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Autore: HannibalLecter    18/09/2014    4 recensioni
A lei piace lui e lei piace a lui.
A lui piace lei e lui piace a lei.
Perfetto no?
Peccato che entrambi si ostinino ad ignorare questa faccenda continuando tranquillamente il loro percorso che si snoda lungo due rette parallele destinate a non allontanarsi mai ma neanche ad incrociarsi mai, o forse no?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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L'arrivo di un bambino può consolidare un rapporto oppure può spezzarlo definitivamente, soprattutto se si tratta di una relazione fragile.
Cecilia e Alberto erano senza dubbio legati profondamente e noi eravamo certe che presto ci sarebbe stata una nuova piccola famiglia felice a dispetto dei recenti screzi che li avevano allontanati.
A chi piace vincere facile? A tutti probabilmente, tranne che a Cecilia.
Dopo aver scoperto che nel suo pancino, presto destinato ad espandersi e a raggiungere le dimensioni di una mongolfiera, si stava sviluppando un nuovo esserino, era scomparsa per tre giorni salvo poi ricomparire improvvisamente.
«Sono andata dai miei per riflettere e ho deciso che non voglio rinunciare ad Alberto», ci spiegò accarezzandosi quasi inconsapevolmente la pancia, «Però se devo riconquistarlo voglio farlo correttamente, cioè senza parlargli della gravidanza. Vorrei che tornasse da me perché lo vuole veramente e non perché si sente in colpa».
Nessuna di noi osò contraddirla e così Cecilia, convinta che il nostro silenzio equivalesse ad un assenso, cambiò rapidamente discorso iniziando a raccontarci quanto fosse orribile la vita di una donna incinta.
«Oddio che cosa disgustosa!», esclamò schifata Veronica, «Non avrò mai un bambino. Mai e poi mai. Nausea, stazza da balena, gonfiori. E poi quando finalmente arriva il tanto atteso frugoletto, che ha reso un inferno i tuoi ultimi nove mesi di vita, questo inizia a piangere ininterrottamente, a vomitare e a riempire pannolini e pannolini di materiale radioattivo. Mai!».
Scoppiammo a ridere di fronte alla sua espressione corrucciata.
Veronica era sempre stata così: autosufficiente e gelosa della sua indipendenza. Aveva sempre odiato dipendere dagli altri così come non sopportava l'idea che qualcuno potesse dipendere da lei. Probabilmente la spaventava l'idea di poter deludere coloro che in qualche modo si affidavano a lei e così tendeva ad isolarsi e a non lasciar avvicinare troppo nessuno.
«Io invece ti invidio Ceci», disse sospirando Chiara, «Sono certa che con Alberto si sistemerà tutto e presto avrai un figlio. Io invece sono ancora sola e questa mia condizione di zitellaggio non sembra destinata a mutare a breve», terminò sconsolata.
Cecilia la abbracciò stretta e le sussurrò maliziosa: «Mmh secondo me qualcosa cambierà presto...sai com'è con tutta quell'atmosfera pre sesso che aleggia nello studio legale...».
Chiara scattò subito di fronte a quell'insinuazione: «Atmosfera pre sesso?? Al massimo atmosfera pre bellica!!».
Scambiai uno sguardo scettico con Veronica e reclinai il capo in modo da nascondere con i capelli il ghigno divertito che era spuntato sul mio volto.
«Se son rose fioriranno…», mormorai ridacchiando di fronte all’espressione furente della mia amica.
Veronica si alzò in piedi e si infilò il cappotto. «Venerdì sera grande serata al Milky Way! Ho già avvertito tutti perciò l’unica cosa che dovete fare è portare le vostre chiappette dal divano al divanetto del locale. Ce la potete fare?», domandò guardandoci.
Chiara era avvolta nella coperta a quadri fatta dalla nonna di Cecilia, la quale era imbacuccata in un pigiamone azzurro di pile mentre io indossavo la felpa gigante che sul davanti portava scritto a caratteri cubitali il nome del mio vecchio liceo.
Cinque minuti più tardi Veronica ci lasciò e noi tre, nel nostro comodo e confortevole abbigliamento da casalinghe pantofolaie, potemmo finalmente riprendere a parlare del regalo che avremmo dovuto farle e della festa che avremmo organizzato.
«Potremmo sfruttare l’occasione che lei stessa ha proposto: venerdì sera al Milky Way», propose Chiara allungandosi verso il tavolino di vetro posto davanti al divano per afferrare il telecomando.
«Già. In pratica si è inconsapevolmente organizzata la festa di compleanno da sola», constatai ridendo.
«I biglietti vado a prenderli io domani quando finisco a scuola», si offrì Cecilia che subito dopo strappò di mano a Chiara il telecomando dicendo che i programmi di cucina la facevano ingrassare anche solo guardandoli.
 
 
 
«Perché non è ancora arrivato nessuno?», domandò con tono scocciato Veronica. Era da un quarto d’ora che cercavo di trattenerla all’esterno del locale con scuse assurde, aspettando che Chiara mi inviasse l’ SMS che mi autorizzava a far entrare la festeggiata.
Quindici minuti passati a ciarlare di cose senza senso e senza spessore solo per tener a bada l’impazienza di Veronica, che si aggirava senza pace, avanti e indietro, avanti e indietro, senza sosta.
Lo schermo del mio cellulare si illuminò e rapidamente lessi:
Che lo spettacolo abbia inizio!
Presi a braccetto la mia amica e la trascinai verso l’entrata illuminata da tante piccole lucine bianche.
Una volta giunte al guardaroba lasciammo i nostri cappotti e ci dirigemmo verso la tenda di velluto blu notte che separava l’ingresso del locale dalla pista da ballo e dal bar.
«Pronta?», le chiesi sorridendo un secondo prima di scostare il pesante tendaggio.
Lei mi guardò confusa: «Pronta per co-». Non terminò la frase poiché rimase senza parole quando, non appena mise piede nella sala, all’urlo di Chiara “È lei!”, tutti i presenti si voltarono verso di noi e intonarono uno stonato Tanti Auguri.
Veronica lanciò un urletto e sorridendo felice iniziò a salutare tutti i nostri amici salvo saltare, come sempre, mio fratello. Tra Federico e Veronica era stato odio a prima vista. Mio fratello al liceo era stato il tipico belloccio fighetto che nei film americani impersona sempre il ruolo del capitano della squadra di football. Mio fratello non era a capo di nessuna squadra se non della sua cricca, cricca formata da ragazzi tamarri e ragazze tettone, entrambi i generi erano uniti dalla caratteristica di essere privi di cervello. Federico non era stupido, no, era semplicemente vanitoso ed arrogante, desideroso di farsi notare a tutti i costi. Se Veronica avesse a sua volta preso parte ad un film americano ambientato in una High School, lei sarebbe stata sicuramente una cheerleader. Con i suoi lunghi capelli biondi e le sue gambe senza fine aveva, ovviamente, catturato l’attenzione di Federico. Al tempo però Federico era ancora troppo scemo per apprezzare una ragazza provvista di intelligenza oltre che di un bel fondoschiena e Veronica era ancora troppo snob per prendere anche solo in considerazione l’idea di mettersi con un ragazzo che aveva soltanto un anno più di lei. Federico aveva così continuato a saltare di letto in letto, lasciandosi alle spalle una serie di cuori infranti, mentre Veronica usciva con strambi tipi alternativi che navigavano verso i trent’anni. A causa della mia parentela con uno e della mia amicizia con l’altra erano spesso costretti ad incontrarsi, per la gioia di tutti noi, che dovevamo passare la serata a mettere fine ai loro battibecchi infiniti. Nessuno sa se tra loro ci sia mai stato qualcosa, entrambi non ne hanno mai accennato ma quando sono nella medesima stanza aleggia sempre un nonsoché, che ci fa sospettare che tutta questa antipatia e scarsa sopportazione sia in verità solo un bel teatrino messo in scena dai due.
«Grazie! Io non me lo aspettavo proprio», esclamò felice abbracciando Alfredo.
«Ed ora…Champagne!», urlò Chiara facendo un segno al cameriere.
Un’ora e molti cocktails più tardi la situazione era degenerata.
Veronica si era tolta la camicetta di raso bianca, che indossata infilata nella gonna di pelle a vita alta, perché voleva a tutti i costi sfoggiare il reggiseno di pizzo rosso che le avevamo regalato io e le ragazze, ed ora, ballava sfrenata su un tavolino vicino, in compagnia di un ragazzo e di una bottiglia quasi vuota di vodka.
Cecilia era scomparsa quindici minuti prima, almeno credo, con Alberto, che aveva già la camicia slacciata. Facile immaginare in che attività fossero impegnati.
Chiara stava discutendo di debito pubblico e cervelli in fuga con Marco, entrambi però avevano esagerato con la tequila e così più che un dibattito tra di loro stava avendo luogo una conversazione fatta di risolini, parole senza senso sbiascicate e sussurri nelle orecchie.
E poi c’ero io, scalza, al centro della pista, con le mani di Francesco a cingermi i fianchi mentre ballavamo e saltavamo cercando di seguire il ritmo dell’ennesima canzone truzza scelta dal dj.
Abbandonai il capo all’indietro sulla spalla di Francesco e gli sorrisi, guardando il suo viso dal basso verso l’alto. La testa era leggera e l’euforia era aumentata dopo l’ultimo mojito bevuto.
Stretta tra le braccia del mio amico lasciavo che il mio corpo si muovesse libero mentre con lo sguardo percorrevo il perimetro della sala. Il mio sguardo si fermò su un uomo che, dalla penombra, mi fissava. Mi raddrizzai rapidamente e scossi la testa sentendomi sempre meno lucida e sempre più intorpidita.
«Tutto bene Gin?», strillò nel mio orecchio Francesco.
Annui distratto, gli occhi calamitati da quelli dello sconosciuto che non si distoglievano da me. Quasi senza accorgermene iniziai ad avanzare lentamente verso di lui e man mano diminuiva la distanza tra di noi, più aumentava la consapevolezza di conoscerlo. Mi fermai solo quando mi trovai a pochi centimetri dal suo petto.
«Cosa ci fai tu qui?», sibilai cattiva.
Chi lo aveva invitato? Chi gli aveva dato il permesso di fissarmi per tutto quel tempo? Avvertivo ancora la medesima sensazione di vertigine che mi aveva avvolto quella sera sul balcone. La ormai famosa sensazione senza nome che provavo in sua presenza tornò piano piano ad aleggiare attorno a noi, avvolgendoci in una bolla quasi soffocante.
Non me ne resi conto e non sarei del tutto sincera se per quel gesto avventato incolpassi solamente l’alcool. Le mi labbra cercarono le sue e si unirono, come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se lo avessimo già fatto altre mille volte. Infilai una mano tra i suoi capelli mentre le sue braccia mi avvolgevano strette e mi schiacciavano contro il suo petto, come per assicurarsi che non potessi sfuggirgli. Ma chi voleva fuggire da lì? Sicuramente non io. Fu lui il primo a staccarsi e con gli occhi che brillavano mi sorrise. Sorrise. A me. E il mio cuore per un secondo cessò di battere per poter ammirare anche lui quel sorriso luminoso. Fu un attimo poi sentii una mano afferrarmi a trascinarmi lontano, sempre più lontano da quel viso perfetto rischiarato da un sorriso altrettanto perfetto.
«Gin che cazzo stai facendo?», mi rimproverò Chiara, obbligandomi a sedere sul divanetto accanto a lei.
La guardai confusa per un attimo prima di distogliere lo sguardo, alla ricerca di quel sorriso, che però sembrava scomparso.
«Stavi pomiciando in allegria con uno sconosciuto!», mi ricordò severa.
Ma non era ubriaca? Perché l’alcool non aveva offuscato il suo lato da mamma chioccia?
«Alessandro», mormorai come in trance fissando l’angolo in penombra dove mi trovavo fino a pochi istanti prima.
«Quell’Alessandro?!», domandò preoccupata scuotendomi per un braccio.
Annui mentre sorseggiavo il cocktail abbandonato da qualcuno sul tavolino.
Chiara mi abbracciò e poi, a tradimento, mi sfilò la cannuccia dalle labbra: «Direi che per stasera abbiamo bevuto a sufficienza…».
Mugolai una debole protesta e la seguii in pista cercando di dimenticarmi di quel bacio e di focalizzare la mia attenzione sulle sue parole: Non posso farlo, non è giusto.
Perché non poteva? Perché non era giusto? Nei confronti di chi non era giusto?
Scacciai dalla mia mente confusa quelle domande insistenti e cercai di svuotare la mente abbandonandomi completamente alla musica martellante.
 
 
«Buongiorno piccola zombie!»
Aprii un occhio e subito lo richiusi a causa della luce accecante presente nella stanza. Mi stiracchiai e poi cautamente riprovai ad aprire gli occhi. Davanti a me si stagliava la figura indistinta di un uomo.
«Chi sei?», biascicai con la voce ancora impastata dal sonno.
Mi misi a sedere, tenendo gli occhi socchiusi, e mi passai le mani tra i capelli aggrovigliati.
Una risata cristallina attraversò i vari strati di ovatta che mi circondavano sempre dopo aver preso una bella sbronza.
«Fragolina sei davvero messa così male?»
Ecco. Era bastata la prima parola per fugare tutti i dubbi riguardanti l’identità del misterioso uomo proprietario del letto in cui avevo dormito.
«Grazie al cielo sei tu!», esclamai sospirando di sollievo e provando ad alzarmi da quel morbido giaciglio.
Avevo un terribile mal di testa, le tempie mi pulsavano e dovevo aver dormito con le lenti a contatto.
La mano gentile di Alfie afferrò la mia e mi condusse in cucina, dove mi fece sedere, come se fossi una bambina, al tavolo, davanti ad un vassoio contenente un’abbondante colazione.
Addentai controvoglia un biscotto integrale. Sapevo che il mio capo mi stava fissando, sentivo il suo sguardo preoccupato sulla pelle. «Come ti senti?»
Una fitta alla testa mi fece chiudere gli occhi dal dolore: «Mi sento come se avessi dentro la testa cento elefanti intenti a ballare il tiptap», rantolai mangiucchiando il bordo di una fetta biscottata.
Lui mi sorrise e mi accarezzò dolcemente i capelli: «La soluzione ideale per riprendersi da una sbornia è l’aria aperta! Ora chiamo Francesco e gli dico che passiamo a prenderlo. Anche lui non era messo molto meglio di te…», concluse allegro digitando sul suo IPhone.
 
 
«Mi sento un papà con due figli irresponsabili ed adolescenti», trillò contento Alfie fissandoci sorridente attraverso lo specchietto retrovisore.
Io e Francesco, entrambi protetti da occhiali da sole, necessari per mascherare le orribili occhiaie che contornavano i nostri occhi, eravamo stati caricati a forza da Alfredo sui sedili posteriori della sua Bmw.
Non sapevo che ore fossero, non ricordavo nulla del mio ritorno a casa la sera prima e ignoravo la destinazione di quel folle viaggio. Non riuscivo a pensare a nient’altro che non fosse un modo per far fuori quei maledetti elefanti saltellanti che albergavano nella mia povera e dolorante testa.
Francesco, anche lui in semi coma, era di poche parole e molto probabilmente, nascosto dalle lenti scure, stava sonnecchiando.
«Arrivati!», esclamò il nostro capo, con un tono di voce più alto del normale.
Accidenti a lui! Era da quando mi ero alzata che non faceva altro che urlare. Scese rapidamente dall’auto e si precipitò a spalancare la portiera contro cui stava facendo un pisolino Francesco. Quest’ultimo, trovandosi improvvisamente privato del suo appoggio, cadde letteralmente fuori dalla macchina e iniziò ad imprecare a gran voce contro un Alfie gongolante perché era riuscito finalmente a svegliarlo.
Abbandonai il tepore dell’abitacolo dell’auto e scesi nel freddo pungente di quel sabato mattina di metà marzo. Mi strinsi nel mio giubbino grigio e iniziai a camminare avanti e indietro, guardandomi intorno.
Eravamo vicini ad un boschetto da cui provenivano degli schiamazzi.
Alfie ci spinse deciso in direzione degli alberi supplicandoci di essere pazienti e di non deluderlo.
I sempreverdi celavano uno dei miei incubi maggiori: una pista di pattinaggio.
Dove aveva trovato una pista di pattinaggio a Milano ancora aperta a marzo? E soprattutto: come accidenti gli era venuto in mente di portarci a pattinare? Alfie sapeva benissimo quanto fossi maldestra e poco predisposta per qualsiasi attività che richiedesse più di venti passi e che non consistesse nel tragitto letto-divano o casa-auto.
«Tadaaaaan!»
Francesco aveva stampata in viso un’espressione perplessa e continuava a far correre lo sguardo dalla pista ad Alfredo e da Alfredo alla pista, come se stesse cercando il senso di tutta quella follia.
«Venite! Qui ci daranno i pattini…», ci fece segno di seguirlo mentre si dirigeva saltellando verso una casetta di legno posta sul lato sinistro della pista.
Francesco lo rincorse velocemente e lo bloccò, afferrandogli un braccio: «Secondo te il rendermi ridicolo danzando maldestramente sul ghiaccio dovrebbe farmi passare questo costante e martellante mal di testa?», domandò sarcastico, «Io vi guarderò da qui».
Alfie lo ignorò e si rivolse cordiale alla signora paffuta, addetta alla consegna dei pattini: «Un 44, un 43 e un 39. Grazie».
Io sbuffai rivolgendogli uno sguardo di disapprovazione.
«Paperina è inutile che mi guardi così; vedrai, adorerai questa esperienza!», mi rassicurò dandomi un buffetto su una guancia.
 
 
«Toglietemi questi arnesi infernali dai piedi!»
«Pisellina, sapevo che non eri una persona sportiva ma non pensavo fossi così…impedita!»
«Alfredo Arnaboldi me la pagherai, fosse l’ultima cosa che faccio prima di rompermi l’osso del collo a causa di uno scivolone sul ghiaccio!», esclamai rivolgendogli il mio miglior sguardo inceneritore.
Francesco, che si era rivelato un pattinatore ancora più scarso di me, mi porse una mano, tentando allo stesso tempo di restare in piedi e di restare attaccato alla balaustra, che segnava il perimetro della pista.
Afferrai la sua mano e tentai di rialzarmi. Ero seduta sul pavimento di ghiaccio da più di cinque minuti e ormai avevo perso la sensibilità del mio povero didietro. Riuscii a sollevarmi di poco ma proprio in quel momento il mio piede destro slittò sulla superficie ghiacciata e io caddi a peso morto. Cadendo, con la mano stretta in quella di Francesco, lo strattonai e lui perse l’equilibrio capottandosi in avanti, ovvero addosso a me.
Mi si mozzò il respiro, schiacciata com’ero dal peso non proprio piuma del mio amico, che si dibatteva peggio di un’anguilla per cercare, senza successo, di alzarsi.
Alfredo, ci raggiunse quasi immediatamente, pattinando leggiadro fino al nostro groviglio di braccia, gambe e pattini. Invece di aiutarci o almeno tentare di farlo, si mise a ridere a crepapelle e, pescato dalla tasca del cappotto il suo telefono, iniziò a fotografarci senza mai smettere di prenderci in giro.
Fu necessario l’intervento di altri due signori molto gentili, che con estrema attenzione ci fecero alzare uno alla volta e ci portarono nella casetta dei pattini, dove ci furono offerte due coperte e della cioccolata calda.
«Alfredo? Sai che ti avevo promesso di presentarti il mio insegnante di yoga? Quello metà orientale, moooolto gay e molto figo? Ecco, scordatelo!», esclamai puntandogli un dito accusatorio contro.
«Alfredo? Sai che ti avevo promesso di rivelarti dove ho comprato quella meravigliosa camicia color verde salvia? Quella per cui ti eri infiltrato in casa mia in piena notte fingendo di essere un ladro, che guarda caso, voleva rubare solo quella camicia? Ecco, scordatelo!», mi supportò subito Fra.
Lui assottigliò lo sguardo e sorridendo ci disse: «Ginevra e Francesco? Sapete che vi avevo promesso un aumento? Quel famoso aumento con cui tu volevi andare un weekend a Londra e tu pagare una rata della tua super meravigliosa e fighissima moto da machoman? Ecco, scordatevelo!».
«Alf! Non puoi giocare sempre la carta del superiore stronzo!», protestò Francesco.
«Infatti, non vale!», gli diedi man forte io.
Alfredo fece una piroetta e tutto contento esclamò: «Oh si che posso! Adoro farlo!».
Non riuscii a ribattere perché fui anticipata dallo squillo insistente del mio telefono.
Un urlo mi perforò un timpano ancora prima che avessi il tempo necessario per dire ‘pronto?’: «Giiiiiin! Alberto mi ha chiesto di sposarlo!».
 
 
 
 
 
 

Buonasera!
Sono tornata con questo capitolo che è uscito differente da come lo avevo preventivato ma pazienza. Allora allora: Cecilia e Alberto tornano a fare i piccioncini, Chiara e Marco, anche grazie ad un aiutino alcolico, sono riusciti a parlare senza che quest’ultima cercasse di far fuori il povero collega, Veronica e Federico, come si è appena scoperto, non si sopportano da…sempre e la nostra Ginevra ha un nuovo incontro con Alessandro. Aggiungiamoci Alfie e Fra, come sempre immancabili, e la notizia finale di questo futuro matrimonio! Risultato? Lascio a voi il compito di giudicare.
Grazie a tutti.
Baci,
S.
P.S. Perdonate gli eventuali errori: non ho avuto tempo di rileggere. 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
  
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