogno di bere qualcosa». L’altro ridacchiò, alzandosi e dirigendosi verso il mobiletto degli alcolici. Una nuvola di fumo aleggiava ancora nell’aria polverosa biblioteca.
 
Edward scese le scale del patio dell’imponente maniero dei Jenkins, seguendo il sentiero che l’avrebbe condotto alle scuderie. Respirò a pieni polmoni l’aria frizzante dell’estate inglese, lasciando vagare lo sguardo sugli alti alberi del parco. Si fermò e chiuse gli occhi, assaporando quel momento di pace e silenzio totali. Il vento scosse le fronde degli alberi, riempiendo quell’attimo di calma con la sua musica. La tranquillità scese finalmente sul suo cuore tormentato, allentando quella morsa che ormai da troppi giorni gli opprimeva il petto. Riaprì gli occhi, perdendosi nell’immensità del cielo. Improvvisamente si sentì schiacciare da tutta quella vita e, in un moto di rabbia repentino, calciò un sacco che sbatté su un tronco con un tonfo sordo.
Perché? Perché tutto parlava di libertà, mentre lui non poteva scegliere chi amare? Perché doveva essere costretto a sposare una donna che, probabilmente, mirava soprattutto al suo patrimonio? Perché non poteva avere colei che desiderava veramente?
Si incamminò con passio rabbioso verso le scuderie, la ghiaia scricchiolava sotto le suole degli stivali. Improvvisamente lo colse un pensiero fulmineo e lo costrinse a cambiare direzione. Aveva bisogno di pensare e quale luogo era migliore di quello dove proprio lei l’aveva condotto la prima volta?
Si inoltrò tra le siepi del labirinto, sperando di raggiungere in fretta il centro. Ad ogni svolta pensava di poter scorgere la fonte che indicava la sua meta, ma veniva prontamente disilluso. I suoi pensieri erano come quel labirinto, si rese conto. Caotici e organizzati, inestricabili e perfettamente chiari, sorprendenti e prevedibili, un connubio di opposti e contraddizioni con un unico centro, un’unica meta, un unico perno attorno al quale tutto ruotava. Lei.
 
Finalmente percepì lo scrosciare allegro di una fonte. Un’ultima svolta a sinistra e uno spettacolo conosciuto si aprì davanti ai suoi occhi. Una sorgente naturale dava vita a un piccolo stagno, sul quale delle splendide ninfee galleggiavano pigre. Edward si avvicinò all’acqua, chinandosi fino a sfiorarne con le dita la superficie limpide. Vide la sua immagine riflessa, distorta e deformata, che ricambiava il suo sguardo triste e rassegnato. Si allontanò dalla polla, accomodandosi su una delle panche di pietra grezza poste lungo le pareti di foglie del centro del labirinto. Poco dopo udì un fruscio leggero e si voltò verso l’arco di rami intrecciati che dava accesso a quel luogo magico, vedendo entrare la donna che popolava i suoi sogni più nascosti da quando aveva iniziato a frequentare la dimora dei Jenkins. Lei si accorse quasi immediatamente della sua presenza e si inchinò frettolosamente: «Mr. Cavendish, non immaginavo di trovarvi qui. Vi prego di perdonarmi, me ne vado immediatamente». La ragazza si voltò, pronta a ritornare sui suoi passi, quando lui la fermò, afferrandole il polso. «Vi prego, Ms. Jenkins. Restate».
Lei si voltò, sollevando il viso da terra. Così Edward poté finalmente ammirare i suoi occhi verdi, limpidi e ingenui, che spiccavano come smeraldi nell’incarnato di porcellana, delicatamente spruzzato di efelidi. «Restate» ripeté in un sussurro, carezzandole un boccolo di fiamma, sfuggito all’acconciatura. La ragazza chiuse gli occhi al suo tocco, ma poi parve riscuotersi immediatamente. «Perdonatemi, ma non posso» si allontanò di scatto, dirigendosi nuovamente verso l’uscita.
«Diane»
Quell’unica parola rimbombò nel silenzio del labirinto. Un’unica parola che era insieme invocazione e supplica. Quel nome che Edward mai aveva avuto il coraggio di pronunciare, perché avrebbe avuto un significato troppo profondo, perché avrebbe creato un legame indissolubile nel tempo. Era un nome da dea e, come una dea, lei andava venerata.
Lei si girò nuovamente verso di lui, guardandolo con quegli occhi che erano la sua luce nell’oscurità.
«Resta» ripeté Edward ancora una volta. Diane gli si avvicinò, lentamente. La mano di lui salì spontanea ad accarezzarle il volto, per poi condurlo più vicino al proprio. Dopo un istante o forse dopo intere ere, le loro labbra si incontrarono, sfiorandosi appena, come suggello di un amore impossibile. Stringendola ancora a sé, Edward ebbe il coraggio di esprimere a voce alta quello che prima aveva solo serbato nel segreto dei suoi pensieri: «Perché non possiamo essere liberi di amarci?» La ragazza rispose con un sorriso amaro: «Perché non è ciò che la nostra condizione e la nostra famiglia ci richiede. La tradizione dei Jenkins vuole che prima si sposi la figlia maggiore e i nostri genitori hanno combinato il matrimonio tuo e di Isabelle. Il destino è contro di noi e non possiamo far altro che obbedire ai suoi voleri». Poi si staccò da lui, gli posò un leggero bacio all’angolo della bocca e uscì dal labirinto, lasciandolo nuovamente solo.
 
Da quel giorno, ogni momento era un’occasione per rubare qualche sguardo, anche solo di sfuggita, con il quale confessarsi tutto il loro amore. Le loro mani si sfioravano accidentalmente, come se i loro corpi fossero inesorabilmente attirati l’uno verso l’altro, incapaci di stare troppo lontani. Davanti alle loro famiglie dovevano mantenere le apparenze, facendo violenza a loro stessi per non far trasparire i loro sentimenti, perché nessuno si accorgesse dell’invisibile e indistruttibile legame che li univa.
Appena potevano, però, fuggivano nel labirinto, dove le loro bocche si fondevano e le loro anime si univano in una cosa sola. Le mani di lui, correvano inevitabilmente alla cintura di lei, sciogliendo il nodo con delicatezza, mentre le dita affusolate di lei sfilavano i bottoni della camicia di lui dalle asole. Era una danza, la loro, un continuo scoprirsi ed esplorarsi, una sfida senza vincitori né vinti. Semplicemente si completavano e non avevano bisogno di nient’altro che non fosse la presenza dell’altro. E quando finalmente lui entrava in lei, non erano più l’erede dei Cavendish e la figlia minore dei Jenkins, ma solamente un uomo e una donna, Diane ed Edward. Ed erano felici.
 
Ma la piccola bolla di felicità che avevano creato aveva fragili pareti. Trascorsero tre mesi di incontri nascosti e sguardi fugaci, finchè non giunse il giorno del matrimonio. Isabelle fremeva d’impazienza, mentre le sottili dita della sorella le intrecciavano i capelli. Diane si costringeva a sorridere, mentre una morsa gelida le stringeva il cuore.
«Diane, sei felice per me?»
La fanciulla dai capelli di fiamma tacque per alcuni istanti, incapace di trovare una risposta. Desiderava che la sorella fosse felice, ma, allo stesso tempo, non poteva impedirsi di odiarla perché, seppur inconsapevolmente, le strappava dalle mani ciò a cui più teneva. E per questo si detestava. Era oppressa, schiacciata da sentimenti contrastanti, che la confondevano e la uccidevano dall’interno.
«Come potrei non esserlo?» sospirò infine, ammirando lo splendido sorriso che quelle sue parole avevano fatto sbocciare sulle labbra della sorella. Isabelle si alzò, abbracciandola. «Non vedo l’ora che giunga anche il tuo giorno, Diane, per poter essere io a intrecciarti i capelli. Voglio gioire anche io con te e per te». La sorella minore sentì le lacrime salirle spontanee agli occhi, perle gemelle di quelle che rotolavano già sulle guance di Isabelle. Poi si separarono lentamente e Diane uscì dalla stanza, lasciando il posto alla madre, venuta a salutare la sposa. Appena fuori dalla stanza, si accasciò contro il muro, voltando appena la testa verso la statua che da anni ornava il corridoio. La osservava con espressione triste, rassegnata. Diane le si avvicinò, sfiorando appena la mano di marmo gelida. «Sembra quasi che tu possa essere l’unica a capirmi veramente» mormorò.
 
Edward la vide scendere le scale, avvolta in uno splendido abito verde, che le stringeva la vita sottile e s’intonava perfettamente con i suoi occhi, in splendido contrasto con i capelli rossi. Cercò il suo sguardo, ma lei rifiutò di stabilire un qualsiasi contatto tra loro. Edward sapeva che sarebbe potuto succedere, sapeva che lei avrebbe respinto qualunque tentativo di far emergere nuovamente quel sentimento che c’era stato e ancora divampava nei loro cuori. La osservò sedersi con espressione impenetrabile e sentì ogni goccia di sangue che cadeva dal suo cuore ormai a pezzi. Poi fu tutto un susseguirsi di ricordi confusi, la sua futura moglie non era altro che un’indistinta macchia bianca nella sua mente. L’unica certezza, l’unica immagine nitida che serbava di quel giorno era il viso di Diane e la lacrima che aveva visto brillare nell’angolo del suo occhio di smeraldo.
 
Dentro di lei ogni cosa si era rotta e rimettere insieme i pezzi era impossibile. Aveva tradito sua sorella, amando l’uomo che lei era destinata a sposare. Aveva tradito la sua famiglia, ogni volta che accettava quell’amore ingiusto e impossibile. Aveva tradito se stessa, ogni volta che mentiva e si nascondeva agli altri. Guardò giù dalla finestra, ammirando lo splendido ricevimenti e gli ospiti elegantissimi. Vide sua sorella, il volto illuminato di felicità. Vide i suoi genitori, orgogliosi e certi della scelta che avevano preso per la figlia maggiore. Vide Edward, che salutava gli ospiti con un sorriso che solo lei sapeva essere falso. Era tutto così giusto e perfetto e si rese conto che l’unica nota stonata era lei. Aveva sbagliato. Era debole e lo sapeva. E capì che l’unico modo per sistemare le cose, perché Edward non pensasse più a lei, fosse quello di sparire, rifiutarsi di vivere il tempo che le era stato concesso per essere felice. Non fu una scelta dettata dalla fermezza, perché la debolezza di carattere è l’unico difetto che non si può correggere*.
 
Quando iniziarono a cercarla, era già troppo tardi. La trovarono nella camera, sembrava quasi che fluttuasse, mentre la stoffa verde del vestito si gonfiava con l’aria che entrava dalla finestra.
 
Note dell'autore
Allora iniziamo dalla scelta del nome di lei: Diane. Questo nome significa luminosa e divina, da qui il fatto che lei sia, per Edward, una dea da venerare e la luce nell’oscurità. È un nome che indica una personalità sensibile e, soprattutto, fragile.
Invece, per quanto riguarda il finale, è un riferimento a “La casa de Bernarda Alba” di Federico Garcia Lorca. Infatti, per questo grande autore, il verde ha un chiaro riferimento simbolico: è il colore della morte (Diane, come Adela, protagonista dell’opera di Lorca, si suicida) ma è anche il colore della ribellione, rappresentata dal fatto che Diane si abbandoni completamente all’amore per Edward, senza pensare alle conseguenze.
So che, magari, non ti aspettavi che qualcuno partecipasse con una storia di amore tragico e impossibile, ma mi sembrava una scelta originale e, allo stesso tempo, abbastanza verosimile. Spero di essere riuscita a rendere bene l’oppressione che Diane si trova a vivere a causa della società dell’epoca (che è la stessa di Jane Austen, madre della coppia del pacchetto che ho scelto) che, insieme alla debolezza che la contraddistingue, la porta a cedere e cadere inesorabilmente.
   
 
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