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Autore: Sheep01    15/09/2014    4 recensioni
“Ehi tu…” un’eco nel candido nulla in cui stava affogando. “Dico a te… ragazzina…”
Fu il rumore del proprio cuore pulsante a riportarla alla ragione. Alla pseudo lucidità.
La bocca ancora impastata, le membra gelide, tremanti. Quando sentì il lieve tocco dello sconosciuto su di sé, scattò in lei qualcosa di antico, furibondo, letale. [...]
La lama affondò in qualcosa di… rigido. I suoi occhi misero a fuoco un bauletto. Nero. E poi, rialzando il tiro, a scrutare un paio di occhi grigio azzurro.
“Woah, ma che razza di ringraziamento sarebbe, questo?”
[Clintasha pre-SHIELD, pre-Avengers]
Genere: Azione, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 16

 

Wit tha sure shot, sure ta make tha bodies drop
Drop an don't copy yo, don't call this a co-op

(Bulls on Parade – Rage Against the Machine) 

 

Non aveva mani libere.

Non aveva mani libere e si trovò a fare i conti con un istante di vero, puro, sordo panico.

Finché il suo cervello, messo in moto dall’adrenalina, non gli offrì una soluzione piuttosto rapida. E indolore. Forse.

Alzò una gamba e spalancò la porta con un calcio ben assestato. I cardini protestarono cigolando in modo inquietante, ma crearono un passaggio sufficiente.

 

Clint sganciò lo scatolone accanto alla pila consistente all’ingresso, sollevando nuvole di polvere più o meno dense.

Casa.

“Un piccolo passo per un uomo…”

La sua voce si perse fra le pareti spoglie del nuovo appartamento dall’arredamento essenziale di chi ancora deve concludere un trasloco.

Aveva appena fatto un affare, a suo dire. Coulson gli aveva procurato il nome di un tizio che sembrava affittare loft a poco prezzo a Brooklyn.

Ed effettivamente l’affitto era un miseria. E il quartiere era tranquillo. Certo, sulla porta del palazzo di fronte c’erano ancora i buchi delle pallottole di una sparatoria fra bande di qualche mese prima. Ma si era trattato di un episodio isolato, di quelli di cui senti parlare ogni tanto al telegiornale, che accantoni perché non ti sono abbastanza vicini per esserne spaventato.

E poi, insomma, ormai era abituato alle pistole, alle sparatorie. Anche se, come ormai andava vaneggiando tipo motto da qualche anno a quella parte: preferiva guardare le cose da una certa distanza. In un certo senso era diventata una delle sue caratteristiche distintive… allo SHIELD.

Già.

Lo S.H.I.E.L.D.

Proprio quello Strategic qualcosa della logistics bla bla bla.

Gli sarebbe piaciuto raccontare di aver collaborato con loro dopo essersi fatto sedurre dalla loro incredibile spinta d’entusiasmo.

In realtà ci si era trovato invischiato per necessità.

E poi era diventato una via di fuga.

Un appiglio.

Infine un lavoro.

Un lavoro al quale aveva dovuto votare cieca fedeltà. La sua intera esistenza.

Non che di quella che gli era rimasta dopo il primo incontro/scontro ci fosse molto da salvare.

Ma si era risollevato.

Un po’ come l’araba fenice, ma senza fuoco e fiamme. Giusto un po’ di polvere. Un bel po’di polvere di cui liberarsi.

Coulson, quell’ometto buffo dal sorriso prestampato gli aveva fatto da mentore e consigliere.

 

“La tua formazione inizia domani, Barton.”

“Significa che devo tornare a… scuola?”

“Una cosa del genere.”

“Odiavo studiare.”

“Anche io.”

“E sei finito a fare il galoppino di Fury.”

“Meglio che la puttana di qualche bell’imbusto in galera.”

“Meglio che il ragioniere.”

“Dovresti rivedere le tue priorità, Barton.”

 

Il pirata, il direttore, colonnello Nicholas J. Fury, si era preso in carico il suo pacchetto di casini e si era preoccupato di accoglierlo fra le file dei suoi uomini, proprio come solo un terrore dei mari avrebbe potuto fare. Non erano i pirati quelli che si portavano appresso i peggiori criminali, per mettere insieme una squadra di persone senza troppi problemi morali?

 

“L’aquila imbalsamata è il vostro Jolly Rogers?”

“Di che diavolo sta parlando, Barton?”

“Ahm… di niente.”

 

Non che si considerasse un pirata. Più un Falco. Così come avevano preso a chiamarlo, in virtù delle sue particolari qualità. Nemmeno a dovergli spiegare che era così che lo chiamavano al circo, così che lo conoscevano i criminali con cui aveva lavorato.

 

Richiuse la porta con la stessa forza con cui l’aveva aperta e decise di constatare i danni più tardi.

Prima doveva godersi la vista dal finestrone che dava sulla parte orientale della città.

Cinque anni.

Cinque anni di quella vita e sembrava ieri.

Non fosse che in cinque anni poteva finalmente dirsi a pieno titolo un agente decorato dello SHIELD.

L’orgoglio di Coulson… un po’ meno quello di suo fratello.

Che lavorava per l’FBI.

La chiacchierata l’avevano fatta. Eccome. Con tanto di scazzottata che gli aveva procurato un occhio nero per almeno tre settimane.

 

“Con tutto quello che ho fatto per te!”

“Ma che carino, Barney, che cosa vuoi, un premio?”

“No, ma magari un grazie sarebbe gradito.”

“Va bene, grazie…”

“Prego.”

“Stronzo.”

 

Così come aveva dovuto spiegare a chiunque che fine avessero fatto i progetti di Stark.

E Stark lo aveva conosciuto per davvero. E la sua opinione non era mutata di una virgola.

 

“Lo sai che dovrei chiederti i danni morali per il trauma psicologico subito da Jarvis?”

“Chi cazzo è Jarvis?”

“Il mio maggiordomo.”

“Non ho visto nessun maggiordomo.”

“Meno male ti chiamano Occhio di Falco.”

 

Borioso, carismatico… genio del cazzo.

 

E adesso aveva finalmente avuto la possibilità di cambiare casa. Perché dopotutto cominciava ad andargli stretto quel buco in cui aveva infognato la sua roba per anni e anni.

E in ogni caso avrebbe dovuto liberarsi di un po’ di ricordi.

Negativi. Positivi.

Natalia.

Da quanto tempo non pensava a lei?

Ci aveva pensato ogni giorno, ogni ora, i primi tempi, da quando era scomparsa per sempre oltre quel precipizio.

Poi ci aveva pensato almeno una volta alla settimana. E infine… il ricordo aveva preso a tormentarlo solo in alcuni momenti. Quando era particolarmente stanco.

O quando le circostanze lo portavano a pensare a lei.

Tipo quella.

Ricordava lo spazio che le piaceva occupare nel suo vecchio appartamento. Alla finestra. A sbirciare la vita che scorreva tranquilla, quella degli altri.

Quale che fosse il ricordo di lei una cosa era stata certa da subito: non avrebbe mai più potuto vedere Titanic senza mettersi a piangere come un deficiente.

E no, non per la triste sorte di Di Caprio. Anzi, quella era forse la parte del film che più gli risollevava il morale.

 

Quando sentì squillare il telefono scattò sull’attenti, nemmeno fosse stata la campanella dell’intervallo.

Esisteva qualcuno che aveva il suo numero di casa?

Gli vennero in mentre tre nomi.

Barney.

Coulson.

Lo SHIELD.

Sperò nei primi due.

“Pronto?”

“Nick Fury.”

Non era mai stato troppo fortunato.

 

*

 

Un brusio di parole russe, in sottofondo.

Una stanza oscura. Confusi bagliori si sprigionavano da una moltitudine di schermi di terminali dall’aria moderna. Telecamere di sicurezza che rimandavano le immagini, offuscate dalla pioggia, di una grossa villa in collina. La termocamera rivelava la presenza di un gruppo di individui in rapida fuga. Stesi al suolo, un numero imprecisato di altrettanti soggetti.

“My nachinayem”*

Un uomo di mezza età, dall’andatura claudicante, si staccò dal gruppo, ancora inglobato in quella teatralissima penombra, per venire verso la luce ammiccante di un corridoio piuttosto scarno.

Si frugò nelle tasche dei pantaloni, prima una e poi l’altra, come se avesse scordato dove volesse andare a parare. Ne tirò fuori una chiave che probabilmente avrebbe perso, se non fosse stata assicurata a una lunga catena che trovava aggancio al cinturone dai richiami militari.

Si fermò di fronte a una porticina di metallo. Un vetro zigrinato per sbirciare all’interno.

Infilò la chiave nella toppa e la fece girare: una, due, tre volte.

La porta cigolò sui cardini: qualcuno avrebbe dovuto oliarla. Quel rumore molesto l’avrebbe sicuramente svegliata.

“È il momento… malìshka**”sussurrò, lasciando che la sua silhouette si stagliasse in un rettangolo di luce.

Non si stupì di trovarla già sveglia, seduta sulla branda, lo sguardo fisso, come quello di una bambola.

Entrò nella stanzetta e le sorrise. Una ragazza, una pioggia di capelli, rossi come il peccato.

Il suo gioiello, il suo rubino, il suo miglior risultato. Era adesso pronto a cogliere i frutti maturi di tutto il lavoro svolto in quegli ultimi anni. Il prodotto dei suoi studi, dei suoi esperimenti.

Studi ed esperimenti collettivi, certo, ma era stato lui stesso a sceglierla, allevarla, accudirla, come una figlia.

Come una vera figlia. Alla quale aveva insegnato tanto sin dal giorno in cui l’aveva strappata, in fasce, dalla sua famiglia. Dal giorno in cui l’aveva recuperata dopo quell’esperimento andato a male. Era riuscito a impedire che la eliminassero. Era riuscito a riplasmarla. Persa per strada una volta e rimessa a nuovo, investendola di nuova vita e identità.

“Quale è tuo nome?” le domandò. Faceva fatica a pronunciare la frase in quella che, evidentemente, non era la sua lingua madre.

Lei non sembrò avvedersene, nemmeno quando le fu troppo vicino. Nemmeno quando sentì su di sé il suo sguardo inquisitore, compiaciuto, fin troppo… accalorato.

“Natuska.” Pronunciò monocorde, stando bene attenta a non rivolgergli nemmeno uno sguardo.

“Chi tuo padre?” Un sussurro caldo, sul viso.

“Ivan.”

“Tua madre?”

“Morta.”

“Dove sei cresciuta… Natuska?”

“In America.”

“Per chi lavori?”

“Per me sola.”

“Chi ti ha addestrata?”

“Nessuno.”

“Quanti anni hai, Natuska?”

“Venti.”

L’uomo sembrò piuttosto soddisfatto di quello scambio di battute apparentemente insulso.

In realtà, entrambi sapevano di star recitando una parte. Un alias, in cui la ragazza aveva dovuto identificarsi rapidamente. Una parte che aveva dovuto imparare a memoria, fino a rivestirsene.

“Tu… pronta?”

La ragazza si rimise in piedi.

Annuì solo una volta.

“Viaggerai tu sola.”

“Lo so.”

Lo vide porgerle uno zainetto. Piccolo ma abbastanza corposo, nella consistenza.

Vi avrebbe trovato tutto ciò di cui aveva bisogno: era già stata abbondantemente istruita a riguardo.

La sospinse fuori dalla stanza, la costrinse a percorrere il corridoio, a tenere il suo passo, lento, trascinato.

Natuska – così si chiamava, doveva tenerlo a mente – odiava quel passo.

Perché le ricordava un po’ troppe cose. La maggior parte delle quali affatto piacevoli.

E non era il ricordo dei test fisici, mentali… ma qualcosa che andava a scavare in una sensazione più intima. In situazioni… più intime. Che avrebbe potuto definire, senza troppi giri di parole: sgradevoli.

Quel suo passo affaticato (frutto di un vecchio incidente, conosceva la storia a memoria). Il cigolio della scarpa dalla suola consunta dall’errata postura. E poi, a seguire, l’odore del suo alito: caldo, dolciastro e pastoso. Il peso del suo sguardo, bramoso e tutt’altro che paterno. La consistenza delle sue mani. Morbide… scivolose, viscide.

Tentò di concentrarsi su quel nome: Natuska.

L’aveva scelto lui, ma sarebbe stata l’ultima cosa che le avrebbe regalato, per un bel pezzo.

Si concentrò sull’identità di quella ragazza che avrebbe lei stessa imparato a conoscere e forgiare, giorno dopo giorno, a darle un’identità reale, concreta, appena fuori da lì.

Come tante altre, prima di lei, a cui aveva dato vita. Maschere che aveva indossato una dopo l’altra, per poi svestirsene e gettarle, così come si fa con i vestiti consunti.

 

Natuska.

Natuska non era che l’ennesimo abito. Avrebbe dovuto imparare a conviverci per un po’. Giusto il tempo di portare a termine l’ennesimo compito.

 

Il portellone d’ingresso venne aperto.

Ad attenderli, all’esterno, un elicottero. Il vento gelido dell’inverno si confondeva con quello delle pale che alzavano pioggia e neve in turbini inconsistenti.

I capelli frustavano il viso di Natuska. Scomposti, bellissimi. Visibili presumibilmente a miglia di distanza, in quel mare di bianco e grigio.

“Ti aspettano… malìshka”, la voce carezzevole, disgustosa, “Ci rivediamo… all’alba.”

All’alba.

Scattò in lei, nella sua testa, un meccanismo che non riuscì a frenare.

Qualcosa le si agitò nello stomaco, nel cuore, nelle mani.

Posò a terra lo zaino, con un gesto meccanico, istintivo. Si chinò su un ginocchio, che sprofondò nella neve, così soffice e molliccia, fastidiosa. Non sembrava le importasse.

“Cosa fai?”

Frugò solo un istante, prima di saggiare la consistenza di metallo di una pistola.

La caricò ancora prima di estrarla.

“Malìshka?”

Si rimise in piedi, puntò l’arma alla tempia dell’uomo e fece fuoco.

L’eco dello sparo fu immediatamente inghiottita da quello delle pale ancora in movimento.

Il corpo crollò a terra con un tonfo attutito e vagamente bagnato. La testa, spappolata, a decorare l’ingresso di un color rosso vivo, ossa e materia cerebrale.

“Non sono più la tua malìshka…” esalò, ripulendosi lo zigomo da uno schizzo di sangue sfuggito al suo controllo.

Reclinò il capo di lato per gustarsi al meglio il proprio operato. L’espressione di quel viso, o di quello che ne era rimasto, scolpito per sempre nello stupore, nell’incredulità. Un buon modo per ricordarlo.

Un uomo, appostato poco più avanti, le stava correndo incontro, l’arma sguainata, pronto a fare fuoco.

Decise di averne avuto abbastanza.

Raccolse di nuovo lo zaino. Scavalcò il cadavere del suo (ex) supervisore e senza nemmeno tentare di scansare la scarica di proiettili del suo improvvisato traghettatore, sparò uno, due, tre colpi. Che andarono a segno, senza il minimo sforzo.

Raggiunse l’elicottero, senza più voltarsi indietro.

Aveva le conoscenze necessarie per pilotarne uno?

Ne aveva. L’avevano preparata anche a quell’evenienza.

Stava davvero contravvenendo a un ordine? Stava davvero approfittando dell’occasione per… scappare? Si sarebbe trovata circondata in fretta. Molto in fretta.

Dunque doveva agire in fretta. Si infilò le cuffie che l’uomo con la pistola aveva abbandonato sui comandi e si preparò al decollo.

Adesso che si era liberata dell’aggancio che la teneva ancorata alla sua formazione, poteva rinascere totalmente Natuska.

 

*


Non si era fatto assumere dallo SHIELD per fare il cecchino, ma chissà come era quello che finiva sempre per fare.

Per certi versi era effettivamente ciò che gli riusciva meglio. Per altri… avrebbe preferito che la sua straordinaria qualità si fosse manifestata ai fornelli.

Prima di tutto perché non rischi la vita, ai fornelli (a meno che tu non finisca in qualche reality show dove un cuoco pazzo ti lancia dietro i coltelli se sbagli la cottura di un supplì, nemmeno gli avessi bollito la mamma), in secondo luogo perché magari il tasso del suo colesterolo sarebbe stato un bel po’ più al di sotto del livello di guardia.

Il problema stava nel fatto che era un americano di quelli very. E, in quanto tale, incline a consumare junk food, per rendere onore agli antenati. Pellegrini che se avessero scoperto le gioie del fritto, forse avrebbero risparmiato agli Stati Uniti un sacco di stronzate… perché sterminati dalle coronarie. Con buona pace dei nativi.

Considerazioni tutt’altro che consone per un appostamento.

Faceva freddo. Un freddo da morire in Ungheria.

Avesse saputo di trovare tanta difficoltà d’espressione in una lingua dove forse nemmeno le parolacce sono intuibili, si sarebbe procurato un vocabolario.

O quantomeno avrebbe chiesto alla giovane Hill di dargli un paio di dritte sul lessico.

Il fatto che Fury se la fosse scelta giovane, gli fece rivalutare il vecchio volpone.

Il fatto che avesse pensato a una simile porcata, gli fece prendere appunto mentale di fare ammenda.

Il fatto che fossero passati cinque anni e non fosse più un cazzone scanzonato che non doveva rendere conto a nessuno, non faceva certo di lui una persona tanto diversa.

Se non per la disciplina.

Ancora guardava Star Wars. Almeno un paio di volte l’anno.

Ancora si concedeva serate alcoliche. O lussureggianti lussuriosi festeggiamenti prima di una missione.

Ma, ancora peggio, si dimenticava di mettere la canotta di lana, sotto la divisa.

La neve svolazzava leggiadra, in turbini scomposti, nemmeno si fossero trovato nella cazzo di steppa.

L’obiettivo era stato individuato a qualche chilometro da Budapest. Fuori città, nei pressi di un bosco che, a chiamarlo a gran voce, uno scenario meno inquietante non ci sarebbero riusciti...

O quello o la Transilvania.

Per come soffiava il vento, fra le piante, a ululare come banshee nella brughiera, per un attimo si chiese se non ne sarebbe saltata fuori una. Quella o un lupo mannaro. Insomma, non si fosse capito dal contesto, Clint continuava a pensare di essere finito in un film horror di dubbio gusto.

E agì di conseguenza.

“Vieni a giocare con noi, Danny?” sussurrò mentre di nuovo il fischio del vento si portava via, impertinente, la citazione.

Le mani strette attorno all’arco, la freccia puntata a un target immaginario.

Forse sarebbe stato giusto, a onor di cronaca, ragionare sul fatto che Clint si trovasse appollaiato come un gufo su un albero, a pochi metri da terra, mentre seguiva da almeno un’ora le impronte insanguinate che lo avrebbero condotto dal suo obiettivo. Già braccato, ferito, rallentato.

Sarebbe stato un gioco da ragazzi.

Prima che facesse giorno, sarebbe tornato a casa. A mangiare gulasch ungherese. Per colazione.

 

Ma lei saltò fuori che non era ancora l’alba.

Una macchia nera e rossa in quello scenario bianco morte.

Scoccò la prima freccia che la prese di striscio.

Con la seconda balzò giù dall’albero a tenerla sottomira.

La terza…

La terza non riuscì a scoccarla mai.

Quei capelli. Quel viso.
La chiamavano Vedova Nera, ma quando se la ritrovò di fronte, a pochi passi di distanza, tutto pensò fuorché a un ragno.

 

“Nat…” gli sfuggì dalle labbra, mentre il cuore perdeva un battito e lo stomaco si contraeva sordo e traditore.

E no, non per il pensiero del Gulasch che lo aspettava in albergo.

 

___

*cominciamo

** piccolina

 

Note:

No, non siamo ancora alla fine. In realtà manca ancora qualche capitolo. Perché, come detto precedentemente, la storia fa veramente un po’ quello che vuole lei. E quindi ora ci ritroviamo qui, al limite del prologo. E a doverlo spiegare. Le traduzioni dal russo, al solito arrivano dal traduttore di google. Per cui se sono sbagliate è colpa sua. No, il russo ancora non lo parlo.
Ringraziamenti a tutti quanti manifestano il loro apprezzamento alla storia, alla socia e beta che sempre supporta e sopporta e a tutti gli altri. Anche tu, che leggi silente, grazie.

Non mi resta che rimandare alla prossima, bye!

  
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