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Autore: Marguerite Tyreen    17/09/2014    1 recensioni
Salisbury è il luogo del leggendario scontro finale tra Re Artù e Mordred, ma è anche il titolo del disco preferito di Linda.
Linda, che ha conosciuto per caso Beatrice all'uscita di un teatro e se ne è innamorata da subito, senza volerlo, senza prevederlo. Linda, che però è sposata e si porta dentro un segreto che nemmeno suo marito conosce.
Così, in un'estate piovosa, una quieta provincia del nord-est farà da sfondo alla battaglia tra il dolore del passato e le paure del futuro. Come una moderna Salisbury.
***
"Ma credi che sia semplice? Io devo tornare alla mia vita normale, alle mie fotografie insignificanti, alla mia storia con Lorenzo, altrettanto insignificante. E come posso farlo, dopo aver capito che è ancora possibile tutto questo?"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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3.
West is Susie

 

 

As time passed and all too fast
I just knew we couldn't last
And I guessed that the end
Was near at hand

 

 

 

Bologna, giugno 2014

Non aveva fatto che piovere, in quei giorni e il maltempo aveva costretto entrambi a dedicarsi esclusivamente a scatti di interni, soffocanti quanto le pesanti tende amaranto che avvolgevano il salotto. Quello era stato il primo pomeriggio di sole dopo lungo tempo e Bologna l'aveva accolto con il suo solito abbraccio umido, asfissiante.
Al riparo dietro la spessa cortina di cotone che, come un sipario, escludeva la città dalla loro vita, Linda aveva preparato un tè freddo, i resti del quale, ora, lasciavano un'ombra d'acqua sul tavolino che separava la sua poltrona da quella di Lorenzo. Guardò l'impronta espandersi ancora per qualche secondo, prima di sistemarsi gli occhiali sul naso e tornare al suo Fromm.
Lorenzo, abbandonato su uno dei braccioli, era troppo assorto nella lettura di Bassani per accorgersi dell'insofferenza con cui sua moglie sfogliava le pagine del libro senza averle veramente lette e per riuscire a dare a quel comportamento una giustificazione diversa dal caldo o dalla noia.
Lei piegò l'angolo di uno dei fogli e posò il libro chiuso sulle ginocchia, sbirciando il marito da sopra la montatura degli occhiali: - Perché hai ripreso Il Giardino dei Finzi Contini? Non sei ancora stanco di quel romanzo?
- E' affascinante – rispose lui, distrattamente, senza nemmeno rivolgerle lo sguardo – Ogni volta ne noto un aspetto nuovo.
- E non potresti dedicarti direttamente a qualcosa di nuovo?
- La letteratura è morta. E forse anche la psicanalisi.
- Ammesso che sia mai stata viva. - sperò che la sua freddezza mettesse fine a quella che ormai le sembrava un'infinita sequela di luoghi comuni. E anche ammesso che, talvolta, dai loro pigri scambi di battute emergesse un'osservazione originale, quella conversazione ciondolante la interessava talmente poco che non la notava neppure più.
- Sei tu che continui a leggerne.
- Solo perché mi ricorda di quando ero giovane.
- Ah, Linda, Linda, i ricordi! Saranno per sempre la tua maledizione. E la mia, posto che non ne saprò mai il contenuto. Ma è giusto così. Almeno, però, ne traessi ispirazione per scrivere, come lui. - batté con l'indice sul frontespizio del volume, appena sotto il nome dell'autore.
- Già. Ma sei arrivato ad una conclusione? Micol rappresenta l'amore per il passato o il passato stesso che, intravisto il futuro, lo disprezza così tanto da negarlo?
- Che differenza farebbe, Linda? Si finisce comunque per amare qualcosa che è morto, che non torna.
- Alle volte qualche barlume di speranza lo si può trovare anche nel futuro. Certo, non al punto di amarlo o da auspicarne il suo arrivo, ma è meglio di niente.
- Lo è. Ma è strano sentirlo dire da te, che hai sempre affermato di poter amare solo ciò che si è concluso. Eppure ci rifletti, quindi deve essere successo qualcosa che non ti lascia indifferente. Sei strana, Linda, ultimamente, da quando sei tornata da quel viaggio.
- E' probabile.
- Perché fuggi, allora, davanti a quel barlume?
- Perché alcune cose vanno lasciate intatte, Lorenzo.
Le ombre stavano scendendo sulla stanza, impedendo a entrambi di proseguire nella lettura. Lei si alzò, posando una mano sulla spalla di Lorenzo, nel passargli accanto.
- Sei davvero strana, Lin: non vuoi dirmi cosa non va?
- Mi dispiace, non capiresti.
- Non mi hai mai permesso di capirti.
- Non mi hai mai permesso di scegliere di non essere salvata da te. Lascia che certe cose continuino ad appartenere a me sola. - rispose tristemente, evitando di notare come la mano di lui gli tremasse in grembo, nel dubbio se stringere o meno la sua – Se soltanto mi amassi di meno!
- Dimmi una cosa, Linda: sei più felice adesso di quando sei partita?
- No, tutt'altro. Mi sento infinitamente più isolata, credo, ogni giorno che passa. E mi sento un'egoista a venirlo a dire a te.
- Ormai mi sono rassegnato all'idea di non poterti raggiungere, ma mi dispiace per te. Vorrei poterti bastare.
- Non lo vedi? In un modo o nell'altro finisci sempre per bastarmi. Sono qui, sono tua, come hai sempre voluto. Dipendo da te, se non per la mia felicità, quanto meno per la mia sopravvivenza. E sono talmente in debito con te per questo da non rendermi nemmeno conto di quanto tu mi faccia più male che bene. E' quello che avevi pianificato. Non sperare, ora, che mi faccia anche aiutare a beneficio del tuo ego.
- Linda, per favore... - si voltò di scatto e, afferratele le mani, impresse la labbra con forza sull'interno di uno dei polsi, dove biancheggiava trasversalmente una vecchia cicatrice.
Linda si sottrasse al contatto e lo lasciò a riversare quelle carezze sulle tenebre che continuavano ad avanzare.

 

 


Bologna, aprile 1989.

- Mamma! Mamma, Linda è in bagno da ore. Io rischio di far tardi in parrocchia, così: poi chi la sente Teresa, che ci tiene tanto a questa storia degli incontri prematrimoniali? Linda, dai, sbrigati! Sei già bella così, senza che ti lisci i capelli per due secoli e mezzo! Mamma, glielo dici tu?
- Linda! Dai, che serve il bagno anche a Giorgio... Linda, almeno rispondi. Linda? Linda!
- Che si sia sentita male?
- Oh, Cielo! Cosa facciamo adesso? Si è anche chiusa dentro.
- Linda?
La voce di Giorgio le arrivava sempre più ovattata. Ancora qualche minuto e avrebbe smesso di sentirla del tutto. Avrebbe smesso di sentire ogni cosa. Già le forme e le luci avevano cominciato a svanire, trasportandola nel buio di una dimensione irreale, dove riusciva a galleggiare in un'infinita oscurità. Il dolore, anche quello fisico, andava affievolendosi. I colpi, soltanto quelli – una serie di colpi violenti e ripetuti alla porta – la trattenevano, come una zavorra, ancorata alla realtà.

Perché non cessano? Perché, Giorgio, se mi vuoi così bene non mi lasci andare?

- Ce l'ho quasi fatta: sta cedendo.
Un tonfo sordo si spanse attraverso il legno.
- Giorgio, è in un lago di sangue! La mia bambina, la mia bambina! Linda, cosa hai fatto, amore mio? Rispondimi, rispondi alla mamma.
- Un'ambulanza al 47 di via Byron, per favore. E' urgente: c'è una persona con una gravissima emorragia, c'è sangue dappertutto.
- Linda, amore, perché?
- Stanno arrivando, mamma. - erano le mani di suo fratello ad accarezzarle il viso, adesso, a scostarle le ciocche bagnate. Riusciva a percepirlo, anche se non aveva la forza di aprire gli occhi – Tieni duro, piccolina.

Non voglio, gli disse, ma tutto quello che ne risultò fu un movimento appena percettibile delle labbra.
- Io non mi sposo. Non se Linda sta così. - lo sentì dire, mentre i medici la caricavano sull'ambulanza. Non era del tutto cosciente, ma si accorse di quando Giorgio salì assieme a lei, senza mai smettere di sfiorarle i capelli: - Perché avevi un tormento così grande e non me lo hai detto? Perché non l'ho capito? Cos'è che ti fa tanto male, piccolina mia?


 

 

L'icona dei messaggi si era illuminata di rosso. Linda gettò il telefono sul letto, dopo un'occhiata veloce al testo. La cliente aveva spostato la data del matrimonio a settembre: avrebbe dovuto ricordarsi di avvisare Lorenzo.
E, del resto, cos'altro avrebbe potuto aspettarsi? Beatrice non l'avrebbe certo contattata in un modo tanto imprudente e altri di più discreti non erano in suo possesso; se n'era andata senza lasciarle il suo numero, a intendere di non voler essere cercata: non poteva pretendere – adesso – che Bea la inseguisse. Non poteva pretendere più nulla. Anzi, avrebbe fatto meglio a rassegnarsi all'idea di aver perso la sua occasione, di non avere più speranze per rivederla, se non per qualche assurdo giro della sorte. Eppure, di tanto in tanto, meccanicamente, guardava quell'icona come se avesse potuto cambiare di colore e non per i capricci di una futura sposa.
Era stata onesta nell'ammettere con Lorenzo di essersi di rado sentita tanto sola – per quanto la solitudine fosse una condizione perenne – e, ormai, di mal sopportare gli intellettualismi impersonali di quella sua unica compagnia. In realtà, anche un'altra volta lo era stata e, allora, aveva raccolto in una scatola di legno intagliato tutto ciò che le era rimasto, nel tentativo di sottrarlo al tempo e di renderlo una prova tangibile dell'esistenza di quegli anni. L'aveva sempre conservata in un armadio, sotto una pila di maglioni che adoperava di rado e estratta regolarmente, per scoprire i fogli sempre un po' più ingialliti e le fotografie un po' più sbiadite.
In una, lei sorrideva dietro la tastiera – gli stessi occhiali sul naso, ma i capelli più lunghi. Nell'altra, era sdraiata insieme a Susanna nel parco di Villa Molinari – la casa dei suoi – con l'erba e i fiori ad avvolgerle come una Ofelia moderna e sdoppiata, ma ancora felice. Forse era stato lo stesso avvocato Molinari a scattarla - se ben ricordava - prima che potesse sospettare qualcosa.
L'ultima era un ritratto di qualità professionale di Susanna, circondata dallo sfondo ovattato e artefatto dello studio del fotografo. Era bella, oggettivamente più bella di lei, con i lunghi boccoli color mogano che scendevano in onde morbide attorno a un viso bianchissimo e tondo: nella perfezione delle labbra a cuore e degli occhi verdi, chiari e limpidi, era più elfo che donna. Non guardava l'obiettivo, ma un punto visibile a lei sola; sulla mano, posata sopra al ginocchio, brillava un anellino con la pietra blu, l'unica cosa che le accomunava perché, per il resto, Linda si era sempre sentita fin troppo ordinaria al suo confronto. Sul retro della fotografia campeggiavano poche righe: “Sono sempre con te. Sono sempre tua: ti appartengo, nel corpo e nello spirito. S.”



Bologna, novembre 1987.

- Dai, Linda, dobbiamo lavorare!
- Un altro, l'ultimo! - la trattenne tra le sue braccia e le coprì la bocca di un'ulteriore serie di piccoli baci veloci – No, aspetta. L'ultimissimo!
- Me ne hai già dati tremila. - protestò Susanna, ma senza scostarsi da quella stretta tiepida. Teneva gli occhi chiusi e rispondeva porgendo appena le labbra, con la stessa naturalezza con cui prendeva fiato.

Respiriamo nello stesso respiro, diceva sempre Linda.
- Le canzoni mica si scrivono da sole!
- Sì, ma abbiamo un sacco di tempo, prima che io debba rientrare.
Susanna si rassegnò a quella dolcissima inoperosità, insinuatasi nella sua camera da letto assieme al ticchettio della pioggia e alla luce grigiastra del dopopranzo autunnale. Si raggomitolò più comodamente accanto all'altra, posando la gota sul suo seno e ascoltando il battito regolare del suo cuore, così simile a quello delle gocce d'acqua, mentre le disegnava pigri arabeschi sul maglione con la punta delle unghie.
Linda, di rimando, si inanellava attorno all'indice uno dei suoi lunghi boccoli.
- Lin, non trovi che sarebbe bello se riuscissimo ad esibirci al saggio di fine anno, a giugno?
- Dipende se avremo qualche pezzo pronto.
- Potremmo farne uno vecchio.
- No, è robaccia: serve qualcosa di più potente. Certo che se continuiamo così... - rise.
- Guarda che la colpa è tua: sei tu che sottrai tempo ed energia alla nostra corsa verso la gloria.
- Potremo fare una cover, se proprio, tanto per dimostrare che sappiamo suonare. Che ne dici di
Salisbury?

- Tu sei tutta matta! E' impossibile, Lin! Come facciamo? Serve un'orchestra.
- Gli Heep, in tour, la riarrangiavano per gli strumenti che avevano. Lo faremo anche noi. Dai, Susie! Dai, dai, dai! Ci terrei tanto!
- Vedremo, sei tu il genio, qui. Senti, seriamente, secondo te possiamo farcela? Voglio dire, abbiamo davvero talento anche noi, oltre a te?
- Certo che ne abbiamo, Susie. Siamo grandi, tutti e cinque. E tu ed io in particolare: diventeremo famose.
- E se non fosse così? - la guardò con aria insicura, il labbro inferiore che tremava – Se non fossimo così grandi come dici? Ti arrabbierai? E' così importante il successo, per te?
- No, è importante la musica. E sei importante tu. Ma vorrei avere anche successo per poterti portare via da questa gente che, se sapesse, ci guarderebbe troppo male; per portarti in qualche posto più libero in cui amarti non sia una colpa. E per tenerti con me per sempre.
- Per
sempre-sempre, Lin?

L'argento dei due anelli gemelli cozzò con un tintinnio lieve, quando Linda intrecciò le dita alle sue: - Per sempre, Susie. Non lo vedi? Siamo perfette, insieme. Sarò tua finché vivrò. Troveremo un modo, te lo prometto.
Con la mano salda in quella di Linda, Susanna si calmò, respirando il suo profumo: - Ti amo tanto, Linda. Sto tanto bene con te, sono felice.
- Lo sono anch'io, Susie. Sei il mio amore, sarai il mio unico amore.




La carta ruvida della pergamena, sfregando contro i polpastrelli, la riportò alla realtà. L'aveva conservata con più cura di quanto non meritasse il suo valore intrinseco: in fondo non era che un attestato alla buona, rilasciato dal suo liceo nel giugno di quel 1988 ormai lontano come un sogno. Ma quelle scritte fintamente pregiate ricordavano che, al saggio di fine anno, gli Ancient Rȇverie avevano partecipato con l'arrangiamento di Salisbury. Le ricordavano i pomeriggi spesi a dibattersi tra la musica, le prove e quel cinque in matematica che doveva assolutamente recuperare prima degli scrutini o le serate sommersa tra i radicali del professor Orsatti e i cambi di tempo di Ken Hensley. Le ricordavano Susanna e tanto bastava a rendere quel foglio prezioso e tagliente.
Annodò di nuovo il nastro bordeaux e posò la pergamena arrotolata sul letto, insieme agli altri oggetti già estratti.
Il resto della scatola era occupato da un plettro per chitarra color tartaruga, da un blocco per appunti riempito dei loro testi con due diverse grafie, da un ciondolo a forma di stella e dal singolo in vinile di Refugees. Quello dei Van der Graaf Generator era stato il primo concerto a cui avevano partecipato insieme e Susanna si era innamorata da subito di quella canzone, dove un personaggio portava il suo stesso nome.
E, nel fondo, più cara di tutto il resto, c'era una lettera vergata in una scrittura minuta. Il suo profumo era svanito così come il suono della sua voce con cui, i primi tempi, Linda era solita leggere quelle parole:

« Zurigo, 1989. Marzo.
Amore mio,
saranno mesi che starai aspettando inutilmente mie notizie. Non so se tu abbia smesso di cercarmi o se mi abbiano nascosto le tue lettere, evitando di recapitarmele qui. Ma ormai saprai della mia sorte che, in sé, non sarebbe nemmeno così male, ma che senza di te equivale a una condanna.
E' come se fossi morta, Linda e non so cosa mi abbia tenuta in vita fisicamente per tutto questo tempo, forse la disperazione con cui continuo a gettarmi nello studio. Però non faccio che pensare a te: ho sempre i tuoi occhi davanti, anche quando dovrei vedere soltanto i libri; suono qualche accordo e mi ritrovo a ricordare i nostri baci.
Io non ce la faccio, senza di te e l'idea di vivere i prossimi anni in un collegio che è quasi una prigione, senza vederti, senza accarezzarti, mi sta consumando, giorno dopo giorno. Mi toglie energia ed entusiasmo.
Eri la mia vita.
Sei la mia vita. So che mi aspetteresti, se te lo chiedessi, ma è il qui ed ora che importa. Importa che sono riusciti a dividerci, che ce l'hanno fatta, che hanno vinto. Importa che, quando tornerò, anche se tu mi avessi aspettata, anche se io ti avessi aspettata, tutto resterebbe uguale. I miei non riconosceranno mai che la mia strada possa essere diversa da quella che loro hanno pianificato per me. Frequenterò qui l'università, anche, sarò una brillante economista che non eserciterà mai. Diventerò la rispettabile moglie di Giancarlo Pistelli, quando farò ritorno. Lo ricordi, Giancarlo?
Non ho nemmeno più la forza di oppormi. Anche sperare mi sembra che prolunghi un'agonia.
Non è giusto dire addio ai sogni a nemmeno diciotto anni.
Non è giusto!
Non dimenticarmi. Amami sempre, Lin, mia principessa dei tasti bianchi e neri, come farò io.
Sii felice, te ne prego. Ti amo.
Ti amo! Tua per sempre,
S. »


 

Lorenzo, in salotto, non aveva proseguito nella lettura: il libro continuava a giacere aperto sulle sue ginocchia e lui continuava ad osservare, immobile, i contorni bui della stanza senza vederli, nemmeno quando Linda accese la luce.
Lei, inginocchiata sul tappeto, passò poi in rassegna i suoi vinili, carezzandoli uno ad uno, fino a trovare quello desiderato. La puntina scese con lentezza su un lato B dai solchi ormai consumati e l'aria vibrò nella magniloquenza di un'introduzione eseguita da un'orchestra al completo.
Il fotografo non aveva mai prestato troppa attenzione alla musica: anche se quei dischi lo accompagnavano involontariamente da vent'anni, non avrebbe saputo dire se avesse già sentito quello che, di volta in volta, ruotava sul grammofono.
- Cos'è? - le chiese distrattamente.
- Salisbury. - Linda si morse appena il labbro per fermare le mani che, quasi impercettibilmente, cercavano nell'aria i tasti invisibili di un organo immaginario.
- Puoi toglierlo, per favore? Mi deconcentra, vorrei tornare a leggere.
Lei scostò la puntina, ma lasciò il disco sul piatto: - Vado a preparare la cena.
- Perché non usciamo? Fa bel tempo, stasera.
- Se preferisci. Allora vado a fare una doccia.

 



Bologna, giugno 1989.

- Signorina! Signorina, la prego!
- Sì?
- Dovrebbe unirsi al gruppo per la foto.
- Come?
- La foto degli sposi con le damigelle. Non è una delle damigelle anche lei?
Linda si riscosse, quel tanto che bastava per incontrare gli occhi scurissimi del fotografo, un ragazzo ben vestito, con troppa brillantina a trattenergli all'indietro il ciuffo in una pettinatura fuori moda.
- Certo, certo. - si arrotolò attorno alle dita le maniche del golfino celeste, tenendole ben salde a coprire i polsi e buona parte delle mani, nonostante quella fosse una delle estati più calde che Bologna ricordasse.
Sorrise, soltanto per Giorgio. Non di sicuro per sua volontà né per compiacere il fotografo che, da dietro il cavalletto, mentre aggiustava il grandangolo per inquadrarli tutti, scherzosamente si segnava le guance con gli indici a invitarla a mostrarsi più gioiosa.
Dopo il secondo scatto, le ragazze si dispersero come passeri, in un caleidoscopio sbiadito di colori pastello e in un vociare di chiacchiere frivole. Anche Linda poté approfittarne, ma per allontanarsi in silenzio.
- Ehi, aspetti! - di nuovo quel ragazzo con troppa brillantina.
- Dice a me?
- Sì, mi posso presentare? Lorenzo Bianciardi.
- Linda Pesaro. - quando le strinse la mano, sopportò il dolore in una smorfia appena accennata che lui interpretò come diffidenza.
- Non pensi male... anzi, ci possiamo dare del
tu? Il lei fa così antico e noi siamo così giovani. Sì? Bene. Non pensare male, allora, se mi sono presentato. E' più che altro una faccenda professionale: posso fotografarti?
- E' quello che hai fatto per tutto il giorno.
Lorenzo rise: - Sì, lo so, ma intendevo: posso fotografarti da sola? Ci sono delle piante di glicine, lì; mi piacerebbe ritrarti in mezzo a tutto quel viola.
- Perché?
- Perché sei molto bella.
- Non è vero.
- E' vero. Ma anche perché c'è qualcosa che mi ispira nel tuo sguardo, nella tua espressione.
- Io non so posare. - si schermì, eppure si avvicinò al glicine.
- Non importa. Sii naturale e non badare a me.
Sembrarono passare ore, mentre lui studiava il modo in cui la luce la colpiva. Era strano: non che non si sentisse degna di venire fotografata, semplicemente non vi aveva mai pensato. E nessuno, a parte Susanna, aveva mai osservato la sua persona con tanta cura, seppure per motivi diversi.
- Puoi toglierti la giacca? Vorrei che il vento muovesse il vestito.
- No.
- Peccato, la foto sarebbe venuta meglio.
- Come credi. Ma allora non inquadrarmi le mani. Ho avuto... un incidente.
- Oh, mi spiace. - le disse lui attraverso la macchina. Poi, come se l'obiettivo gli avesse dato il potere di oltrepassare la barriera fisica della carne e quella, ancor più impenetrabile, del silenzio, le diede i brividi con un'altra frase: - Linda, qualsiasi cosa ti sia successa, avresti bisogno di qualcuno che si occupasse di te.
- Come?
- Scusa se mi permetto, - continuava ad armeggiare intanto con la sua attrezzatura, nel pretesto di non riuscire nella messa a fuoco – ma qui tutti si divertono e nemmeno si chiedono dove tu sia.
- E' normale: è il matrimonio di mio fratello, mica il mio.
- Normale, già. E' normale ignorare la sofferenza, fare finta che non esista per illuderci che sia davvero così.
Le lacrime le premevano agli angoli degli occhi: qualcosa nel tono delle sue parole – ancor più delle parole stesse – l'aveva colpita nel profondo, al punto da non riuscire neppure ad indignarsi per quella sua indiscreta sfrontatezza.
- Questa non è una faccenda professionale, però, Lorenzo.
- Forse fin da subito ci sono state altre ragioni se mi sono interessato al tuo sguardo, anche se non potevo saperlo. Chiamalo istinto, chiamalo inconscio. Linda?
- Sì?
- Magari un giorno potrei occuparmi io di te.

 

 

***

 

Credits:

Per la citazione – Uriah Heep, Salisbury

Per le ispirazioni musicali – Simon & Garfunkel, The dangling conversation
Simon & Garfunkel, April come she will

Van der Graaf Generator, Refugees
Peter Hammill, Time Heals
 

   
 
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