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Autore: Eugenia_Rosini    20/09/2014    1 recensioni
Ogni persona in situazioni diverse reagisce in modi diversi. Johanna, con ogni probabilità, ha reagito in modo sbagliato e adesso deve fare i conti con le conseguenze delle sue azioni. Per farlo però ha bisogno di un piccolo aiuto nella direzione giusta, e a farlo sarà proprio l'incontro inaspettato, in un luogo che lo è ancora di più, con Douglas e la sua allegria contagiosa.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono cinque ore che sono in viaggio. Il sedile è scomodo e questo pullman è talmente vecchio che ci sta quasi piovendo dentro. E come se non bastasse l’età media dei passeggeri è di 87anni, così come quella dell’autista che sembra avere anche uno strano dovere morale che lo spinge a fermarsi in ogni più piccolo e sperduto paese che incontriamo.
Semplicemente. Fantastico.
Sono quasi 10 minuti che non fermiamo e dentro di me sto quasi sperando che si arrivi a una mezz’ora senza interruzioni, quando in mezzo alla strada troviamo un ragazzo che fa l’autostop.
L’autista si ferma. Non avevo dubbi.
Il ragazzo sale e, dopo essersi guardato un po’intorno, si dirige verso di me e si siede nel sedile accanto al mio. Evidentemente non ha notato gli altri venti posti liberi.
Proprio mentre pensavo che la mia giornata non potesse andare peggio.
Guardo fuori dal finestrino perché, insomma, oggi non mi sembra proprio la giornata giusta per fare amicizia.
“Mi chiamo Douglas”. Beh, a quanto pare per lui sì. “Ma per gli amici è Doug”.
Considerando che non siamo amici la cosa non mi riguarda.
“Io mi chiamo Johanna”, dico ancora rivolta verso il finestrino.
Mi giro verso di lui. “Piacere di conoscerti. Douglas”.
Sorride. Ok, lo devo ammettere, Douggie non è per niente brutto. Soprattutto ora che è bagnato. Non che mi interessi, è solo una costatazione.
Rimaniamo in silenzio. Magari anche lui ha perso la vena amichevole.
“Quindi…Cosa ti porta su questo modernissimo automezzo?”
Automezzo? Seriamente? Continuo a non considerarlo e già che ci sono mi lascio scappare anche uno sbuffo nel caso non abbia colto l’indizi sulla mia voglia di socializzare.
“Vieni da molto lontano?” La mia tendenza ad essere asociale deve passare inosservata a Douglas.
“Io sì. Stavo andando a trovare mia nonna con la macchina, quando mi è andata in panne. Stavo facendo l’autostop da più di un’ora quando siete passati. Te stai andando in qualche posto in particolare?”
Non si arrende facilmente, vero?
“Sto solo viaggiando”. Ho deciso che risponderò con il minimo indispensabile per fermare la raffica di domande. Speriamo che gli basti. Non ho intenzione di raccontargli gli affari miei.
“Sai, i miei genitori e la mia sorellina sono già lì, ma io sono dovuto restare perché avevo un esame”. Interessante. “I tuoi genitori cosa ne pensano di questo viaggio da sola? Non avevano nessuna incertezza?” Se li avessi informati forse avrebbero anche potuto esprimere la loro opinione.
“Diciamo di no”.
Non sembra soddisfatto della mia risposta, ma non aggiunge niente.
“Non hai molti bagagli”. O. Mio. Dio. Alla prossima fermata gli compro un pacchettino di affari suoi.
“Potrei farti la stessa domanda. Almeno io ho uno zaino”. Sorride.
“Touchè”. Già. Forse ora ne avrà abbastanza. La speranza è l’ultima a morire, dopotutto.
“In realtà io sto andando da mia nonna. Ho già dei vestiti là”.
“Douglas, ti dispiacerebbe stare zitto?” Dio, non si può avere un attimo di pace su questo pullman. Certo, va detto che la pace non è proprio lo spirito guida della mia vita. Dopotutto è per questo che sono in viaggio, no? Per trovare un po’ di pace, serenità. Non chiedo altro. Ho passato gli ultimi cinque anni della mia vita a giocarci a nascondino e devo ammettere che hanno trovato proprio un bel nascondiglio.
“Ok, allora facciamo un gioco”. Non posso crederci. Sta continuando a parlare. Semplicemente incredibile.
“Ma sei sordo o cosa? Ti riesce così difficile lasciarmi dormire?” Sono seriamente sul punto di scoppiare, e se tra due minuti non mi sono ancora addormentata probabilmente succederà.
“In effetti se ti addormentassi il mio viaggio diventerebbe estremamente noioso, e noi non vogliamo che succeda, vero?”
Noi non vogliamo che succeda? Ma chi si crede di essere? Un animatore dei campi estivi?
“Forse non hai capito che neanche alla più minuscola particella del mio corpo interessa se ti annoi o no”.
Sembra dispiaciuto di questo imperdonabile fatto, ma si riprende subito.
“Ecco, questa sarebbe una cosa che saprei se facessimo un gioco per conoscerci meglio”.
“Douglas, non ho dodici anni, non siamo intorno a un falò pronti a rivelare le parti più inedite della nostra psiche, ma soprattutto, te lo ripeto, voglio. Dormire”.
Evidentemente il mio sarcasmo gli piace perché inizia a ridere con una di quelle risate che vengono proprio dal cuore, che solo un certo tipo di persona riesce a tirare fuori.
“Quindi hai anche un senso dell’umorismo”, sorride, “visto? Abbiamo già cominciato a giocare”.
Sorride di nuovo e questa volta non ce la faccio a resistergli.
“Ok, va bene, giocherò, ma sappi che non ti terrò la mano mentre mi racconti di come è morto il tuo pesce rosso”.
“Affare fatto”.
Cambia la sua posizione sul sedile, in modo da guardarmi bene in faccia.
“Allora, il gioco è semplice. Ci facciamo delle domande e poi diamo delle risposte”.
“Ah, quindi è un interrogatorio”.
“Puoi scegliere di non rispondere a tre domande”, dice come se non mi avesse sentito.
“Non ha senso! Come faccio ad usare i miei jolly se non so che domande mi farai dopo?”
“Beh, è il bello del gioco!”, esclama con passione. “Ok, sei pronta? Hai capito tutto?”
“Non è che sia particolarmente complicato”, borbotto.
“Ah ah, non si insulta il gioco del grande maestro!”
Dio, non sta fermo un secondo. Sto iniziando a chiedermi se la sua allegria sia un tratto caratteriale o se si fa di extasy.
“Inizio io perché ho inventato il gioco”, e sembra così felice di questo fatto che quasi mi dispiace rompere la sua bolla di auto-ammirazione.
“Non dovresti vantartene sai?”, dico acida ma comunque con il sorriso sulle labbra. Sembra strano, ma l’allegria di Douglas è contagiosa, dopotutto.
“Allora, qual è il tuo gusto preferito di gelato?”
“Yogurt”.
Passa qualche secondo prima che mi renda conto che è il mio turno.
“Ehm…film preferito?”
“Harry Potter”. Tipico. Però non gli dico che è anche il mio.
“Dormi vestita o no?” Ok, questo è decisamente imbarazzante.
“Vestita, anche se non vedo come la cosa ti interessi”.
“Peccato”. Se nel destino di questo modernissimo automezzo, per citare Douglas, fosse predetta un’improvvisa caduta in una voragine enorme, questo sarebbe il momento perfetto.
“Ehm…” A quanto pare il mio antenato scimmia si è impossessato del mio cervello.
“È il tuo turno”. Si, grazie, lo so.
“Già…Si…ehm…il tuo…progetto? Quello per cui non potevi andare da tua nonna?”
“Allora mi stavi ascoltando prima!” Purtroppo, aggiungerei. “Comunque, dovevo finire di verificare un algoritmo che avevo creato per un’università del Michigan”.
Mi guarda un po’e deve capire dal mio sguardo confuso che c’è bisogno di ulteriori spiegazioni. “Si, sono un piccolo genio”. Intelligente, bello, decentemente simpatico. Il ragazzo dei sogni di qualsiasi ragazza. È un peccato che sia capitato su un pullman con l’unica non interessata.
Distolgo un secondo lo sguardo, quasi come se mi vergognassi di questo pensiero.
“Cosa c’è?” Chiede subito, preoccupato.
“Niente”, rispondo in fretta, forse troppo.
Mi fissa. Non mi crede.
A questo punto non so cosa mi spaventi di più, se il fatto che mi conosce già abbastanza bene da capire quando c’è qualcosa che non va, o il fatto che si sia accorto che stavo mentendo.
Non ha ancora smesso di fissarmi, sembra quasi che mi voglia leggere nella mente. Ovviamente cerco di distrarlo perché nessuno vorrebbe leggere nella mia mente.
“Douglas? Ehi? Lo sai che è il tuo turno, vero?”
“Cosa? Si, si, scusa, mi ero distratto”. Finalmente è uscito dalla trance. “Allora, vuoi dirmi dove stai andando?”
“Te l’ho detto, non ho una meta”, cerco di sorridere, “vado dove mi porta il cuore”.
“E perché sei sola?” Il suo sguardo è così intenso, che ho quasi voglia di dirgli la verità. Quasi.
“Sono piuttosto sicura che tu abbia perso”. Cara buon vecchia tattica del cambiare discorso.
“Cosa?” Sembra confuso.
“Beh, le regole erano chiare: una domanda a testa. Te me ne hai fatte due.”
“Non stavo giocando”, dice seriamente. Purtroppo ho deciso che ignorerò qualunque tentativo da parte sua di scendere in argomenti delicati.
“Io si”, taglio corto, “ma visto che oggi ho deciso di essere una persona migliore, ci passerò sopra quindi, invece di squalificarti, ti toglierò un jolly”.
“Wow, l’allieva che supera il maestro”. Sorride, ma non è il suo solito sorriso. È amaro, riluttante, come se farlo gli causasse un dolore fisico.
“È il mio turno ora, giusto?” Annuisce. “Bene, quindi…dove abiti?”
“Indianapolis. Tu?”
Ok, a questa posso rispondere. “Anch’io”.
“Dove sono i tuoi genitori?”
“A casa, perché? No, aspetta, hai fatto di nuovo due doma…”
“Perché sei in viaggio? Mi interrompe. Ma cosa sta succedendo?
“Stai ignorando le regole del gioco, per caso?” Ed è anche molto più bravo di quanto non lo sia io ad ignorare le sue stupide domande.
“Johanna. Io. Non. Sto. Giocando.”
“Non vedo perché avresti dovuto smettere”.
“Perché i tuoi genitori ti fanno viaggiare da sola senza meta?
“Perché non ti fai gli affari tuoi?”
“Perché non sanno che sei partita, vero? Sei scappata!”
“Jolly!” Urlo. “Gioco il jolly!”
Anche lui ora ha alzato la voce.
“Dimmi perché!”
“Dio, Douglas!”, dico mentre molte teste si girano verso di me, “tu non sai niente, va bene? Non mi importa di quello che credi di sapere, tu non mi conosci e non riuscirai mai a farlo! Perché tra tre ore scenderemo da questo cavolo di pullman, tu te ne andrai a finire il mio argoritmo, o come si chiama, e io me ne andrò per la mia strada e ci saremo dimenticati che niente di tutto questo sia successo! Quindi, gioco lo stupido jolly!”
Sento qualcosa di bagnato sulla mia guancia e mi accorgo solo ora che sto piangendo. Cerco di asciugarmi le lacrime senza che Douglas se ne accorga, ma è troppo tardi perché lui si avvicina e lo fa per me.
Provo guardarlo negli occhi, ma non ci riesco, così mi giro dall’altra parte, verso il finestrino.
Passa un’ora prima che uno di noi due rompa il silenzio. Ovviamente è Douglas che lo fa.
“Non mi scorderò di tutto questo”, sussurra, “e si dice algoritmo”, aggiunge con un sorriso.
Mi prende il viso e lo gira verso di lui, costringendomi a guardarlo negli occhi. “Perché sei scappata?”
Ormai non ha più senso negare, sa per certo che è vero. Ora vuole solo sapere perché. Lo vedo, nei suoi occhi. Quel grande punto di domanda a cui solo io posso rispondere.
“Io…Adoro la pioggia, sai? Mi fa sentire sicura. A casa. Forse perché quando pioveva stavamo sempre tutti insieme sul divano, sotto le coperte, mentre mangiavamo schifezze e guardavamo commedie così sdolcinate da farci andare in coma diabetico. Ormai non mi ricordo neanche l’ultima volta che l’abbiamo fatto. È questo il male delle Ultime Volte, vero? Che non sai mai che sono le ultime e alla fine non te le ricordi neanche”.
Ancora una volta sento lo sguardo di Doug su di me, che mi implora di parlare, di aprirmi. E lo vorrei fare così tanto, ma non posso. Sono come bloccata. Sono stata così tanto senza dire mai quello che penso, senza sfogare mai le mie emozioni, che adesso non so più neanche come si fa.
Forse ho solo paura che dicendo a Douglas quello che provo diventi tutto più reale. Che non potrò più fingere che sia tutto uno scherzo della mia mente. Che non sia importante.
Eppure so che Douglas mi aiuterebbe. So che mi ascolterebbe e non si scorderebbe della Misteriosa Ragazza sul pullman.
Mi ripete la domanda, e sono quasi tentata di inventarmi una scusa qualsiasi, qualcosa di non troppo drastico, ma per qualche motivo so che Douglas non mi crederebbe, so che riuscirebbe a vedere oltre le barriere che ho costruito intorno a me e capirebbe che sto mentendo.
Probabilmente perché mi ha chiesto quella domanda così semplice con così tanto interesse da farmi stringere il cuore, perché non mi ricordo l’ultima volta che a qualcuno è importato così tanto di me.
Douglas ha dimostrato più interesse nei miei confronti in quaranta minuti che la mia famiglia in cinque anni. E nonostante questa costatazione faccia male, molto male, decido di dirgli davvero il motivo per cui sono scappata di casa. Perché è quello che si dovrebbe fare quando qualcuno vuole ascoltarti davvero, quando vede di più di una ragazza incasinata, quando riesce a capirti anche solo dopo qualche sguardo.
“Non so da dove cominciare”.
“L’inizio sarebbe una bellissima idea”.
Già, ma dov’è l’inizio? Quando eravamo una famiglia felice, suppongo. Quando mi sentivo ancora sicura. Protetta.
“Inizialmente, eravamo una famiglia normale. Avevamo i nostri problemi, certo, ma tutto nella normalità”. Sento un nodo che mi si forma nella gola. “Un giorno poi, tutto cambiò, così, all’improvviso”. Deglutisco a fatica. “Un giorno, a scuola, la mia sorellina ebbe un incidente. Stava giocando con gli altri bambini, quando è caduta ed ha battuto la testa. Nessuno avrebbe potuto farci niente”.
Mi rendo conto solo ora che Doug mi ha preso la mano e io la stringo come se fosse l’unica forza che mi permette di continuare a parlare.
“Dopo di che niente è più stato lo stesso. Mia madre ha iniziato ad affogare il suo dolore nel lavoro, mio padre nell’alcol e mio fratello nelle risse. Io invece affogavo e basta. Guardavo la mia vita andare a fondo ed io con lei, senza nessuna speranza di riaffiorare e respirare di nuovo”.
E mi rendo conto solo ora che per la prima volta da quando mia sorella è morta, sto respirando di nuovo. È la prima volta che lascio i miei polmoni espandersi e assorbire ossigeno. E mentre una lacrima cade sulle nostre mani intrecciate capisco che è grazie a lui, a Douglas, che ho di nuovo provato la sensazione dell’aria fresca sulla mia pelle.
Così continuo a parlare.
“Poco dopo mio padre è stato licenziato e così lui se ne è andato. Ha fatto le valigie e ci ha lasciati ancora più rotti di prima. E noi siamo diventati sconosciuti. Ci scambiavamo solo qualche parola quando ci incrociavamo ma niente più di ciao e come stai”.
In realtà, fino a poco tempo fa non lo avevo neanche totalmente realizzato. Vivevo ancora in un’impenetrabile bolla di inconsapevolezza che mi impediva di vedere chiaramene la situazione in cui mi trovavo. Poi però ho iniziato a non vedere più la realtà attraverso immagini distorte, vedevo chiaramente, e così mi sono resa conto che non parlavo con mia madre e mio fratello da cinque anni. Quindi sono scappata. Certo, quando l’ho fatto ero nel bel mezzo di un attacco d’ira, ma non mi sto pentendo delle mie azioni. Dopotutto, se non fossi scappata non avrei mai conosciuto Douglas e non sarei mai davvero riuscita ad accettare quello che provavo.
Quando lo guardo negli occhi, però mi accorgo che il suo sguardo trabocca di disappunto, di rabbia addirittura.
“Così hai deciso di andartene?” Ehm…Sì? “Hai deciso di abbandonare la tua famiglia?”
“Come scusa?”
“Beh, perché è sicuramente quello che sembra”. La sua voce è piatta, sembra vuota. “Stai scappando dai tuoi problemi, perché è più facile, lasciando tua madre e tuo fratello ancora più rotti di prima. Ti suona familiare, per caso?”
È come un pugno nello stomaco, il senso di colpa. È improvviso, potente. Fa male. Eppure no, non riesco ad accettare quello che mi sta dicendo Douglas.
“Accidenti. Ed io che pensavo che fossi un ragazzo gentile”. Provo a ribattere anche se dentro di me so che sarà tutto inutile.
“Io mi sono aperta con te, ti ho detto cose che non ho mai detto a nessuno, neanche alla mia migliore amica e che cosa ricevo in cambio? Disappunto? Disgusto? Rabbia? Solo perché sei un bastardo arrogante che pensa di sapere cosa è meglio per me, questo non ti dà il diritto di sputare sentenze sulla mia vita! Soprattutto considerando che mi conosci da appena un’ora!”
Sto urlando adesso e ho iniziato ad attirare di nuovo l’attenzione delle altre persone sul pullman. Ma non mi interessa. Ora come ora voglio solo continuare ad urlare, a sfogarmi, a negare l’evidenza di quello che per tutto il viaggio ho cercato di ignorare. Cioè che sono un’egoista. Che pur di non affrontare la realtà sto scappando da tutto e da tutti, proprio come mio padre.
“Non puoi giudicarmi”. Ma anche mentre lo dico, con voce flebile, mi rendo conto che ha ragione. L’ho sempre saputo in realtà, nel profondo del mio cuore, che ancora una volta Douglas è riuscito a scavalcare le mie difese e a capire cose di me che neanche io sapevo.
Mi abbraccia. Sento il battito del suo cuore e il calore che nessuno mi aveva mai dato.
“Sei te che comandi la vita, non la vita che comanda te”. Sta sussurrando nel mio orecchio e la sua voce ha di nuovo quell’intensità che per un momento prima aveva perso. “Sei te che decidi se cambiare come girano le cose oppure no. Hai la possibilità di farlo. Puoi tornare a casa e far capire alla tua famiglia che la vita va avanti e che potete tornare quelli di una volta. Oppure puoi continuare a scappare, ma con la consapevolezza che, a un certo punto, ti dovrai fermare. Tra dieci mesi o dieci anni, non lo so, ma lo farai, ed allora dovrai affrontare i tuoi problemi e sarà troppo tardi e non potrai continuare a scappare perché sarai stanca di farlo. Così ti ritroverai a vivere una vita vuota, finta, piena di sensi di colpa e rimpianti.
A te la scelta”.
Capisco che, in effetti, da quando è morta mia sorella, le nostre vite sono andate in pausa. Si sono bloccate. Ed adesso viviamo in una specie di limbo, incapaci di andare avanti e senza poter cambiare il passato.
Capisco che questo viaggio, per me, non è servito solo a tirare fuori tutto quello che avevo dentro, ma anche a sbloccarmi, ad uscire dal limbo. Adesso, quindi, il mio compito è quello di aiutare la mia famiglia a fare lo stesso. Aiutarli a prendere il telecomando della loro vita, cambiare le pile e pigiare play.
Fare la scelta giusta non è mai stato così facile. 
Sono cinque ore che sono in viaggio. Il sedile è scomodo e questo pullman è talmente vecchio che ci sta quasi piovendo dentro. E come se non bastasse l’età media dei passeggeri è di 87anni, così come quella dell’autista che sembra avere anche uno strano dovere morale che lo spinge a fermarsi in ogni più piccolo e sperduto paese che incontriamo.
Semplicemente. Fantastico.
Sono quasi 10 minuti che non fermiamo e dentro di me sto quasi sperando che si arrivi a una mezz’ora senza interruzioni, quando in mezzo alla strada troviamo un ragazzo che fa l’autostop.
L’autista si ferma. Non avevo dubbi.
Il ragazzo sale e, dopo essersi guardato un po’intorno, si dirige verso di me e si siede nel sedile accanto al mio. Evidentemente non ha notato gli altri venti posti liberi.
Proprio mentre pensavo che la mia giornata non potesse andare peggio.
Guardo fuori dal finestrino perché, insomma, oggi non mi sembra proprio la giornata giusta per fare amicizia.
“Mi chiamo Douglas”. Beh, a quanto pare per lui sì. “Ma per gli amici è Doug”.
Considerando che non siamo amici la cosa non mi riguarda.
“Io mi chiamo Johanna”, dico ancora rivolta verso il finestrino.
Mi giro verso di lui. “Piacere di conoscerti. Douglas”.
Sorride. Ok, lo devo ammettere, Douggie non è per niente brutto. Soprattutto ora che è bagnato. Non che mi interessi, è solo una costatazione.
Rimaniamo in silenzio. Magari anche lui ha perso la vena amichevole.
“Quindi…Cosa ti porta su questo modernissimo automezzo?”
Automezzo? Seriamente? Continuo a non considerarlo e già che ci sono mi lascio scappare anche uno sbuffo nel caso non abbia colto l’indizi sulla mia voglia di socializzare.
“Vieni da molto lontano?” La mia tendenza ad essere asociale deve passare inosservata a Douglas.
“Io sì. Stavo andando a trovare mia nonna con la macchina, quando mi è andata in panne. Stavo facendo l’autostop da più di un’ora quando siete passati. Te stai andando in qualche posto in particolare?”
Non si arrende facilmente, vero?
“Sto solo viaggiando”. Ho deciso che risponderò con il minimo indispensabile per fermare la raffica di domande. Speriamo che gli basti. Non ho intenzione di raccontargli gli affari miei.
“Sai, i miei genitori e la mia sorellina sono già lì, ma io sono dovuto restare perché avevo un esame”. Interessante. “I tuoi genitori cosa ne pensano di questo viaggio da sola? Non avevano nessuna incertezza?” Se li avessi informati forse avrebbero anche potuto esprimere la loro opinione.
“Diciamo di no”. 
Non sembra soddisfatto della mia risposta, ma non aggiunge niente.
“Non hai molti bagagli”. O. Mio. Dio. Alla prossima fermata gli compro un pacchettino di affari suoi.
“Potrei farti la stessa domanda. Almeno io ho uno zaino”. Sorride.
“Touchè”. Già. Forse ora ne avrà abbastanza. La speranza è l’ultima a morire, dopotutto.
“In realtà io sto andando da mia nonna. Ho già dei vestiti là”.
“Douglas, ti dispiacerebbe stare zitto?” Dio, non si può avere un attimo di pace su questo pullman. Certo, va detto che la pace non è proprio lo spirito guida della mia vita. Dopotutto è per questo che sono in viaggio, no? Per trovare un po’ di pace, serenità. Non chiedo altro. Ho passato gli ultimi cinque anni della mia vita a giocarci a nascondino e devo ammettere che hanno trovato proprio un bel nascondiglio.
“Ok, allora facciamo un gioco”. Non posso crederci. Sta continuando a parlare. Semplicemente incredibile.
“Ma sei sordo o cosa? Ti riesce così difficile lasciarmi dormire?” Sono seriamente sul punto di scoppiare, e se tra due minuti non mi sono ancora addormentata probabilmente succederà.
“In effetti se ti addormentassi il mio viaggio diventerebbe estremamente noioso, e noi non vogliamo che succeda, vero?” 
Noi non vogliamo che succeda? Ma chi si crede di essere? Un animatore dei campi estivi?
“Forse non hai capito che neanche alla più minuscola particella del mio corpo interessa se ti annoi o no”. 
Sembra dispiaciuto di questo imperdonabile fatto, ma si riprende subito.
“Ecco, questa sarebbe una cosa che saprei se facessimo un gioco per conoscerci meglio”.
“Douglas, non ho dodici anni, non siamo intorno a un falò pronti a rivelare le parti più inedite della nostra psiche, ma soprattutto, te lo ripeto, voglio. Dormire”.
Evidentemente il mio sarcasmo gli piace perché inizia a ridere con una di quelle risate che vengono proprio dal cuore, che solo un certo tipo di persona riesce a tirare fuori.
“Quindi hai anche un senso dell’umorismo”, sorride, “visto? Abbiamo già cominciato a giocare”.
Sorride di nuovo e questa volta non ce la faccio a resistergli.
“Ok, va bene, giocherò, ma sappi che non ti terrò la mano mentre mi racconti di come è morto il tuo pesce rosso”.
“Affare fatto”.
Cambia la sua posizione sul sedile, in modo da guardarmi bene in faccia.
“Allora, il gioco è semplice. Ci facciamo delle domande e poi diamo delle risposte”.
“Ah, quindi è un interrogatorio”.
“Puoi scegliere di non rispondere a tre domande”, dice come se non mi avesse sentito.
“Non ha senso! Come faccio ad usare i miei jolly se non so che domande mi farai dopo?”
“Beh, è il bello del gioco!”, esclama con passione. “Ok, sei pronta? Hai capito tutto?”
“Non è che sia particolarmente complicato”, borbotto.
“Ah ah, non si insulta il gioco del grande maestro!”
Dio, non sta fermo un secondo. Sto iniziando a chiedermi se la sua allegria sia un tratto caratteriale o se si fa di extasy.
“Inizio io perché ho inventato il gioco”, e sembra così felice di questo fatto che quasi mi dispiace rompere la sua bolla di auto-ammirazione.
“Non dovresti vantartene sai?”, dico acida ma comunque con il sorriso sulle labbra. Sembra strano, ma l’allegria di Douglas è contagiosa, dopotutto.
“Allora, qual è il tuo gusto preferito di gelato?”
“Yogurt”.
Passa qualche secondo prima che mi renda conto che è il mio turno.
“Ehm…film preferito?”
“Harry Potter”. Tipico. Però non gli dico che è anche il mio.
“Hai un ragazzo?” Il mio peluche conta?
“No, anche se non vedo come la cosa ti interessi”.
“Peretto”, dice con un sorriso.
Se nel destino di questo modernissimo automezzo, per citare Douglas, fosse predetta un’improvvisa caduta in una voragine enorme, questo sarebbe il momento perfetto.
“Ehm…” A quanto pare il mio antenato scimmia si è impossessato del mio cervello.
“È il tuo turno”. Si, grazie, lo so.
“Già…Si…ehm…il tuo…progetto? Quello per cui non potevi andare da tua nonna?”
“Allora mi stavi ascoltando prima!” Purtroppo, aggiungerei. “Comunque, dovevo finire di verificare un algoritmo che avevo creato per un’università del Michigan”.
Mi guarda un po’e deve capire dal mio sguardo confuso che c’è bisogno di ulteriori spiegazioni. “Si, sono un piccolo genio”. Intelligente, bello, decentemente simpatico. Il ragazzo dei sogni di qualsiasi ragazza. È un peccato che sia capitato su un pullman con l’unica non interessata.
Distolgo un secondo lo sguardo, quasi come se mi vergognassi di questo pensiero.
“Cosa c’è?” Chiede subito, preoccupato.
“Niente”, rispondo in fretta, forse troppo.
Mi fissa. Non mi crede. 
A questo punto non so cosa mi spaventi di più, se il fatto che mi conosce già abbastanza bene da capire quando c’è qualcosa che non va, o il fatto che si sia accorto che stavo mentendo.
Non ha ancora smesso di fissarmi, sembra quasi che mi voglia leggere nella mente. Ovviamente cerco di distrarlo perché nessuno vorrebbe leggere nella mia mente.
“Douglas? Ehi? Lo sai che è il tuo turno, vero?”
“Cosa? Si, si, scusa, mi ero distratto”. Finalmente è uscito dalla trance. “Allora, vuoi dirmi dove stai andando?”
“Te l’ho detto, non ho una meta”, cerco di sorridere, “vado dove mi porta il cuore”.
“E perché sei sola?” Il suo sguardo è così intenso, che ho quasi voglia di dirgli la verità. Quasi.
“Sono piuttosto sicura che tu abbia perso”. Cara buon vecchia tattica di cambiare discorso.
“Cosa?” Sembra confuso.
“Beh, le regole erano chiare: una domanda a testa. Te me ne hai fatte due.”
“Non stavo giocando”, dice seriamente. Purtroppo ho deciso che ignorerò qualunque tentativo da parte sua di scendere in argomenti delicati.
“Io si”, taglio corto, “ma visto che oggi ho deciso di essere una persona migliore, ci passerò sopra quindi, invece di squalificarti, ti toglierò un jolly”.
“Wow, l’allieva che supera il maestro”. Sorride, ma non è il suo solito sorriso. È amaro, riluttante, come se farlo gli causasse un dolore fisico.
“È il mio turno ora, giusto?” Annuisce. “Bene, quindi…dove abiti?”
“Indianapolis. Tu?”
Ok, a questa posso rispondere. “Anch’io”.
“Dove sono i tuoi genitori?” 
“A casa, perché? No, aspetta, hai fatto di nuovo due doma…”
“Perché sei in viaggio? Mi interrompe. Ma cosa sta succedendo?
“Stai ignorando le regole del gioco, per caso?” Ed è anche molto più bravo di quanto non lo sia io ad ignorare le sue stupide domande.
“Johanna. Io. Non. Sto. Giocando.”
“Non vedo perché avresti dovuto smettere”.
“Perché i tuoi genitori ti fanno viaggiare da sola senza meta?
“Perché non ti fai gli affari tuoi?” 
“Perché non sanno che sei partita, vero? Sei scappata!” 
“Jolly!” Urlo. “Gioco il jolly!”
Anche lui ora ha alzato la voce.
“Dimmi perché!”
“Dio, Douglas!”, dico mentre molte teste si girano verso di me, “tu non sai niente, va bene? Non mi importa di quello che credi di sapere, tu non mi conosci e non riuscirai mai a farlo! Perché tra tre ore scenderemo da questo cavolo di pullman, tu te ne andrai a finire il mio argoritmo, o come si chiama, e io me ne andrò per la mia strada e ci saremo dimenticati che niente di tutto questo sia successo! Quindi, gioco lo stupido jolly!”
Sento qualcosa di bagnato sulla mia guancia e mi accorgo solo ora che sto piangendo. Cerco di asciugarmi le lacrime senza che Douglas se ne accorga, ma è troppo tardi perché lui si avvicina e lo fa per me.
Provo guardarlo negli occhi, ma non ci riesco, così mi giro dall’altra parte, verso il finestrino.
Passa un’ora prima che uno di noi due rompa il silenzio. Ovviamente è Douglas che lo fa.
“Non mi scorderò di tutto questo”, sussurra, “e si dice algoritmo”, aggiunge con un sorriso.
Mi prende il viso e lo gira verso di lui, costringendomi a guardarlo negli occhi. “Perché sei scappata?”
Ormai non ha più senso negare, sa per certo che è vero. Ora vuole solo sapere perché. Lo vedo, nei suoi occhi. Quel grande punto di domanda a cui solo io posso rispondere.
“Io…Adoro la pioggia, sai? Mi fa sentire sicura. A casa. Forse perché quando pioveva stavamo sempre tutti insieme sul divano, sotto le coperte, mentre mangiavamo schifezze e guardavamo commedie così sdolcinate da farci andare in coma diabetico. Ormai non mi ricordo neanche l’ultima volta che l’abbiamo fatto. È questo il male delle Ultime Volte, vero? Che non sai mai che sono le ultime e alla fine non te le ricordi neanche”. 
Ancora una volta sento lo sguardo di Doug su di me, che mi implora di parlare, di aprirmi. E lo vorrei fare così tanto, ma non posso. Sono come bloccata. Sono stata così tanto senza dire mai quello che penso, senza sfogare mai le mie emozioni, che adesso non so più neanche come si fa.
Forse ho solo paura che dicendo a Douglas quello che provo diventi tutto più reale. Che non potrò più fingere che sia tutto uno scherzo della mia mente. Che non sia importante. 
Eppure so che Douglas mi aiuterebbe. So che mi ascolterebbe e non si scorderebbe della Misteriosa Ragazza sul pullman.
Mi ripete la domanda, e sono quasi tentata di inventarmi una scusa qualsiasi, qualcosa di non troppo drastico, ma per qualche motivo so che Douglas non mi crederebbe, so che riuscirebbe a vedere oltre le barriere che ho costruito intorno a me e capirebbe che sto mentendo.
Probabilmente perché mi ha chiesto quella domanda così semplice con così tanto interesse da farmi stringere il cuore, perché non mi ricordo l’ultima volta che a qualcuno è importato così tanto di me. 
Douglas ha dimostrato più interesse nei miei confronti in quaranta minuti che la mia famiglia in cinque anni. E nonostante questa costatazione faccia male, molto male, decido di dirgli davvero il motivo per cui sono scappata di casa. Perché è quello che si dovrebbe fare quando qualcuno vuole ascoltarti davvero, quando vede di più di una ragazza incasinata, quando riesce a capirti anche solo dopo qualche sguardo.
“Non so da dove cominciare”. 
“L’inizio sarebbe una bellissima idea”.
Già, ma dov’è l’inizio? Quando eravamo una famiglia felice, suppongo. Quando mi sentivo ancora sicura. Protetta.
“Inizialmente, eravamo una famiglia normale. Avevamo i nostri problemi, certo, ma tutto nella normalità”. Sento un nodo che mi si forma nella gola. “Un giorno poi, tutto cambiò, così, all’improvviso”. Deglutisco a fatica. “Un giorno, a scuola, la mia sorellina ebbe un incidente. Stava giocando con gli altri bambini, quando è caduta ed ha battuto la testa. Nessuno avrebbe potuto farci niente”. 
Mi rendo conto solo ora che Doug mi ha preso la mano e io la stringo come se fosse l’unica forza che mi permette di continuare a parlare.
“Dopo di che niente è più stato lo stesso. Mia madre ha iniziato ad affogare il suo dolore nel lavoro, mio padre nell’alcol e mio fratello nelle risse. Io invece affogavo e basta. Guardavo la mia vita andare a fondo ed io con lei, senza nessuna speranza di riaffiorare e respirare di nuovo”.
E mi rendo conto solo ora che per la prima volta da quando mia sorella è morta, sto respirando di nuovo. È la prima volta che lascio i miei polmoni espandersi e assorbire ossigeno. E mentre una lacrima cade sulle nostre mani intrecciate capisco che è grazie a lui, a Douglas, che ho di nuovo provato la sensazione dell’aria fresca sulla mia pelle. 
Così continuo a parlare.
“Poco dopo mio padre è stato licenziato e così lui se ne è andato. Ha fatto le valigie e ci ha lasciati ancora più rotti di prima. E noi siamo diventati sconosciuti. Ci scambiavamo solo qualche parola quando ci incrociavamo ma niente più di ciao e come stai”.
In realtà, fino a poco tempo fa non lo avevo neanche totalmente realizzato. Vivevo ancora in un’impenetrabile bolla di inconsapevolezza che mi impediva di vedere chiaramene la situazione in cui mi trovavo. Poi però ho iniziato a non vedere più la realtà attraverso immagini distorte, vedevo chiaramente, e così mi sono resa conto che non parlavo con mia madre e mio fratello da cinque anni. Quindi sono scappata. Certo, quando l’ho fatto ero nel bel mezzo di un attacco d’ira, ma non mi sto pentendo delle mie azioni. Dopotutto, se non fossi scappata non avrei mai conosciuto Douglas e non sarei mai davvero riuscita ad accettare quello che provavo.
Quando lo guardo negli occhi, però mi accorgo che il suo sguardo trabocca di disappunto, di rabbia addirittura.
“Così hai deciso di andartene?” Ehm…Sì? “Hai deciso di abbandonare la tua famiglia?”
“Come scusa?” 
“Beh, perché è sicuramente quello che sembra”. La sua voce è piatta, sembra vuota. “Stai scappando dai tuoi problemi, perché è più facile, lasciando tua madre e tuo fratello ancora più rotti di prima. Ti suona familiare, per caso?”
È come un pugno nello stomaco, il senso di colpa. È improvviso, potente. Fa male. Eppure no, non riesco ad accettare quello che mi sta dicendo Douglas.
“Accidenti. Ed io che pensavo che fossi un ragazzo gentile”. Provo a ribattere anche se dentro di me so che sarà tutto inutile.
“Io mi sono aperta con te, ti ho detto cose che non ho mai detto a nessuno, neanche alla mia migliore amica e che cosa ricevo in cambio? Disappunto? Disgusto? Rabbia? Solo perché sei un bastardo arrogante che pensa di sapere cosa è meglio per me, questo non ti dà il diritto di sputare sentenze sulla mia vita! Soprattutto considerando che mi conosci da appena un’ora!” 
Sto urlando adesso e ho iniziato ad attirare di nuovo l’attenzione delle altre persone sul pullman. Ma non mi interessa. Ora come ora voglio solo continuare ad urlare, a sfogarmi, a negare l’evidenza di quello che per tutto il viaggio ho cercato di ignorare. Cioè che sono un’egoista. Che pur di non affrontare la realtà sto scappando da tutto e da tutti, proprio come mio padre.
“Non puoi giudicarmi”. Ma anche mentre lo dico, con voce flebile, mi rendo conto che ha ragione. L’ho sempre saputo in realtà, nel profondo del mio cuore, che ancora una volta Douglas è riuscito a scavalcare le mie difese e a capire cose di me che neanche io sapevo.
Mi abbraccia. Sento il battito del suo cuore e il calore che nessuno mi aveva mai dato.
“Sei te che comandi la vita, non la vita che comanda te”. Sta sussurrando nel mio orecchio e la sua voce ha di nuovo quell’intensità che per un momento prima aveva perso. “Sei te che decidi se cambiare come girano le cose oppure no. Hai la possibilità di farlo. Puoi tornare a casa e far capire alla tua famiglia che la vita va avanti e che potete tornare quelli di una volta. Oppure puoi continuare a scappare, ma con la consapevolezza che, a un certo punto, ti dovrai fermare. Tra dieci mesi o dieci anni, non lo so, ma lo farai, ed allora dovrai affrontare i tuoi problemi e sarà troppo tardi e non potrai continuare a scappare perché sarai stanca di farlo. Così ti ritroverai a vivere una vita vuota, finta, piena di sensi di colpa e rimpianti. 
A te la scelta”.
Capisco che, in effetti, da quando è morta mia sorella, le nostre vite sono andate in pausa. Si sono bloccate. Ed adesso viviamo in una specie di limbo, incapaci di andare avanti e senza poter cambiare il passato. 
Capisco che questo viaggio, per me, non è servito solo a tirare fuori tutto quello che avevo dentro, ma anche a sbloccarmi, ad uscire dal limbo. Adesso, quindi, il mio compito è quello di aiutare la mia famiglia a fare lo stesso. Aiutarli a prendere il telecomando della loro vita, cambiare le pile e pigiare play.
Fare la scelta giusta non è mai stato così facile.  










                                
 
   
 
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