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Autore: Sheep01    19/09/2014    3 recensioni
“Ehi tu…” un’eco nel candido nulla in cui stava affogando. “Dico a te… ragazzina…”
Fu il rumore del proprio cuore pulsante a riportarla alla ragione. Alla pseudo lucidità.
La bocca ancora impastata, le membra gelide, tremanti. Quando sentì il lieve tocco dello sconosciuto su di sé, scattò in lei qualcosa di antico, furibondo, letale. [...]
La lama affondò in qualcosa di… rigido. I suoi occhi misero a fuoco un bauletto. Nero. E poi, rialzando il tiro, a scrutare un paio di occhi grigio azzurro.
“Woah, ma che razza di ringraziamento sarebbe, questo?”
[Clintasha pre-SHIELD, pre-Avengers]
Genere: Azione, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 17 

 

If you could see yourself now, baby,
It's not my fault, you used to be so in control.
You're going to roll right over this one.

(Bang and Blame – R.E.M) 

 

“Nat… sono Clint. Clint Barton.”

“Non conosco… Clint Barton. Non conosco… Nat.”

 

Ma lui conosceva lei. E la conosceva bene. Vedova Nera. Era così che l’avevano ribattezzata?

Era così che la usavano? Un nome in codice per una persona con delle abilità specifiche.

 

“Che ti hanno fatto?”

 

Era convinto di averla persa per sempre. Che si fosse sbagliato? Che non fosse lei? Ma quel viso e quello sguardo. Quegli occhi… che adesso vibravano di una furia che non riusciva a riconoscerle, ma rilucevano della stessa identica determinazione.

Occhi che non aveva scordato e che probabilmente non avrebbe scordato mai.

 

“Uccidimi. Rapido.”

“Non voglio… ucciderti, Nat.”

 

Il compito che era stato chiamato a svolgere ora entrava decisamente in contrasto con la sua mera volontà.

Uccidere. No, non lo avrebbe fatto. Nemmeno per lo SHIELD. Doveva capire. Doveva…

 

“Allora, cosa vuoi… ?”

“Sapere che ti è successo. Ti credevo… morta.”

“No, non sono… morta.”

 

E quello gli sembrava, ora, piuttosto evidente.

Dovevano aver usato tutti i loro mezzi. Dovevano averla rianimata di quella fama per cui lo SHIELD, l’FBI e la Polizia l’aveva cercata, anni prima. Per quegli atroci esperimenti che avevano popolato i suoi incubi, dal giorno in cui lo avevano messo al corrente del terribile segreto della ragazzina.

Dovevano averla riplasmata secondo le loro disumane, assurde necessità.

 

“Tu… tu sei morto.”

 

Tecnicamente… no. Ma Natalia era stata sicuramente programmata per fargli il culo. Questo lo aveva compreso da come gli si era scagliata contro, in modo del tutto meccanico.

La vide compiere un balzo straordinario per le condizioni penose in cui l’aveva trovata.

Si trovò le sue cosce attorno al collo senza nemmeno avere la forza di provare, quantomeno, a minacciarla con l’arco.

Cazzo.

“Ho un t-terribile deja-vu!” articolò del tutto in contrasto con la drammaticità della situazione.

La differenza stava nel fatto che, adesso, in quella particolarissima occasione, il sangue che scorreva dalla sua gamba martoriata, scivolava in rivoli scomposti anche sulla sua faccia e sul suo collo.

Cercò di liberarsi, trovandosi a divincolarsi dalla presa mostruosamente forte dei suoi muscoli.

Quadricipiti da sballo, quello glielo concedeva.

Cadde al suolo, mentre il colpo veniva attutito dalla neve ancora fresca. Se non altro sarebbe stata una morte piuttosto teatrale.

Alzò una mano, cercando di reagire, mentre il respiro veniva sempre meno. Andò a cercare la sua gamba, la sua ferita e, quando ebbe la mano sufficientemente imbrattata di sangue – nello squarcio dei pantaloni di lei – trovò il punto giusto su cui stringere la presa, per rigirare il coltello, per l’appunto, nella piaga.

Mai proverbio fu più concreto di così.

La sentì emettere un gemito strozzato, soffocato dal dolore, e quando la sentì allentare la morsa, si diede un esausto slancio, sufficiente a liberarsi.

Si ritrovò carponi, alla ricerca di aria, mentre si allontanava da lei almeno di qualche passo per impedirle di ritentare con l’impresa omicida.

Quella cosa delle cosce. Se mai avesse avuto un dubbio che fosse Natalia… proprio la sua Natalia, con quella mossa lo aveva sedato per sempre.

“N-non sei cambiata così tanto…” si trovò ad articolare, mentre si voltava per poter parare una qualsiasi controffensiva.

Si rimise in piedi, vagamente barcollante, quando non la sentì rispondere.

Che fosse un altro modo per trarlo in inganno?

La macchia di sangue sulla neve andava ingrossandosi in modo straordinariamente veloce.

I capelli di lei, sparsi tutt’attorno, a fare da contorno a quell’incarnato bianco, così pallido da confondersi con il manto candido dello scenario.

“Nat…” esalò mentre il respiro, ora reattivo, si addensava in una nuvola di fronte alle sue labbra.

Si rese conto troppo tardi che lei, invece, non ne aveva nessuno a condensarsi di fronte alle proprie.

E anche che... perderla, per due volte in una vita, sarebbe stato troppo anche per lui.

La raccolse da terra che sembrava una bambola senza vita.

Aveva poco tempo. Non esisteva piano d’estrazione per una missione simile… Fury era stato specifico a riguardo.

Perciò se la caricò saldamente fra le braccia e cominciò a correre.

Correre come fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto in vita.

 

*

 

Riaprì gli occhi che aveva il rumore dei macchinari nelle orecchie. Un suono costante, meccanico.

Elettrodi che le stavano monitorando il cuore. E tubi. Tubi che le uscivano dalla gola... e un po' da tutte le parti.

Il panico cominciò a serpeggiarle nello stomaco violento e nauseante.

Non ancora.

Non di nuovo.

Credeva di essere riuscita a scappare. Credeva di essere riuscita a far perdere le sue tracce.

Credeva di essersi liberata di Ivan, di tutte quelle persone che l’avevano ridotta ad una macchina da guerra. E invece era ancora lì, attaccata a dei cavi. Ad un macchinario, pronta ad essere di nuovo cancellata, riprogrammata.

Guardò a destra e poi a sinistra. Il locale era asettico e deserto.

I sensi intorpiditi, ma abbastanza reattivi da permetterle di muovere gli arti.

Si rimise a sedere, ignorando il capogiro.

Si liberò del respiratore. Prese a strapparsi flebo ed elettrodi con violenza, frenesia. Scalciò  il lenzuolo e cercò di mettere un piede a terra, prima che il dolore, sferzante e feroce non le strappasse un grido strozzato.

Rovinò a terra senza poter far niente per frenare la caduta. Un braccio, disperatamente artigliato al materasso, per cercare di limitare i danni.

Doveva scappare, doveva andarsene.

La macchina accanto a lei cominciò a produrre un suono sordo, febbrile, rivelatore.

“Taci…” sibilò cercando di rimettersi in piedi, con scarsi risultati. Le gambe non sembravano rispondere bene ai suoi comandi.

Perciò prese a strisciare sul pavimento, con i gomiti, afferrando con le mani tutto ciò che le permettesse di trascinarsi su quell’anonimo pavimento di linoleum chiaro.

La vestina che si arricciava sotto lei, e quel braccialetto identificativo…

Un momento… non le avevano mai messo un braccialetto identificativo. Non era nel loro stile. Non certo quello di lasciare tracce dei soggetti che erano soliti torturare. Psicologicamente, fisicamente.

Percepì dei passi in corsa, prima di avere il tempo di nascondersi. La porta della stanza si aprì di schianto.

Un uomo. Vestito da… infermiere.

Gli fece perdere l’equilibrio che ancora la stava cercando sul letto ormai vuoto. Lo vide boccheggiare al suolo, sorpreso da quel fagotto che gli era letteralmente rotolato addosso, mentre lei si affaticava a sovrastarlo sull’ampia schiena, con tutta la forza rimasta.

A serrargli un braccio alla gola, e stringere… stringere.

“Che cazzo sta succedendo qui?” si sentì trascinare via con una forza tale da non riuscire a contrastarla.

Scalciò per quanto le permettessero le gambe doloranti, per trovarsi fra le braccia di un omone scuro. L’occhio costretto dietro a una benda.

Un cazzo di… pirata?

Non si fece ripetere l’intimazione una seconda volta che riprese a scalciare a dimenarsi come una gatta in un sacco.

“Muovetevi!” le sue mani graffiavano, schiaffeggiavano; i piedi si agitavano, la schiena che scricchiolava sotto sforzo mentre il dolore alla gamba la faceva precipitare pericolosamente vicino all’incoscienza.

“Signore! Le serve aiuto?”

“Per niente! Mi sto divertendo come un matto qui! Muovete il culo, porca puttana!”

Si sentì afferrare da più mani e il bruciore alla base del collo suggerirle che l’avevano appena punta con un ago.

“No!” gridò prima di avvertire la frenesia delle sue braccia venir meno, il dolore alla gamba attutirsi, il capogiro farsi più intenso.

La conosceva fin troppo bene quella sensazione. La conosceva talmente bene che in pochi istanti si sentì trascinare di nuovo su quel letto, lottando disperatamente per non perdere conoscenza, per restare, se non altro, vigile.

“Vi avevo detto di tenerla sotto stretta sorveglianza!”

“E c-così abbiamo fatto, signore!”

“Ma sul serio? E quello che è appena successo come diavolo lo chiamate?”

“Una… svista?”

“Una svista!”
“E’ stata rapida, signore, troppo rapida.”

“Non mi pare che lo SHIELD arruoli persone lente.”

“Signore…”

“Fuori da qui.”

“Ma…”

“Adesso.”

 

Lo SHIELD. Una sigla. Servizi segreti. Sicurezza nazionale. Dunque non si trattava della Red Room. Non gli uomini da cui era scappata ad averla… intrappolata di nuovo.

Lo SHIELD era un’altra cosa. Avevo imparato a conoscerli dai file e dossier che le avevano fornito negli anni del suo addestramento. O almeno… l’addestramento che avevano riservato alla neo-nata Natuska.

Natuska… già. Ma non era quello il suo vero nome, giusto? Il suo vero nome era…

 

“Natalia Romanova, mh?”

Il pirata tutto nero aveva parlato di nuovo. La sua voce, una nebulosa di suoni ovattati. Non riusciva a metterlo a fuoco, non era che una macchia scura su uno sfondo opaco.

Natalia Romanova.

Forse.

Il nome stimolava alcuni ricettori.

“Lo so che sei in grado di capirmi, puoi anche non fingere di chiudere gli occhi, ragazzina.”

Vaglielo a spiegare che, gli occhi chiusi, li teneva perché le girava troppo la testa. Però forse giocava in suo favore il fatto di sembrare una… dura. Una che sapeva il fatto suo.

“Chi lo avrebbe mai detto che saresti sbucata fuori di nuovo, dopo tanti anni…”

L’uomo sembrava conoscerla, così come sembrava conoscerla l’arciere che…

L’arciere.

Aveva quasi dimenticato l’arciere.

Che l’aveva chiamata Nat. E che sembrava trattarla con una familiarità fuori dal comune. Che la credeva… morta.

Sì, morta come le era capitato di dover simulare almeno una decina di volte, dacché ricordasse.

Perché, per quanto si fossero permessi di giocare con il suo cervello, sapeva di aver vestito una quantità indefinita di identità. E di essere stata costretta a rimuoverle. In toto. O quasi.

Di ognuna di esse, Natuska ne era certa, aveva conservato qualcosa. Qualcosa di prezioso, qualcosa che, un giorno, sperava le avrebbe permesso di tornare o quantomeno cominciare ad essere ciò che era veramente.

Perciò… che cosa aveva conservato… di Natalia? Natalia Romanova?

Forse qualcosa di più prezioso di un nome.

“Immagino dovremo darti ancora un po’ di tempo per ambientarti.”

Cercò disperatamente di seguirlo con lo sguardo, prima che un gruppo di uomini vestiti di bianco la circondassero.
Si sentì legare i polsi. E le caviglie.

E poi precipitò in quella nebulosa che la stava aspettando da un pezzo.

 

*

 

“Gargantuesco. Ho vinto.”

Clint osservava la parola sullo Scarabeo senza credere ai propri occhi.

“Hai imbrogliato, cazzo se hai imbrogliato! Non esiste quella parola! Non si è mai sentita!”

“Solo perché tu non l’hai mai sentita, non significa che non esista.”

L’agente Coulson stava diligentemente sistemando i tasselli con le lettere in un sacchetto.

“Gargan… dai, che cazzo significa?”

“Appetito smisurato. Da Gargantua. Conosci il romanzo, Gargantua e Pantagruel, no?”

“Oh, certo, ho anche i dvd del film a casa.”

Non conosceva il termine gargangrottesco e doveva conoscere anche il romanzo?

L’uomo gli rivolse uno sguardo divertito.
“Bè, comunque la partita è finita. Dovremmo tornare a lavorare, sai…”

“Sarà anche finita ma io non mi fido. Non credere che non andrò a cercare sul vocabolario, stasera.”

“Spero proprio che tu lo faccia.”

“Certo che lo faccio. Sbugiardarti è la mia missione.”

Aveva scrutato Coulson come a smascherare, con uno sguardo, la sua menzogna, ma quello continuava a restituirgli il sorriso pacato, gentile e vagamente a presa di culo di sempre.

Praticamente lo stesso sguardo con cui simulava ogni stato d’animo.

Stronzo.

Si era rimesso in piedi, frustrato, pronto a un'interminabile sessione di archiviazione assieme a uno degli stagisti: il direttore Fury non aveva particolarmente apprezzato la sua iniziativa di riportare in vita il soggetto che era stato chiamato a eliminare. Aveva però dovuto convenire con lui che, data la straordinarietà della faccenda, nessun altro, al suo posto, avrebbe fatto il contrario.

Il soggetto era sia la Vedova Nera – assassina, spia di livello internazionale – che… Natalia Romanova.

Lo stesso soggetto di studio che, almeno cinque anni prima, aveva sottratto tutti i file ricchi di informazioni che SHIELD ed FBI stavano racimolando sulla Red Room… il progetto che vedeva coinvolte ragazzine minorenni, trasformate in macchine da guerra.

Natalia Romanova sembrava essere deceduta nel tentativo di recupero. Ma di fatto non era stato così.

Il progetto doveva aver cambiato forma.

E la ragazzina era finita di nuovo loro fra i piedi con nuove, inquietanti modalità.

 

Era cresciuta. Diavolo se era cresciuta. Della ragazzina con i tratti acerbi, adolescenziali non era rimasto un bel niente. O almeno, non qualcosa di visibile ad un primo impatto.

Non per quello che gli era stato dato di capire almeno, fra il panico pre-morte e tutto il sangue che si era trovato addosso.

L’avevano recuperata per il rotto della cuffia. Erano riusciti a non farla morire… di nuovo.

Dopo tutte le minacce che Clint aveva loro rivolto, con tanto di colorite e originali varietà.

Si era pentito di aver preso a male parole gli infermieri, ma ehi, non era da tutti i giorni ritrovare qualcuno che credevi morto… in procinto di morire, di nuovo.
Aveva atteso tutta la notte e metà della mattina successiva, fuori dalla sala operatoria e poi quella di rianimazione… prima di venir trovato, praticamente svenuto di fame e sonno, sulle scomodissime seggioline del reparto della clinica privata dello SHIELD.

Coulson lo aveva costretto a tornare alla base, con la scusa, più o meno plausibile, di una sfuriata del direttore (Fury, un nome che se si fosse fatto cambiare o meno per onorare il suo irascibile carattere, non era dato sapere). Direttore che sì, aveva espresso il suo più sincero, orbo disappunto ma che alla fine lo aveva liquidato con un richiamo e una punizione d’ufficio.

Nemmeno un ringraziamento per aver portato loro la risoluzione di un caso che durava da almeno cinque anni. Se non altro non era stato licenziato per negligenza. O spedito, chessò, al polo nord a controllare la tratta clandestina del salmone essiccato.

 

Era ancora intento a sbaraccare il tavolo su cui aveva intrapreso la sua gargantuesca sessione di scarabeo con Coulson che la giovane, rampante, severissima, agente Maria Hill si era affacciata alla porta della saletta ricreativa.

“Il direttore Fury vuole che lo raggiungi in ufficio”, gli si rivolse direttamente.

“Non ho fatto niente!” Si premurò di anticiparla. “Era la mia pausa pranzo.” E con gli occhi andò a indicare l’orologio che scandiva, impietoso, i secondi. Era in anticipo di quasi tre minuti sulla scadenza.

“Questo lo so, Barton.”

“Da quando mi tieni così sotto stretta sorveglianza, agente Hill?”

“Ufficio. Fury.”

La Hill non era sempre incline ai suoi sprazzi di gigioneria violenta.

Lanciò a Coulson il sacchetto dei tasselli e si strinse nelle spalle.

“Augurami buona fortuna.”

“Buona fortuna.”

Clint si finse scioccato.

“Non posso credere che tu lo abbia fatto veramente. Porta male! Sai cosa dicevano al circo dove lavoravo?”

“No, cosa dicevano?”

“In culo alla…”

“Barton. Il direttore ti sta aspettando.”

… balena.

“Ci sono, ci sono…” si preoccupò di seguire la donna lungo il corridoio, decidendo che forse sarebbe stato meglio tacere o quantomeno obbedire prontamente, affinché quell’ansiolitica tortura terminasse il più rapidamente possibile.

 

 

“Sono nei guai?” non poté però fare a meno di indagare, contravvenendo a tutti i suoi buoni propositi.

“Più del solito?” ribatté lei con una rapidissima occhiata, sopra la spalla. Era una punta di divertimento quella che aveva avvertito nel suo tono di voce? Allora la scintilla dell’ironia esisteva anche nell’agente Hill.

“In una scala da uno a… gargantuesco…” adesso la sua missione sarebbe stata infilare quella parola in ogni frase, per testarne la credibilità e l’efficacia, “… quanto sono nei guai?”

La Hill non sembrò cogliere la citazione. Forse Coulson l’aveva davvero preso per il culo.

“Non sei nei guai, Barton.” disse fermandosi alla fine del lungo, lunghissimo corridoio.

… e gli aveva appena aperto galantemente la porta dell’ufficio del direttore o si stava sbagliando?

“Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere per me…” si sentì in dovere di sottolineare con tanto di mano sul cuore.

“E’ per qualcosa che riguarda la Vedova Nera.”

Quella frase e il tono definitivo della donna gli fecero perdere completamente la voglia di scherzare. E saltare un battito cardiaco. Per gradire.

“E’ successo... qualcosa?” tentennò sulla frase e si maledì per questo.

“Niente che tu non possa aspettare di sentire dal direttore.”

Aspettare. Aveva già aspettato abbastanza. Anche dopo le più insistenti richieste di poterle fare visita.

Era arrivato il momento di chiudere con le attese.

Lanciò alla collega uno sguardo duro.

Inforcò la porta dell’ufficio di Fury più rapidamente di quanto avesse mai fatto.

 

*

 

Riaprì gli occhi che ancora aveva nelle orecchie il rumore di quel macchinario infernale.

Se non altro non aveva più tubi infilati in gola. O elettrodi ovunque.

Solo un’innocente flebo a sostare al suo fianco, a lasciar scivolare quella soluzione salina giù per le vene.

I polsi erano ancora legati. Le caviglie no. Dovevano aver convenuto sul fatto che, a seguito della ferita, non doveva essere ancora troppo facile per lei usare le gambe; forse non sapevano quanto fossero nel torto.

“Che errore fatale.”

Trasalì quando la voce la raggiunse. Voltò il capo così rapidamente che per poco non si slogò il collo o… qualcosa di simile.

Come era possibile non si fosse accorta che c’era qualcuno, seduto accanto a lei?

E che quel qualcuno fosse…
“Ciao.”

L’arciere. Il tizio di Budapest. Quello che…

“Dicevo che sono proprio degli imbecilli. I polsi sì, e le gambe no? Forse dovrei istruirli sul fatto che sono le tue armi migliori.”

Si stupì nell’ascoltarlo con un misto di curiosità e terrore.

“O sbaglio? Quella cosa delle cosce… pazzesca.” Le stava sorridendo. E non era un sorriso di quelli fasulli o di circostanza. Era un sorriso che gli arrivava agli occhi e… la sensazione che le diede fu del tutto inaspettata e, ancora, piuttosto intimorente.

“Non so se te l’avevo mai detto. Ma questa cosa… delle cosce, woah, l'ho sempre trovata pazzesca, sai?”

Sempre? Questo stava a significare che glielo aveva visto fare almeno un’altra volta, prima di… Budapest? Perché a livello temporale ancora non sapeva dire quanto tempo fosse trascorso dacchè era arrivata lì, in quella stanza… d’ospedale.

Rimase in silenzio cercando di comprendere se quello non fosse solo un modo piuttosto originale di guadagnarsi la sua fiducia, qualsiasi cosa significasse, qualsiasi cosa volesse estorcerle, qualsiasi cosa volesse guadagnare da quello strampalato colloquio.

Se la conosceva davvero, doveva anche sapere quanto sarebbe stato arduo farla parlare.

Probabilmente non aveva davvero idea di con chi aveva a che fare.

Lo vide smorzare il sorriso, come se mantenerlo fosse ora un peso insopportabile. E ancora una volta non riuscì a dire se si trattasse o meno di un atteggiamento fasullo.

“Nat…”

Il nome le procurò una scossa brutale allo stomaco. Il modo in cui… si permetteva di pronunciarlo.

“Non ti ricordi proprio un bel niente, non è così?”

Che cosa avrebbe dovuto ricordare? I suoi occhi da cane bastonato?

“Sono… Clint. Barton. Ma questo te lo avevo già detto a Budapest, mi pare.”

Certo. Lo ricordava. Lo ricordava e la insospettiva.

Continuò a propendere per il silenzio, sebbene mille domande avessero già preso ad affastellarsi nel suo cervello in moto.

Doveva capire dove volesse andare a parare. Doveva comprendere quale fosse il suo obiettivo.

Ma quello che ottenne fu solo uno sguardo che sembrava... triste. A meno che non fosse solo marcia compassione.

Non sapeva che farsene della compassione.

“E' stato cinque anni fa. A New York. Ci siamo conosciuti... cinque anni fa.” aveva parlato e risposto a una delle domande che lei non aveva posto, senza dover essere imboccato.

“E avevi perso la memoria. Proprio come ora.”

Proprio come ora. No, lei non aveva perso la memoria. Lei era semplicemente stata riprogrammata.

Riprogrammata: avrebbe voluto dirglielo per metterlo a tacere una volta per tutte.

Lo sentì sospirare e allungare le gambe, sotto al suo letto.

“Lo SHIELD mi ha chiesto di venire qui a parlare con te. Il Direttore Fury... sì, insomma, il pirata... mi ha chiesto di venire qui a parlare con te, nello specifico, ma lo sanno tutti quanti che io faccio schifo... con gli interrogatori. Per questo di solito ci mandano Coulson, capito?”

Di tutto quello che stava dicendo, aveva solo capito che il Direttore Fury era il tizio con la benda nera sull'occhio.

“Ho accettato solo perché... mi avrebbero finalmente permesso di vederti.”

E nel dirlo, ancora sembrava più sincero di quanto non fossero mai state tante persone, prima di lui.

“Bè, adesso ti ho vista e se non altro... so che stai bene”, aveva preso a scrutarla, incerto, “... credo.”

Lo guardò passarsi una mano fra i capelli. Capelli biondi, tagliati corti, un po' spettinati.

Ritirare le gambe, rimettersi in piedi. Con quella postura da cane abbattuto, quella ruga sulla fronte a invecchiargli i tratti, probabilmente prima del tempo, così come lo sguardo, di un vissuto insolito, o il colore turbolento di quegli occhi grigi.

Non sembrava davvero intenzionato a domandarle niente. A non chiederle... niente.

Una tattica talmente singolare che non le suggerì proprio nessuna soluzione a riguardo.

E allora cos'era quel dolore costante alla base dello sterno? Quel piccolo dolore, inquantificabile in termini pratici, che aveva preso a tormentarla da quando se lo era ritrovato di fronte?

Cinque anni prima. Che cosa era successo cinque anni prima?

Lo aveva truffato? Derubato? Ferito? Sedotto?

O la somma di tutto insieme?

Non erano affari suoi. Non era il tempo di scontare piccole, assurde vendette personali.

Ma quel dolore assurdo. Assurdo e minuscolo, alla base dello sterno.

“Bè... immagino che ci rivedremo, Nat.”

Lo sentì esplodere violento, fino a procurargli uno scatto d'ira non richiesto.

“Non mi chiamo Nat.” le sue parole vibrarono instabili, incoerenti con il silenzio protratto fino a quel momento.

Lo vide sgranare gli occhi e puntarglieli di nuovo contro. Quegli occhi grigi, che immaginò improvvisamente azzurri, nelle giornate serene, verdi in quelle di sole...

“Io sono la Vedova Nera.” la voce di nuovo roca, raschiata. Una sfida, una dichiarazione di guerra.

Non sapeva un bel niente di lei. Perché doveva agire come se invece le fosse amico?

“Me l'hanno detto”, sembrò tentennare, prima di rivolgerle di nuovo quel sorriso un po' strano, ma sincero. “Un nome ad effetto. Anche se continuo a preferire Nat, se non ti dispiace.”

“Ho detto che non mi chiamo...”

“Lo so quello che hai detto. Non sono mica sordo. Non più... almeno.”

Si accigliò a quella confidenza.

“Non ricordi nemmeno questo?” le suggerì speranzoso.

“Rimuovo tutto ciò che non è necessario.” adesso sì che aveva parlato per affondare. Perché non la sopportava più quell'aria di supponenza. Perché lei, la Vedova Nera, era quella che di solito conosceva tutto del suo avversario... e non il contrario.

Il contrario la faceva sentire esposta. Vulnerabile. E nessuno mai avrebbe dovuto permettersi di farla sentire a quel modo. A maggior ragione non un uomo dall'aria stralunata e quel sorriso... triste.

“Lo so che sei spaventata...” lo sentì dire e quella fetta di orgoglio ancora attiva le fece ribollire il sangue nelle vene.

“Tu non sai niente...” sibilò innervosita, agitando le mani strette nelle cinghie.

“Non hai bisogno di comportarti così con me. Non hai bisogno di fare la dura...”

“Smettila.”

“Io ti conosco, Nat.”

Il modo in cui pronunciava quel nome. Quel suo nome...

“Smettila!” aveva gridato stavolta. Aveva strattonato le cinghie con una tale violenza, da strappare l'ago della flebo.

“Non sai niente! Non sei... niente per me! Niente!”

Niente.

Niente come si sentiva lei in quel momento. Niente. Come tutto quello a cui l'avevano sempre abituata.

“Niente! Niente! Niente!”

Nemmeno si rese conto della porta della stanza che si apriva di nuovo. E di nuovo quei camici bianchi che la assalivano.

“Ehi! Ma che modi sono! Non fatele... non, ehi! Brutti stronzi, che-”

gli insulti che l'arciere riservò agli infermieri si persero di nuovo in quella nebulosa di...

Niente... era ancora il nome che più si addiceva al contesto.

___

 

Note:

Et voilà, la nostra Nat non ricorda un bel niente. Bene? Male? Sicuramente frustrante. E tremendamente deprimente per Clint. Se non altro ora la fanciulla è al sicuro. Più o meno. E lo SHIELD non sembra intenzionato a lasciarsela sfuggire.
Almeno…
Al solito ringraziamenti a tutti: alla mia beta sclerosocia (che ti frego, perché è un termine bellissimo) ai lettori, ai commentatori e tutti gli altri e scappo in ritiro per uno dei miei distensivi week-end nella bella Firenze. Per cui vi saluto, valige alla mano, e abbandono il piovoso (emmobbastaveramente però!) nord Italia, alla prossima!

  
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