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Autore: IMmatura    14/09/2014    3 recensioni
Una notte dolorosamente "normale" di un vampiro "diverso".
Dal testo: "Alla fine però, cedeva sempre. La sua natura reclamava nutrimento. E allora avveniva qualcosa di davvero strano: i suoi pensieri volavano. Si estraniava completamente da ciò che stava facendo. L’umano rimaneva a sguardo basso mentre la bestia agiva per placare i suoi istinti."
[La visione dei vampiri in questa fic è basata sulla mia opinione personale, che si ispira solo parzialmente all'immaginario letterario MODERNO. Ho accolto alcuni elementi e smentito altri.]
[Partecipa alla challenge "Pictures for you" indetta da Minori-chan sul forum di EFP]
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Sbagliato


Poteva quasi sembrare normale, di giorno, in bilico sulla spalliera della panchina, curvo su se stesso e con lo sguardo basso. Però ogni cosa gridava ciò che era in realtà.

La chioma rossa che, al calare delle tenebre, sembrava scurirsi e rapprendersi attorno ai suoi pensieri intorpiditi dalla sete. Gli occhi, con quelle pupille che si stringevano fino ad annegare nell’innaturale cremisi dell’iride. I graffi che cercava inutilmente di coprire coi cerotti.

Sangue.

Ciò di cui aveva bisogno.

Poteva sembrare umano, ma non lo era più da molto tempo, ormai. Eppure non avrebbe saputo dire esattamente cos’era diventato. Comunque lo si guardasse, era sbagliato. Non era più umano, e non riusciva ad essere fino in fondo...vampiro.

Aveva provato a tirare avanti solo cacciando animali, o trafugando sacche di sangue dagli ospedali, ma non bastava mai. Non era lo stesso. La gola continuava a bruciare inviandogli segnali di un bisogno primordiale.  Sangue umano e vivo. Nient’altro poteva tenerlo in piedi.

Non si comportava come gli altri della sua specie, non andava di proposito a “caccia”. Faceva di tutto per passare inosservato, sia di notte, che di giorno. Per questo i suoi simili (i suoi NUOVI simili) lo guardavano con sospetto. O con una punta di scherno, scommettendo tra loro sul tempo che gli rimaneva, prima di diventare troppo debole per sopportare la luce, o trascinarsi ancora sulle sue gambe.

Un emarginato sia tra gli umani, che tra i vampiri.

Si muoveva infagottato in una felpa sdrucita, o più semplicemente si sedeva su quella panchina a guardare il sole sorgere e tramontare. Poteva restare immobile per giorni, a volte, pur di risparmiare energia fino all’ultimo. Pur di non cedere.

Alla fine però, cedeva sempre. La sua natura reclamava nutrimento. E allora avveniva qualcosa di davvero strano: i suoi pensieri volavano. Si estraniava completamente da ciò che stava facendo. L’umano rimaneva a sguardo basso mentre la bestia agiva per placare i suoi istinti.

 

 

 

Si vedeva da fuori, freddamente, entrare in un locale e sfidare con lo sguardo una preda. Uomo o donna non importava, purché abboccasse in fretta. Valutava con distacco quanto fossero diventati lascivi i locali, e i loro frequentatori, negli ultimi secoli. Scandagliava come un detective la mente della preda.

Rideva sguaiatamente, la ragazza. Il suo abbigliamento ostentava ricchezza, ma lei non sembrava disdegnare le attenzioni di quel pallido ragazzo in felpa e dall’aria apparentemente strafatta che era lui. O almeno, così si vedeva da fuori. Dall’angolo dove la sua coscienza si era rintanata, assistendo al preludio della solita tragedia.

La biondina aveva voglia di trasgressione. Fingeva di voler prendere un drink e sbatteva senza ritegno la mercanzia sul bancone del bar, a pochi metri da lui. Non si accorgeva che la belva, accanto a lei, fissava solo il suo collo abbronzato. La pelle era sottile, ma la pigmentazione non lasciava intravedere ciò che celava.

Un sogghigno. Un drink offerto. La mano di lei che si lasciava prendere, e trascinare assieme alla proprietaria in un bagno.  La musica che diventava ovattata e lui che considerava con distacco il modo in cui la ragazza lo stuzzicava, facendo scivolare via lentamente la felpa dalle sue spalle. La pelle a contrato col le piastrelle bianche, che tra poco sarebbero state percorse da un rivolo rosso. I bracciali che , alla luce del neon, brillavano di bagliori glaciali, tentando di abbagliare occhi fin troppo adatti a vedere, sia al buio che alla luce. Era più alta di lui, il che gli dava una magnifica prospettiva sui suoi seni. Avrebbe potuto trovarla attraente, se avesse avuto ancora sensibilità per quelle cose. Si, sarebbe stata davvero una bella avventura erotica, se fosse stato ancora umano.

La sua testa vagava in queste fantasie mentre la bestia la ingannava con un succhiotto e poi, finalmente, le zanne affondavano nel collo. Terrorizzata, lei si era dibattuta per un attimo e poi era svenuta. Meglio così. La musica era alta, li fuori, ma qualcuno poteva sempre entrare...

 

 


Non c’era niente di naturale, in tutto ciò. O almeno, non in come lo faceva lui. Era meccanico. Solo meccanico. Freddo. Nonostante il liquido caldo che gli aveva attraversato la gola e riempito lo stomaco. Si sciacquava il viso, le labbra. Indossava di nuovo la felpa, col cappuccio sulla testa perché le amiche della tipa non lo riconoscessero subito. Usciva dal bagno e dalla discoteca. Azioni completamente estranee al suo sentire e alla sua volontà, come quella che si era lasciato alle spalle, dietro la porta lucida della toilette. Era come una marionetta, mossa da un artiglio malvagio al suo interno. Riusciva solo a sentir crescere l’ansia per quello che, lo sapeva, sarebbe accaduto tra poco.

La bestia si riassopiva, l’istinto si placava. Poco a poco riprendeva possesso di se, e delle sue sensazioni. L’incubo era appena iniziato. Avesse avuto ancora un cuore pulsante, la paura l’avrebbe fatto battere all’impazzata, rimbalzare nel suo corpo fino a spaccare la cassa toracica, pompare fino a fargli entrare il rimbombo sordo dello scorrere del sangue nelle vene fino al cervello. Ma lui, il cuore, lo aveva morto, e tutto il sangue che gli restava era quello appena ingurgitato.

Gli ridava energia, vero, ma sopperiva il bisogno. Zittita la voce ancestrale, tornava a sentire con la coscienza e con l’anima che sperava invano di aver definitivamente perso. Invece, l’incubo cominciava dai suoi sensi, amplificati dalla nuova forza appena ricevuta. Il retrogusto ramato del sangue, e quel nodo alla gola. Il freddo sulle guance che contrastava col tepore nauseante dentro le sue viscere. Quella maledetta sensazione si faceva pian piano più aspra. Usciva dalla sua gola ad ogni respiro per arrivargli al naso, come una puzza acre e cattiva. Stava arrivando. Come sempre.

Raggiungeva il parco già piegato in due e, appoggiato con una mano al tronco di un albero, vomitava. Vedeva quel miscuglio di fluidi e sangue ancora fluido formare chiazze scure che ingoiavano come gorghi la poca luce dei lampioni. Il primo capogiro ed anche lui si sentiva risucchiare, man mano che i muscoli faringei si tendevano nello sforzo di cacciare fuori tutto. Tutto lo schifo che era, e che aveva fatto di nuovo, arrendendosi. Si sentiva annegare in un mare di quella melma disgustosa fatta di sangue e sensi di colpa.

Vomitava.

Quella ragazza era bella. Ricca, ma non snob. Aveva sorriso scostandosi i capelli per lasciare fiduciosamente manovra libera alle sue labbra.

Ancora e ancora, con tonfi sordi i fluidi si spiaccicavano al suolo.

Aveva i capelli come quelli della donna che, una vita fa, aveva amato. anche lei era fiduciosa, ma non era ricca. Ed era più pallida. Malaticcia. Tisica. Divorata da quel male di cui sarebbe dovuto morire anche lui. Meglio prosciugato che sanguisuga...

Tossicchiava per rigettare anche le ultime gocce.

Non ne aveva neppure sentito l’odore, di quel corpo di donna. Chissà se era simile a quello della sua antica fiamma. Non ricordava già più il viso della ragazza della discoteca. Nella sua testa i due volti si sovrapponevano, e sulla gola della sua amata, spiaccicata contro il muro d’un bagno, c’era un morso da cui grondava sangue. I ricordi, confusi, per fortuna, vennero spezzati.

Qualcosa luccicò per un istante alla luce della luna, per poi farsi ingoiare dal gorgo. Una lacrima.

Era il momento peggiore, quello. Peggiore persino del vomito.

Era il momento in cui si portava la mano al viso, per pulirsi la bocca, e lo scopriva fradicio. Senza sapere quando aveva iniziato, continuava a piangere accasciandosi a terra, sulle ginocchia. Finiva nel sangue ancora fluido e si impregnava i vestiti di quell’odore, mentre continuava a singhiozzare graffiandosi le braccia, infilando le mani sotto la felpa per ferirsi il petto, sfregiandosi a volte persino il viso. Come quella sera.

Le lacrime bruciavano sulle ferite, mentre la vista gli si appannava, e ricadeva completamente in quell’orrore che, a poco a poco, andava rapprendendosi sul selciato.

 

 

Andava avanti così da secoli. Rinveniva prima dell’alba, così aveva il tempo di cambiarsi gli abiti sporchi di vomito. Si rendeva conto di aver assimilato appena il necessario per sopravvivere, di sentirsi già languire e che presto avrebbe avuto di nuovo sete. Dominava la disperazione concentrandosi su qualcosa di pratico, come applicare nuovi cerotti sui graffi che si era inferto, o infilare felpa e jeans in uno di quei moderni cestelli rotanti delle...come si chiamavano? Lavatrici.

La lavanderia, stupenda invenzione di quel secolo, era il posto dove si ricomponeva, lasciandosi anestetizzare dal rumore dell’acqua che scrosciava, lavando i suoi panni. Per fortuna, aveva sempre con se un cambio. Ripresi i suoi vestiti tiepidi (e qui, affondando le mani in quella sensazione così accogliente da sembrare viva, doveva resistere ad un ultimo strascico di nausea...) dall’asciugatrice, tornava ad appollaiarsi sullo schienale della solita panchina, fissando il terreno per non rischiare di riconoscere il punto in cui aveva intorbidito la terra con la sua colpa.

Gli ultimi suoi simili, che dopo essersi goduti molto meglio di lui il pasto, passavano di li, con le iridi sfavillanti e l’aria sana e sazia, lo guardavano male. I gruppetti di ragazzi umani, che rientravano ubriachi dalla serata, giravano a largo dello strano barbone sulla panca.

Comunque lo si guardasse, lui era sbagliato: non era un “normale”  vampiro, e non riusciva a smettere del tutto di essere umano.

 


  
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