Libri > Percy Jackson
Segui la storia  |       
Autore: ValeryJackson    16/09/2014    11 recensioni
[Seguito de Il Morbo di Atlantide]
Non si trasforma la propria vita senza trasformare se stessi.
Questo, Skyler, l'ha imparato a sue spese.
Per lei è ancora difficile far coesistere la sua natura mortale con quella divina, e superare quella sottile barriera che le separa, dal suo punto di vista, è una missione impossibile.
L'unico modo per scoprire come fare è forse quello di passare l'intera estate al Campo Mezzosangue, insieme ai suoi amici, insieme alla sua famiglia. Ma se fosse proprio lì il problema?
Se lei non fosse mai venuta a conoscenza della sua vera natura, ora sarebbe tutto più facile, no?
E' cambiata, e di questo ne è consapevole. Ma in meglio o in peggio? E di chi è la colpa? Sua, o di tutto ciò che la circonda? E' possibile tornare ad essere quella di un tempo senza però rinunciare a ciò che ha adesso?
Attraverso amori, amicizie, liti, incomprensioni, gelosie, nuovi arrivi e promesse da mantenere, Skyler dovrà decidere quale lato della sua anima sia quello dominante. Ma soprattutto, di chi fidarsi nel momento in cui tutto sembra sul punto di sfaldarsi.
Ma sei proprio sicuro che siano tutti ciò che dicono di essere?
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Connor Stoll, Leo Valdez, Nuovo personaggio, Percy Jackson, Quasi tutti, Sorpresa, Travis & Connor Stoll
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'The Girl On Fire'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 


Quindi, era così il famoso Oblio.
Un pozzo senza fondo. Il nulla più totale. Un’onda di oscurità in un mare d’inchiostro.
Aveva freddo, ma sudava.
Aveva caldo, eppure era scossa da dei violenti brividi.
O era la sua anima che tremava?
Non riusciva a sentirsi le dita dei piedi. Per quanto si sforzasse di muoverle, quelle parevano troppo lontane, rese distanti per via di quelle due assi di legno che erano diventate le sue gambe.
Era viva? Era morta? Era qualcosa, almeno?
E dove si trovava?
Perché era tutto buio? Perché nessuno accendeva la luce?
Sono morta, pensò, e a dispetto di quanto sperasse non arrivò niente e nessuno ad affermarle il contrario.
Era l’Inferno, quello? O il Paradiso?
Se era morta, perché riusciva a sentire ancora il rumore raschiante del proprio respiro?
Quando fece per arrendersi finalmente all’evidenza di non avercela fatta, avvertì qualcosa.
Una scossa elettrica le penetrò nella pianta dei piedi, risalendo su per la colonna vertebrale. Si rese conto di aver riacquistato la sensibilità alle gambe solo quando riuscì a piegare il ginocchio. 
Avvertiva i vestiti bagnati di sudore incollati al proprio corpo, i capelli attaccati al viso. Provò a muovere anche un dito, quasi a voler avere la conferma che potesse usare ancora anche quelli. Non tentò con gli altri, però. Un dito bastava e avanzava.
Il suo respiro era corto, ma regolare. Ogni volta che il petto si alzava e si abbassava, una fitta le colpiva i polmoni, quasi fosse troppo faticoso, per lei, ingerire tutta quell’aria tutta in una volta.
Come fossero un sipario che scopriva il palcoscenico, le sue palpebre si sollevarono, e i suoi occhi furono accecati da una forte luce bianca.
Quando quelle moleste macchie scure smisero di danzarle nella retina, lei fu sollevata nel constatare che poteva ancora usufruire dell’uso della vista.
Inclinò di poco il capo, per squadrare l’ambiente che la circondava, ma con una smorfia dolorante si rese conto che quel gesto non faceva altro se non farle scoppiare un mal di testa nella scatola cranica.
Così, fece vagare solo gli occhi intorno a sé, e fu allora che si rese conto di trovarsi in una stanza. Pareti bianche, piccoli mobili di legno bianco. Anche le lenzuola del letto sulla quale (con orrore) si accorse di essere stesa poté giurare fossero dello stesso colore.
Stava per chiedersi dove si trovasse, quando un odore pungente le colpì le narici. Disinfettante.
Era un ospedale? E se sì, come ci era arrivata? Non ricordava di essere mai entrata in un ospedale. Non dopo quello che era successo, almeno.
Il prosi tutte quelle domande era come un ago conficcato nella sua mente, che aumentava il mal di testa.
Voltò il capo dall’altro lato, ignorando il forte dolore alle tempie, e fu a quel punto che la vide.
All’inizio non riuscì a metterla a fuoco bene, ma alla fine vide distintamente la ragazza seduta accanto al suo letto.
Aveva i capelli mogani, striati in alcuni punti di rosso, e li teneva accuratamente raccolti in una coda, nonostante qualche ciocca ribelle sfuggisse al controllo dell’elastico, incorniciandole il viso che a primo acchito sembrava gentile. I suoi grandi occhi scuri erano striati d’oro, e la soppesavano con cura ed attenzione. Dal modo in cui increspava le labbra, lei giurò stesse trattenendo il fiato.
Aprì la bocca per parlare, ma dovette aver notato il suo sussulto, perché poi accennò un lieve sorriso.
«Ciao» sussurrò, con voce pacata e gentile.
Chi era quella lì? E che cosa voleva da lei?
E dove si trovava? E perché le stava parlando?
E chi l’aveva portata lì? E che cosa era successo?
E…? E…? E…?
Troppe domande, troppe poche risposte.
Cominciò ad ansimare, spaventata.
«Ehi, no, non devi aver paura di me» la rassicurò la ragazza, posandole una mano sul braccio.
Lei si irrigidì, e fu solo a quel punto che quella ritirò la mano, quasi avesse paura di scottarsi. O di scottarla.
«Non voglio farti del male» disse, e la sua sembrava più una promessa. «Non devi avere paura, sei al sicuro.»
«Chi sei?» provò a domandare. Ma evidentemente non usava la voce da fin troppo tempo, perché dalla sua bocca uscì un suono rauco e strozzato.
La ragazza sospirò, per poi inclinare il capo di lato. «Mi chiamo Skyler» scandì, lentamente. «E tu sei…?»
Skyler. Bene. Almeno sapeva il suo nome. Era già qualcosa.
Ma poteva davvero fidarsi di lei?
Accorgendosi solo in quel momento del suo enorme silenzio, si trovò di fronte ad un bivio. La sua mente le ordinava di non proferire parola; il suo cuore le suggeriva che quegli occhi color cioccolato non potevano essere cattivi.
Doveva scegliere, e non si rese conto di aver preso fiato per parlare finché le sue labbra non articolarono flebilmente il suo nome.
«Melanie.»
Skyler annuì, sollevata, buttando fuori il respiro che aveva trattenuto.
La ragazza continuava a tenerle gli occhi color nocciola puntati addosso, uno sguardo curioso e inquisitore, ma il fatto che le avesse rivelato il suo nome voleva dire che forse cominciava a fidarsi di lei.
«Bene, Melanie» continuò, parlando molto lentamente. Si sporse verso di lei, posando i gomiti sulle ginocchia, ma prima che potesse aggiungere altro quella chiese: «Dove mi trovo?»
«Al sicuro» fu la risposta pronta di Skyler.
«Al sicuro dove
La figlia di Efesto esitò un secondo, prima ammettere: «Sei al Campo Mezzosangue, Melanie. L’unico posto tranquillo per quelli come me. Per quelli come noi. Tu sai...» Un tentennamento che durò un secondo di troppo, mentre con un po’ di timore faticava ad articolare quella domanda: «Tu sai cosa sei?»
La ragazza non rispose. Un silenzio carico di tensione impregnò la stanza, e Skyler poté giurare che se uno spillo avesse attraversato l’aria sopra la sua testa, in quel momento, lei l’avrebbe avvertito.
Osservò titubante la ragazza, non riuscendo ad interpretare il perché fissasse il soffitto.
In quel momento, con i capelli color miele sparsi sul cuscino bianco e la pelle più pallida del normale, a Skyler ricordò Alice nel Paese delle Meraviglie. E temette che come la bambina delle fiabe, anche lei si fosse trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Ma i confini del Campo non mentono. Non sarebbe riuscita a superarli, se non fosse stata come tutti loro.
Quello era il posto giusto per lei. Doveva solo capirlo.
Quando finalmente aprì la bocca per parlare, Skyler mai si sarebbe aspettata di sentire la risposta che invece la colpì come uno schiaffo in faccia.
«Sì.»
La figlia di Efesto inarcò le sopracciglia, visibilmente stupita. «Davvero?»
«Mezzosangue è sinonimo di semidio, giusto?»
Quindi lei sapeva. Per questo era riuscita a trovare il Campo. Per quanto tempo l’aveva cercato, prima di arrivare lì?
«S-sì.» Skyler annuì, ancora un po’ interdetta. «Quindi tu sai…?»
«Che gli dei greci esistono?» La voce della bionda si ridusse ad un sussurro incerto, quando ammise: «Sì. Sì, lo so.»
Skyler sospirò, indecisa se sentirsi sollevata perché non avrebbe dovuto spiegarle tutta la storia o a disagio perché ora non aveva più il coraggio di porle la domanda successiva.
«Ti ricordi…» chiese cauta, sgranchendosi la voce nonostante non ne avesse bisogno. «Ti ricordi come sei arrivata qui?»
Melanie si irrigidì, ma dopo essersi morsa l’interno della guancia glielo raccontò.
Le raccontò di come avesse vagato per i boschi per settimane, e di come il suo genitore divino (e cioè sua madre) l’avesse riconosciuta senza un’apparente motivo.
Le raccontò di come avesse sognato questo posto che tutti chiamano Campo Mezzosangue, e di quanto avesse camminato per arrivarci.
Le raccontò del mostro che l’aveva attaccata. Lì la sua voce si incrinò, ma si sforzò di concludere il discorso fino alla fine, impegnandosi per ricordare ogni particolare. Grifone, l’aveva chiamato Skyler. Ma non volle dirle altro, né lei volle saperlo.
E finì il tutto spiegandole che dopo il buio più totale si era svegliata lì.
Non le disse di quegli occhi. Non appena aveva incrociato quelli di Skyler, non aveva fatto altro che figurarseli davanti.
Il suo era un ricordo indistinto, eppure così nitido. Non le veniva in mente altro, se non quel paio di occhi che fluttuavano davanti ai suoi.
Erano verdi, ma di un verde così chiaro da sembrare trasparente. E avevano delle piccole striature gialle all’interno.
Melanie fu sicura che quegli occhi fossero stati l’ultima cosa che aveva visto prima di perdere conoscenza.
Ma esistevano davvero, o se li era solo immaginati?
«Come mi avete trovato?» domandò dopo un po’. Il suo tono diventava mano a mano più sicuro, più forte.
«Ecco, noi…» Come dirglielo? «Ti abbiamo trovata sanguinante ai confini del Campo.»
«Tu e chi?» Magari Skyler sapeva. Magari lei conosceva quegli occhi limpidi come uno specchio.
La figlia di Efesto si morse il labbro inferiore, sospirando. «Non è importante» disse, con poca convinzione.
Melanie non insistette. Un po’ perché non voleva fare la figura della stupida, un po’ perché avvertiva che una domanda stava premendo sulle labbra dell'altra, nonostante lei si sforzasse di trattenerla.
«Quindi, non sai chi è il tuo genitore divino?» chiese la mora, accigliata.
Melanie scosse leggermente la testa. «Te l’ho detto, mi è spuntato quel simbolo sulla testa, ma non avevo idea di chi fosse. Non lo ricordo neanche bene. Magari se mi concentro…»
Solo a quel punto, quando seguì distrattamente il movimento della mano di Skyler che si accarezzava il braccio, notò il tatuaggio.
«Ehi, ne avevo uno così anch’io!» esclamò, sgranando gli occhi. «Più o meno. Ma con il simbolo che avevo sulla testa. Però era nello stesso punto.» Provò a sporgersi di più oltre il bordo del letto, ma non appena allungò il collo una fitta le colpì l’incavo della schiena, irradiandosi per tutto il corpo. Era ancora troppo debole. Non poteva muoversi.
Skyler sembrò trattenere il respiro, mentre con un fil di voce sussurrava. «Melanie, devo dirti una cosa…»
Fu a quel punto che lo sentì. Un vuoto. Una mancanza. Quasi che lungo il suo fianco si fosse disteso un fantasma.
Guardò Skyler, preoccupata, ma il suo sguardo triste non fece che farla impallidire ancora di più.
Un formicolio le invase la spalla sinistra, e fu solo in quell’istante che lei si voltò lentamente a guardarla.
Il suo tatuaggio non c’era più. E con lui, era sparito anche il suo braccio.
Melanie sentì il respiro mancare, mentre i suoi occhi brucianti non riuscivano a staccarsi da quell’orrido moncone, che le arrivava appena sotto l’ascella.
E allora ricordò. Il mostro. Il suo ruggito. I suoi denti che si chiudevano sul suo braccio. Tutto quel sangue.
Un singhiozzo le sconquassò rumoroso il petto prima che riuscisse a fermarlo.
«Melanie.» Skyler era ancora lì, riusciva a sentirla. Ma non aveva il coraggio di guardarla.
Strinse con forza le candide lenzuola nella mano. L’unica mano che le restava. «Lasciami sola, per favore» disse, con voce sommessa, di chi sta per crollare.
La figlia di Efesto non accennò a spostarsi, e così con voce tremante la implorò. «Ti prego.»
Skyler sospirò, cupa, ma alla fine si alzò dalla sedia.
Melanie fu sicura che se ne fu andata solo quando un silenzio opprimente occupò ogni centimetro quadro della stanza, soffocandola.
Un altro singhiozzo sfuggì al suo controllo, e lei nascose il viso nella piega del gomito.
Calde lacrime le bagnarono le guance, e prima che se ne rendesse conto stava piangendo. Stava piangendo sommessamente, in silenzio. Stava piangendo fino a farsi venire la nausea.
Stava piangendo con la speranza che, non appena avesse smesso, tutto quell’incubo sarebbe finito.
 
Ω Ω Ω
 
John aspettava con Chirone nel corridoio.
Non gli era mai piaciuto quel posto, ma non l’aveva mai detto a nessuno. Per un figlio di Apollo come lui sarebbe sembrato strano. Lì c’erano perlopiù suoi fratelli e sorelle. In un certo senso era come stare nella Cabina 7. O almeno, avrebbe dovuto essere così.
Ma lui odiava quell’odore di… ospedale. E il sapore pungente del disinfettante, e lo scricchiolio fastidioso di ossa rotte, e la puzza nauseante di qualcosa che stava per perdere la vita. 
E poi, riportava a galla troppi ricordi.
Ogni volta che entrava lì dentro, la cicatrice gli faceva male, e la sua mente volava a cinque anni prima, quando era successo quello che non doveva succedere. Quando aveva perso per sempre la sua famiglia.
Da quando lui e Skyler avevano soccorso quella ragazza ai confini del Campo, era stato tutto una massa indistinta e confusa di immagini. Quasi la sua mente avesse deciso di attutire ogni rumore, si era sentito come se, da dentro una bolla, stesse osservando Chirone e tre dei suoi fratelli precipitarsi con Skyler da loro, e strappargli la ragazza dalle braccia. E poi portarla di corsa in infermeria, e chiamare a raccolta altri due figli di Apollo, mentre lei continuava ancora a perdere sangue.
John li aveva seguiti, questo lo ricordava. Ma non appena aveva fatto per entrare in quella che era per loro la sala operatoria, Chirone gli aveva posato una mano sul petto, bloccandolo.
«Sei troppo sconvolto, ragazzo» aveva affermato con voce risoluta, ma John non era sicuro da aver sentito tutte le sue parole, mentre cercava di sbirciare oltre la sua spalla. «Hai già fatto un ottimo lavoro, ma da qui ci pensiamo noi.»
E poi, gli aveva sbattuto la porta in faccia, lasciandolo lì, solo in mezzo al corridoio, a torso nudo, intontito e sporco del sangue di quella ragazza.
Aveva smesso di fissare quella porta chiara solo quando Skyler l’aveva tirato per un braccio, e al suo orecchio erano arrivate parole come preoccuparti, riposo e maglietta.
L’aveva accompagnato alla sua cabina, dove lui si era fatto una doccia, scrostando con foga il sangue di quella semidea dal suo petto e rischiarendosi finalmente le idee. Aveva poi indossato una maglietta pulita, e senza che né lui né Skyler dicessero niente, erano corsi di nuovo verso l’infermeria.
E avevano aspettato lì, una, due, sei ore, seduti sulle sedie di plastica del corridoio. E mentre Skyler ad un certo punto aveva ceduto al sonno, appisolandosi sul suo grembo, lui non aveva smesso di guardare la porta della sala operatoria, inspiegabilmente ansioso e preoccupato.
Aveva appoggiato la nuca contro il muro solo per un momento, quando finalmente Chirone era uscito dalla stanza.
John era scattato in piedi così velocemente da spaventare Skyler, che stava lentamente cominciando a svegliarsi.
«Allora?» aveva chiesto inquieto il figlio di Apollo, squadrandolo in cerca di risposte.
Il centauro si era sfregato il viso, affranto, e per un attimo John aveva temuto il peggio. Ma poi Chirone aveva annuito.
«Ha perso circa il 60% del suo sangue» aveva detto, con tono grave. «Ma siamo riusciti a salvarla. Ora è indebolita, ma sta bene.»
E mentre John ringraziava gli dei per averla risparmiata, Skyler domandava: «È sveglia?»
«Non ancora. Per adesso è in una sorta di stato comatoso, ma preghiamo gli dei perché si riprenda presto.»
«E il braccio?» John non aveva idea del perché l’avesse chiesto, ma la domanda aveva lasciato le sue labbra prima che potesse serrarle. «È da lì che ha perso tutto quel sangue, giusto?»
Chirone aveva annuito, cupo. «Purtroppo abbiamo dovuto amputarlo.»
Era seguito il silenzio. Nessuno aveva il coraggio di proferire parola. Nessuno sapeva come avrebbero affrontato quella situazione.
«Qualcuno dovrà essere lì con lei, quando si sveglierà» aveva poi detto il centauro.
«Ci penso io» si era offerta Skyler, con tono deciso. «Sono una ragazza. Di me si fiderà più facilmente.»
E così era entrata nella sua stanza, e per più di un’ora e mezza non ne era uscita.
John cominciava a diventare irrequieto. Mentre Chirone era rimasto nella stessa posizione per tutto quel tempo, in piedi accanto a lui con le braccia incrociate, lui si era torto le mani e si era alzato, e riseduto. Poi di nuovo alzato, e poi di nuovo riseduto. Poi di nuovo alzato. E quando Skyler uscì dalla stanza era un’altra volta seduto.
Non appena la vide, balzò per l’ennesima volta in piedi, correndole incontro.
«Allora, come sta?»
Skyler corrucciò le sopracciglia ed esitò, cosa che a lui non piacque per niente. Ma poi annuì leggermente. «Sta bene. È viva, ed è questo che conta. Sapeva già di essere una semidea.»
«Ti ha detto qualcosa del suo genitore divino?» chiese Chirone, con premura.
Skyler scosse il capo. «È stata riconosciuta, ma non sa da chi. E purtroppo non possiamo vedere il suo tatuaggio. Dice che forse può ricordare la forma del simbolo, ma non ho avuto il coraggio di chiederglielo adesso.»
Chirone annuì, quasi fosse d’accordo con la sua decisione. «Lo scopriremo poi con calma.»
«E non ti ha detto altro?» domandò apprensivo John, guardando l’amica. «Da dove viene? Se magari ricorda qualcosa?»
Skyler si strinse nelle spalle, e dal modo in cui i suoi muscoli erano contratti, John capì fosse un po’ a disagio. «Poi ho dovuto dirle del braccio.»
Nessuno fiatò, né fece qualche altra domanda. Solo dopo aver fatto un grande respiro, Chirone disse: «Qualcuno deve occuparsi di lei. È ancora instabile, e nonostante sappia già della sua natura semidivina tutto questo è comunque nuovo, per lei. Aggiungiamoci poi la tragedia che le è capitata, e otteniamo il mix perfetto.»
«Ci penso io» si offrì John, senza nemmeno dargli il tempo di terminare la frase.
Skyler gli posò una mano sul braccio. «Non lo so, John. Forse non è una buona idea.»
«E chi meglio di me, scusa? Sono un figlio di Apollo, so come muovermi in mezzo ai medicinali. E so come ci si sente ad aver perso qualcosa.»
Chirone sembrò non capire, ma Skyler sì. Lo guardò per un secondo negli occhi, prima di accennare un flebile sorriso e voltarsi verso il centauro. «Non affiderei la mia vita nelle mani di nessun’altro» affermò, con tono deciso.
John guardò Chirone, in attesa.
L’uomo studiò per un secondo i due ragazzi con lo sguardo, ma dal suo volto si capiva che era troppo stanco per sollevare delle obbiezioni, per cui annuì. «Allora è deciso.» Diede una pacca sulla spalla del ragazzo. «Sai quello che devi fare. E se non lo sai, non esitare a chiamarmi.»
«Si conceda un po’ di riposo, Chirone» gli disse invece John, con un cenno del capo. «Se lo merita.»
Il centauro gli regalò un sorriso triste, per poi allontanarsi al trotto verso la sua umile dimora.
Quando fu sparito, John tornò a guardare Skyler. «E anche tu» la ammonì dolcemente, posandole le mani sulle spalle. «Va a dormire.»
La ragazza storse il naso, contrariata. «Sei sicuro di volerlo fare?»
«Ehi, sei tu che non affideresti la tua vita nelle mani di nessun’altro, no?» scherzò, nel vano tentativo di strapparle un sorriso. Poi sospirò. «Quella ragazza è in buone mani, te lo assicuro.»
«Di questo non ne ho mai dubitato» sorrise Skyler, per poi scoccargli un bacio sulla guancia e andare via, strascicando i piedi per la stanchezza.
A differenza sua, John era molto più vigile di quanto non si fosse mai sentito.
Si voltò a guardare la porta di quella ragazza che poco prima stava morendo tra le sue braccia, e che adesso era lì, sana e salva.
Forse i miracoli esistono davvero, pensò John. E forse ce n’è proprio uno dietro quella porta.
E, mentre si preparava psicologicamente per quella che sarebbe stata la notte più insonne di tutta la sua vita, con un sorriso capì che sì, quella ragazza era un miracolo.
E sì, lui gliel’avrebbe fatto capire.
 
Ω Ω Ω
 
Dopo che Skyler era uscita dalla sua stanza, Melanie non aveva più sillabato una parola.
Alcune figlie di Apollo erano entrate ed uscite da lì parecchie volte nelle ultime nove ore. Le avevano spalmato dell’unguento sulla sua nuova ferita di guerra e le avevano cacciato in bocca contro la sua volontà una strana poltiglia. Ambrosia, l’avevano chiamata. Ma Melanie non ne sapeva niente a riguardo, se non che sapesse di biscotti al cioccolato.
Come quelli che le preparava suo padre.
Tra uno spostamento e l’altro, quelle ragazze avevano anche provato a farle delle domande, dapprima difficili, poi via via più banali. Ma, ovviamente, non avevano ottenuto alcuna risposta.
Melanie si rifiutava anche di guardarle. Se ne stava lì, lo sguardo fisso sullo spoglio muro, chiusa nella sua teca di silenzio, ad ascoltare gli assordanti rumori che facevano i pensieri nella sua mente.
Prima, le figlie di Apollo arrivavano con intervalli di venti minuti. Ora, invece, era da più di due ore che Melanie aveva finalmente un po’ di tregua.
Tutte quelle novità la stavano soffocando. Sentiva una sorta di strano peso sul petto, che le impediva di respirare se non trattenendo il fiato per un po’ per poi lasciarlo andare.
La testa le faceva ancora male. Non come prima, ovviamente. Adesso quello era diventato più un dolore pulsato, quasi avesse deciso di seguire il ritmo del suo cuore che batte, infrangendosi contro le sue tempie.
Dopo quella prima volta, non aveva più trovato il coraggio di guardare ancora il moncone. Che senso aveva? Era lì, e lei lo sentiva.
Percepiva ancora lo scheletro del suo braccio; il fantasma della pelle che non c’era più avere la pelle d’oca.
In alcuni momenti aveva come la sensazione che le pizzicasse, ma ogni volta che faceva per allungare la mano nell’intento di far sparire quel prurito, le veniva in mente che lì non ci avrebbe trovato più niente, e quindi stringeva nel pugno le lenzuola imponendosi di pensare ad altro.
«Poverina», aveva sentito sussurrare a quelle ragazze ad un certo punto, quando erano già uscite dalla sua stanza. «Per lei deve essere dura.»
Ma si sbagliavano, ovviamente. Non era dura. Non era difficile superarlo.
Era logorante.
Aveva appena perso una parte di sé. Ma non di qualcosa che si rimargina, come il cuore. No, quella parte non sarebbe tornata indietro mai. Era andata via davvero. Per sempre.
Ma infondo, Melanie non le biasimava. Cosa potevano saperne, loro, di come ci si poteva sentire?
Cosa potevano saperne, di cosa significa perdere un braccio?
Niente, era questa la verità. E lei avrebbe dovuto affrontare tutto quel dolore da sola. Di nuovo. E per sempre.
Sentì gli occhi bruciare, e si accorse delle lacrime che le rigavano le guance solo quando sentì un sapore salmastro agli angoli della bocca.
Tirò su col naso, asciugandosele velocemente con il dorso della mano e stringendo i denti. Piangere non sarebbe servito a niente. Le lacrime non avrebbero riportato indietro il suo braccio. Né nessun’altro.
Prese un respiro tremante, facendo vagare gli occhi per la candida stanza.
Cominciava ad odiarla. Voleva andare via di lì. Voleva solo alzarsi da quel letto, e correre fino a sentir cedere le gambe; e salire sulla montagna più alta che esista e gridare fino a che non le sarebbero bruciate le corde vocali.
Voleva lasciarsi morire lì, in quella piccola stanza, nella speranza che forse, così facendo, tutto quel dolore sarebbe evaporato fuori dal suo petto; che l’avrebbe lasciata in pace.
Forse i Campi Elisio non erano così male. Forse era davvero quello l’unico posto in cui si sarebbe sentita di nuovo completa. In cui non sarebbe più stata attaccata dai suoi stessi pensieri.
Senza pensarci, strinse nel pugno il medaglione che portava al collo, strizzando con così tanta forza gli occhi da sentire delle fitte dietro le palpebre. Si rimproverò mentalmente.
Che pensieri erano mai questi? Davvero preferiva morire, invece di continuare a lottare?
Sì, ed era questo il problema.
Preferiva farla finita subito, ma non perché fosse la via più facile per risolvere tutte le sue congiure.
No. Lei voleva solo un po’ di tranquillità. Voleva un cuore meno pesante, dove non ci sarebbero stati rabbia, odio, tristezza, rancore, solitudine, disperazione. Un cuore dove non ci sarebbe stato altro, se non la pace che tanto sognava.
Non voleva essere felice. Voleva essere libera.
Papà sarebbe inorridito, di fronte a questi pensieri, si disse, rigirandosi il medaglione d’oro tra le mani.
Era a forma di cuore, con sopra delle delicate incisioni floreali. Melanie sfiorò con il polpastrello il fiore che troneggiava al centro, malinconica. Poi, premette il piccolo pulsante e il medaglione si aprì. Dentro, c’era un orologio. Suo padre non lo faceva di mestiere, ma nel tempo libero ne aggiustava qualcuno, per passione. La passione che a lei era sempre mancata.
Non capiva cosa ci fosse di tanto interessante nell’osservare i loro ingranaggi, e i loro minuscoli chiodi, e quelle due lancette delle quali ogni movimento era accompagnato da uno snervante ticchettio.
Ora che si trovava lì, in quella stanza, però, rimpiangeva di non aver aggiustato più orologi con lui.
Nel lato sinistro del medaglione, invece, c’era una foto. Era sua e di suo padre, di quando lei aveva solo cinque anni. Le piaceva guardarla, soprattutto quand’era giù di morale.
Come in quel momento. Ma, con triste orrore, si accorse che neanche quella sarebbe bastata a ricucirle l’anima spezzata.
Qualcuno bussò delicatamente alla porta, e Melanie richiuse con uno scatto il ciondolo che stava rimirando, nascondendoselo sotto il colletto della maglietta.
Senza aspettare un suo permesso per entrare, il cardine cigolò, ed un ragazzo varcò la soglia.
A giudicare dall’aspetto, doveva essere imparentato con tutte le altre figlie di Apollo che fino a quel momento l’avevano assistita.
Melanie fece roteare gli occhi, per poi inchiodarli nel muro alla sua destra, decisa a non guardarlo.
Il ragazzo probabilmente non si era accorto della sua presa di posizione, oppure fingeva di non notarla. Quale delle due fosse la verità, comunque John, gentilmente, sorrise.
«Ciao» la salutò, con tono deciso ma pacato. «Come va?»
Proprio come tutte le altre ragazze che le avevano posto quella domanda, non ottenne risposta.
Lui però non sembrò scomporsi, e come se niente fosse accaduto si avvicinò al suo letto, squadrando il vassoio ancora pieno che qualcuno aveva posato sul suo comodino.
«Hai mangiato?» provò di nuovo, prendendo una mela dal vassoio e rigirandosela fra le mani.
Di nuovo nessuna risposta.
Melanie stava cominciando ad infastidirsi. Quel ragazzo ostentava fin troppa disinvoltura, e si aggirava per la stanza come se non ci fosse niente di strano, in tutta quella situazione. La bionda ebbe il forte impulso di voltarsi e fulminarlo con lo sguardo, ma si concentrò per tenere gli occhi fissi sul muro.
John non parve turbato da quell’ostinato silenzio. E, dandole le spalle, prese da un comò lì vicino un po’ di nettare e ambrosia.
«Come ti senti?»
«Come chi ha appena perso un braccio.»
Non sapeva da dove fosse uscita quell’affermazione, né perché, dopo tutte quelle ore di silenzio, l’avesse sputata in faccia proprio a quel ragazzo. Ma, nel momento stesso in cui la diceva, capì che era la triste verità.
Forse però quelle parole avevano lasciato la sua bocca un po’ più acide e fredde del necessario, perché quando lui si avvicinò di nuovo al suo letto, aveva le sopracciglia leggermente corrucciate.
«Sai, non dovresti fare così» le disse, con una leggera punta di rimprovero. «Non fai altro che peggiorarti la situazione.»
Le avvicinò un pezzetto di ambrosia alle labbra, ma Melanie fece una smorfia e voltò ancora di più il capo, intenzionata a non mangiarla.
«È facile parlare, per te» mormorò, e dal suo tono quella sembrava più un’accusa.
A dispetto di quanto immaginasse, sul volto di John comparve un sorriso sghembo. «Sì» annuì, con un po’ d’amarezza. «Sì, lo è.» Dopo l’ennesimo tentativo di farle bere un po’ di nettare, si allontanò di nuovo da lei, tornando a metterli a posto. «Ho visto persone conciate molto peggio di te» disse dopo un po’, con tono neutro e moderato. «Per questo posso dirti con certezza che questo atteggiamento non serve a niente.»
Stavolta, Melanie si voltò a guardarlo, pronta a lanciargli un’occhiataccia; ma quando lo fece, si accorse che lui le dava ancora le spalle. Lo osservò attentamente per la prima volta. Aveva i capelli di un biondo ramato, e un fisico ben piantato, dovuto molto probabilmente ai tanti anni di allenamento al Campo.
A primo impatto, Melanie ebbe l’idea che si trattasse di uno di quei ragazzi che sono belli come il sole, e che sanno di esserlo. Uno di quelli che passa gran parte del giorno attorniato da ragazze. Uno di quelli che ha una fidanzata alla settimana, due se tutto va bene.
E lei avrebbe dovuto affidarsi ad un tipo così? Sarà anche stato un figlio di Apollo, ma se era come lei l’aveva immaginato, preferiva di gran lunga essere sbranata da un cane che averci a che fare.
Che cosa avevano al posto del cervello, lì? Bucce di patate?
Non fece in tempo a rispondersi, che John si voltò di nuovo verso di lei, guardandola con un sopracciglio inarcato.
Melanie arrossì violentemente, distogliendo velocemente lo sguardo. Era rimasta a fissarlo… per quanto? Dieci minuti? O si era trattato solo di pochi secondi? Si sentiva il volto in fiamme.
Che diamine le prendeva, adesso?
«Comodo dirlo, quando non sei tu a trovarti in certe situazioni» cercò di dire, ma la sua voce suonò meno ferma di quanto sperasse.
«Mmh» John storse la bocca, facendo finta di pensarci. «Io non credo.» Sospirò, inclinando leggermente il capo. «Vedi, quando sei tu, ad avere un problema» spiegò, trascinando le parole. «Dopo un po’ lo superi, o te ne fai una ragione. Ma quando invece sono gli altri ad averlo, tu… tu ti senti impotente, perché sai di non poterlo aiutare.»
Melanie sorrise amaramente, e dalle sue labbra sfuggì uno sbuffo ironico. «È un modo carino per dirmi che sono spacciata?»
«È un modo carino per dirti che devi mangiare» ribatté lui, serio. Si avvicinò di nuovo a lei, e fece scivolare il vassoio pieno di cibo sul comodino, di modo da avvicinarglielo un po’ di più.
Melanie fissò il vassoio con un’espressione indecifrabile. Poi alzò brevemente lo sguardo su di lui. «Non ho fame» affermò, con voce atona, per poi tornare a fissare il muro con scarso entusiasmo.
Il ragazzo sospirò, stringendo le labbra in una linea sottile. Poi sollevò le sopracciglia, scrollando leggermente il capo, quasi fosse dell’idea che quella fosse una battaglia persa.
«Sono John, comunque» si presentò, riordinando le cose sul vassoio e prendendolo in mano.
Lei si morse l’interno della guancia, indecisa. Sarebbe rimasta in silenzio, ma che differenza faceva? Se era lì, sicuramente sapeva già il suo nome. «Melanie» borbottò quindi, quasi riluttante.
«Bene, Melanie» disse allora lui, facendole il verso. Posò un unico piatto sul comodino, indicandoglielo con un cenno. «Ti lascio qui un po’ di pasta, nel caso cambi idea.»
Melanie non disse più una parola, e lui parve se lo fosse aspettato, perché sul suo volto c’era una calma rilassante, neanche l’ombra di delusione.
Portandosi dietro tutto l’altro cibo che le avevano proposto, John si avviò verso la porta, e a quel punto lei capì che sarebbe rimasta di nuovo sola.
Il cardine cigolò, ma poco prima che lui potesse varcare la soglia, si voltò a guardarla. «Sai, ti consiglio di guardarti allo specchio al più presto» proruppe, cogliendola un po’ di sorpresa. «Così da vincere lo shock iniziale. Una volta superato il primo ostacolo, la strada è tutta in discesa.»
Non aspettò risposta, né un cenno d’assenso. Uscì dalla stanza e si chiuse dietro la porta, lasciandola di nuovo sola in quel ora surreale silenzio.
 
Ω Ω Ω
 
Ti consiglio di guardarti allo specchio al più presto.
Queste parole non avevano fatto altro che vorticarle nella testa per tutto quel tempo.
Dopo quella visita, John non era più tornato.
Melanie era rimasta sola per altre due ore, prima che un’altra figlia di Apollo entrasse nella sua stanza per spalmarle dell’unguento sul braccio mancante.
Era strano, perché ogni volta che il cardine della porta di legno cigolava, la bionda tratteneva sempre il fiato, in attesa. E non riusciva mai a non soffocare una certa delusione, quando la persona che entrava non era il ragazzo dai capelli baciati dal sole.
John aveva avuto uno strano effetto su di lei. Non tanto per come si era comportato, quanto più per ciò che le aveva detto. Nella sua voce non c’era stata, neanche per un secondo, l’ombra della compassione, o della tristezza, o del dispiacere.
Al contrario, il suo tono era sempre stato fermo e deciso, come se tutta quella situazione non avesse bisogno della carità altrui. Come se lui volesse aiutarla non perché le faceva pena, ma perché voleva aiutarla davvero.
Guardati allo specchio al più presto.
Nonostante nel momento in cui aveva pronunciato quella frase Melanie l’avesse odiato, solo quando le mura della stanza erano di nuovo state impregnate dal silenzio si era resa conto di quanto in realtà quel consiglio fosse utile.
Guardare la sua immagine riflessa dopo alcuni giorni sarebbe stato molto più traumatizzante, o almeno questo era quello che John le aveva fatto capire.
Doveva imparare ad accettare la sua nuova forma al più presto, prima che diventasse impossibile.
Digrignando i denti per lo sforzo, si tirò su a sedere.
Ormai era da più di tre ore che dalla porta non entrava qualcuno, e a giudicare dalla luna alta nel cielo che riusciva a scorgere attraverso i vetri della piccola finestra, doveva essere notte fonda.
John non sarebbe più tornato.
Melanie se lo sentiva, anche se un angolo nascosto della sua mente sperava il contrario.
Per un attimo, lui l’aveva distolta da tutti i suoi problemi. Aveva smesso di pensare a come odiarsi e aveva cominciato a cercare un modo per odiare lui. Magari non era quello il vero motivo per cui sentiva quell’insolita mancanza nel petto, ma le piaceva credere che fosse così.
Guardati allo specchio.
Era davvero la cosa giusta da fare? La strada dopo sarebbe stata davvero tutta in discesa, o da quel momento in poi sarebbe cominciata una terribile salita?
Questo Melanie non poteva saperlo. E forse non lo sapeva con certezza nemmeno John.
Cacciò il medaglione fuori dal colletto della maglietta, e lo strinse con forza nel pugno. Anche se flebilmente, le dava coraggio. La convinceva che forse non era poi così sola.
Ma nel momento stesso in cui pensava a tutto quello che era successo prima che lei arrivasse lì, le sue certezze crollavano, e Melanie si ritrovava di nuovo a combattere contro quella bestia nel suo stomaco che era così difficile da controllare, e che continuava a ripeterle che il modo più rapido e indolore per scappare da tutta quella tristezza era farla finita.
La ragazza strinse ancora di più il medaglione nel pungo, fino a conficcarsi le unghie nei palmi.
Non poteva permettersi simili pensieri. Non era abbastanza forte per poterli combattere.
Non sarebbe mai stata più potente di loro.
Si guardò circospetta intorno, scrutando con sguardo attento la stanza.
Guardati allo specchio.
La voce di John era l’unica cosa che, in quel momento, avrebbe potuto farla pensare ad altro.
Guardati allo specchio.
Non capiva bene il perché, ma c’era qualcosa, in quel dolce suono che emettevano le sue corde vocali, che le infondeva un tenero calore nel petto.
Guardati allo specchio.
Ora sembrava più un ordine che una necessità.
Finalmente lo vide.
In realtà l’aveva già notato quando, nei suoi momenti di silenzio, si sforzava di concentrare l’attenzione su altro.
Ma mai come in quell’istante le era sembrato così minaccioso, eppure così invitante.
Lo specchio era a circa tre metri da lei, fisso e immobile contro il muro.
Come può una cosa essere allo stesso tempo tanto attraente quanto inquietante?
Come puoi pensare che quella sia la cosa giusta da fare e nel frattempo tremare al timore di farla?
Perché mentre si alzava dal letto il suo corpo si avvicinava allo specchio deciso, ma la sua anima paventava al pensiero di ciò che ci avrebbe trovato dentro?
Quando fu a circa un metro di distanza, si arrestò di colpo.
Un groppo grande quanto un pugno le serrò la gola, e Melanie avvertì le sue ossa tremare a tal punto da minacciare di non sorreggere più il suo peso.
Fissò il vetro immacolato con muto terrore, e proprio mentre stava per fare un passo indietro, questo sembrò parlare con la voce di John.
Guardati.
Doveva farlo, ma non voleva farlo.
Voleva farlo, ma non doveva farlo.
E poi, lo fece.
Si avvicinò abbastanza da entrare nei bordi dello specchio e vide la sua immagine riflessa nello specchio.
Nella sua mente sfrecciarono confuse diverse emozioni.
Incredulità, rabbia, dolore, tristezza, rassegnazione.
Non era per niente come se l’era immaginato. Era addirittura peggio.
Il moncone arrivava a malapena sotto l’ascella, e un’orrida cicatrice lo attraversava rosea e increspata.
Il suo braccio, come ormai già sapeva, non c’era più. Eppure non riusciva ancora a capacitarsene.
Sentì gli occhi bruciare, e così distolse lo sguardo.
Piangere non sarebbe servito a niente, di questo ne era consapevole. Non avrebbe riportato indietro il suo arto mancante, né tantomeno avrebbe annullato ciò che era successo.
Impara ad accettarti, si impose.
E con quel pensiero in testa posò di nuovo sul suo riflesso le sue iridi color nocciola.
Ora la sua immagine faceva un po’ meno paura.
Era sempre a metà, ovvio. Le mancava sempre qualcosa. Ma era già come vedersi per la seconda volta. Era già più facile guardarsi, perché sapeva già che cosa aspettarsi.
E fu allora che pianse.
Dapprima fu un pianto silenzioso, perché le lacrime rigarono le sue guance senza fare il minimo rumore. Ma poi fu scossa da dei violenti singhiozzi, e allora il suo divenne uno sfogo più disperato.
Piangere non sarebbe servito a niente, eppure lei lo fece.
Pianse per sé stessa, per ciò che aveva perso, per ciò che avrebbe perso.
Pianse per il suo moncone; per il suo braccio mancante, che non sarebbe più tornato.
Pianse per suo padre, che era ormai troppo lontano, irraggiungibile.
Pianse per ciò che non sarebbe più stata, e per ciò che non sarebbe potuta essere mai.
Ma, in tutto questo, riuscì anche a ringraziare John. A chiedergli scusa per i toni acidi con i quali lo aveva trattato, e a dirgli grazie per essere stato l’unico a non aver avuto pietà di lei.
Perché era stato lui a darle l’ottimo consiglio di guardarsi allo specchio.
E perché era solo merito suo se, piano piano, avrebbe cominciato ad accettarsi.


Angolo Scrittrice.
In diretta tra cinque... quattro... tre... due...
Bounjour a tout le monde!
O dovrei dire Hola? O Hallo?
Ah, facciamo in italiano, che è meglio. Salve a tutti, bella gente!
Oggi è martedì, ed io sono ancora qui, a scassarvi con uno dei miei capitoli.
Ma andiamo per gradi, vi va?
Duqnuo.
Per tutti quelli che mi avevano chiesto informazioni su quella ragazza dico:
Si salverà?
Beh, come vedete sì, si è salvata. Una parte di lei, almeno. Devo dire che la creazione di questo personaggio è stata difficile anche per me. Ma di questo ne parlo dopo.
Chi è?
Si chiama Melanie, e non voglio descrivervela prima del tempo, perchè mi piacerebbe che impariate ad apprezzarla anche senza il mio aiuto. Quello che posso dirvi però è che Melanie è sarcastica, fragile, persa, insicura, decisa, orgogliosa e bisognosa di affetto. Affetto che però non sa dove trovare. Mischiate insieme tutte queste cose, e troverete un mix perfetto per un personaggio che (lo ammetto!) si gestisce da solo. Io faccio solo da 'spalla'.
Non conosciamo ancora il suo genitore divino, ma qualcuno di voi ha qualche idea? Sparate, sono curiosa di sentirle **
Da dove viene?
Questa è una cosa che scoprirete col tempo. Un personaggio va apprezzato passo dopo passo, sono convinta che a svelarne tutto subito perda tutta la sua originalità, nonché il suo mistero.
Ma la domanda che sono sicura tutti vi stiate ponendo è: Perchè le hai fatto questo?
E
la risposta è: Non ne ho idea.
O meglio, non è stato per un impeto di cattiveria.
Ho voulto sfidarmi. Volevo che questa storia fosse speciale, diversa, e che voi non la seguiste solo perchè era "il continuo dell'altra", ma perchè vi piaceva davvero.
Non voglio che questa storia sia "Il seguito de Il Morbo di Atlantide". Voglio che questa storia sia "La Pietra dei Sogni". E' stato questo il mio obbiettivo, fin dall'inizio.
Per questo mi sono rimboccata le maniche e ho cercato di trovare una trama originale, che stupisca. Una trama dove ritrovate tutte le caratteristiche della storia precedente, ma che allo stesso tempo vi sorprenda, vi lasci senza porole.
Non volevo la banalità, ecco. Volevo essere in grado di
farvela ricordare.
E poi, volevo mettermi alla prova. Credo che Melanie sia solo uno dei tanti aspetti di questa storia che allo stesso tempo mi esalta e mi spaventa. Voglio vedere fin dove posso arrivare. Voglio fare questo mestiere, ma prima devo capire se ne sono in grado. Se riesco ad andare oltre ciò che si definisce un semplice autore. Io non voglio scriverle, le storie. Io voglio raccontarle.
Voglio far provare emozioni, voglio trasmettere empatia. Vorrei essere in grado di farvi amare un personaggio, nonostante i suoi difetti. Di farvi preoccupare per lui. Di farvi sperare per lui.
Non ho la presunzione di dire che ci sto riuscendo. Ma spero di essere sulla buona strada.
Quindi, Melanie è anche una sfida. Una sfida a me stessa e alle mie capacità.
Non ho mai scritto di un personaggio che ha vissuto una simile disgrazia, perdendo un braccio. Immedesimarsi in lei (come in tutti coloro che la circondano) non è facile, ma mi auguro di riuscirci al meglio.
Se ce la farò, comunque, dovrete dirmelo voi ;)
And so, dopo questo sproloquio di cui sono sicura non vi importa un fico secco, ditemi: Vi è piaciuto il capitolo? O l'avete trovato orrendo? Che ne pensate del nuovo personaggio? Vi piace, lo odiate o vi è indifferente?
Fatemi sapere tutto, sono super curiosa!
Purtroppo ora devo fiondarmi a studiare ._.
Ma prima, voglio ringraziare i miei bellissimi Valery's Angels, che nello scorso capitolo mi hanno regalato delle recensioni a dir poco stupende ** Grazie a:
Myrenel Bebbe ART5, _angiu_, Kamala_Jackson, carrots_98, martinajsd, Cristy98fantasy, Visyl, kiara00, FoxFace00 e _Krios Bane_
Grazie, siete la mia forza!
E grazie anche alle 23 persone che hanno inerito la storia tra le seguite, a colui/lei che l'ha messa tra le ricordate e alle 33 che l'hanno aggiunta tre le preferite! Un grazie caloroso, davvero.
Bien bien bien, oora... è proprio il momento di andare!
Grazie ancora, e spero proprio che il capitolo vi sia piacuto.
Un bacione enorme! Al prossimo martedì
Sempre vostra,

ValeryJackson










 
  
Leggi le 11 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: ValeryJackson