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Autore: DigitalGenius    21/09/2014    4 recensioni
Garfield arrossì lievemente. Non poté evitare che il cuore gli si fermasse, nel guardarla, anche se non era la vera Raven.
«Allora, cosa ti porta qui?» gli domandò lei sorridendo.
Garfield dischiuse le labbra per risponderle. All’improvviso tutti i suoi piani, tutti i discorsi a cui aveva pensato per riportare Raven tra i Titans, sembravano inutili. Chinò lo sguardo e strofinò per terra una suola della scarpa.
Sentiva quegli occhi addosso a sé e quello sguardo lo trafiggeva.
«Dov’è che sono le altre emozioni? Potrei parlare con alcune di voi?» esordì all’improvviso agitando le punte delle orecchie.
Coraggio scrollò le spalle. Il sorriso le si spense mentre si avvicinava al bordo del precipizio su cui si trovavano. «Loro non verranno» annunciò rassegnata. «Si vergognano»
«Perché dovrebbero?» le domandò il ragazzo seguendola. «Sono sempre il buon vecchio Beast Boy, credevo di piacere almeno alla metà di loro»
«Tu ci piaci» lo tranquillizzò lei nel vederlo quasi nel panico. Gli sorrise. «Diciamo che non sono pronte ad incontrarti. O almeno non lo sono la maggior parte di loro»
«Perché?» domandò Garfield mogio. «Perché loro no e tu sì?»
«Perché?» ripeté lei. «Perché io sono il Coraggio»
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beast Boy, Raven, Robin, Starfire
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ANIME INFRANTE


Garfield non era mai stato troppo interessato al giardinaggio. È vero, da piccolo aveva girato il mondo con i suoi genitori, famosi scienziati, ma non si era mai soffermato troppo sulla moltitudine di piante che aveva trovato lungo i suoi viaggi, poiché era sempre stato troppo preso dai suoi giochi di bambino per interessarsene. Inoltre, se doveva essere sincero, non era mai neanche entrato in una serra con vero interesse. Era quindi rimasto davvero affascinato da tutti quegli strani arbusti, quei vasi e quei fiori di cui non conosceva il nome.
Garfield sapeva distinguere le piante grasse, probabilmente, ma era certo di non riuscire ad andare oltre questo.
Sollevò lo sguardo verso uno scaffale colmo di vasi di ciclamini e sospirò, probabilmente era stupido, ma gli piaceva pensare che, una volta che Raven fosse tornata a casa, avrebbero avuto bisogno almeno di un giardinetto per la piccola Lilith. Non era certo se la ragazzina preferisse i fiori o le piantine, i cespugli o gli alberelli (davvero c’era differenza?), ma voleva assolutamente organizzare al meglio uno spazio totalmente dedicato a lei. A Richard, poi, avrebbe raccontato semplicemente di aver finalmente deciso cosa fare dei suoi pollici verdi.
Rise sommessamente per la stupidità di quella battuta, rimpiangendo di non poterla testare immediatamente per provare a strappare una risata a qualcuno. Passò il dito su una strana pianta dalle grosse foglie striate di verde scuro e si domandò se sarebbe davvero stato in grado di curare decentemente un giardino.
Aveva già parlato al telefono con la proprietaria della serra, ed insieme avevano convenuto che sarebbe stato meglio se fosse andato a vedere le piante di persona, in modo da poter decidere insieme quali fossero le più adatte alle sue esigenze. Sinceramente, le aveva detto Garfield una volta arrivato, la mia unica esigenza è quella che sopravvivano a me. Aveva riso, ma subito dopo aveva sospirato rassegnato e aveva lasciato che la donna sparisse oltre una porta, dove aveva detto di avere qualcosa che faceva al caso suo.
Erano alcuni minuti che aspettava, e ne aveva approfittato per guardarsi in giro. Tra i vari profumi – che quasi l’avevano ucciso appena aveva messo piede lì dentro e a cui si stava appena abituando – e i nomi e i colori, il ragazzo aveva scoperto un intero mondo. Qualcuno, una volta, gli aveva detto che ogni fiore ha un significato ben preciso. Si chiese quali fiori avrebbe dovuto usare per dire ciò che sentiva per ognuno dei Titans.
Sbuffò sonoramente, domandandosi se fosse il caso di raggiungere la signora sul retro, ma il tintinnare del campanello all’ingresso lo riscosse, e Garfield si voltò inconsciamente a controllare chi fosse il nuovo cliente. Con la coda dell’occhio distinse solo la sagoma vestita di scuro, poi gli arrivò il suo odore, persistente ed intenso, così familiare e inaspettato che ebbe il dubbio che fosse solo frutto della sua immaginazione. Ma Raven era reale e la sua espressione di stupore era il perfetto riflesso della sua.
Garfield si raddrizzò, trattenne il fiato e restò immobile. Raven, all’erta, era pronta a balzare via al primo segnale di pericolo. Ogni muscolo del suo corpo era rigido, gli occhi sbarrati e la mascella serrata, in attesa del momento adatto a battere in ritirata. Ma Garfield, per quanto sapesse che la cosa non dipendeva da lui, si disse che non le avrebbe permesso che gli sfuggisse così. Sollevò una mano lentamente, trattenendo il sorriso che minacciava di aprirglisi sul volto nel constatare che, finalmente, lei era lì davanti a lui ed avrebbe potuto parlarle davvero.
«Ciao» le disse, sforzandosi di trasmetterle tutta la felicità che provava nel trovarsela davanti. Poi si diede dello sciocco, pensando a quanto grazie ai suoi poteri la ragazza potesse leggere della tempesta di sentimenti che gli scuoteva il petto. Probabilmente sapeva anche ciò che provava per lei, l’aveva sempre saputo ed aveva riso di lui per questo. Un moto di delusione lo percorse; c’era stato un periodo in cui aveva pensato anche di essere ricambiato, ma poi lei era scappata mandando tutto all’aria e lasciandolo in balia di sé stesso. Si morse il labbro, prendendo fiato, e si ripeté che qualunque fossero i sentimenti di lei sarebbero comunque stati prima di tutto amici.
Si apprestò a fare un passo verso di lei, constatando con stupore che nello stesso istante Raven aveva deciso di avvicinarsi a sua volta. Aveva tenuto il cappuccio della felpa sollevato, aveva i capelli più lunghi di quanto ricordasse che le scivolavano sulle spalle e la frangetta le ricopriva la fronte nascondendo il chakra rosso che tanto la distingueva dalle altre. Sembrava combattuta, come se si fosse resa conto solo in un secondo momento di qualcosa che le sue gambe avevano deciso di fare per lei. Garfield ripensò a quando Lilith gli aveva raccontato di non essere capace di distinguere i sentimenti degli altri dai suoi e sorrise colpevole. Che lei avesse percepito il suo desiderio di avvicinarsi e l’avesse assecondato scambiandolo per suo?
Non voleva in alcun modo che lei non fosse chi era, quindi percorse lentamente i pochi metri che li separavano pronto a cogliere anche il minimo cenno di disapprovazione, ma questo non vi fu e, appena fu direttamente di fronte a lei, Raven gli sorrise a testa china, osservando, forse con troppa poca acutezza, trattandosi di lei:
«Non sei verde»
Garfield trattenne una risata, sollevò la mano e mostro fiero il suo anello. Almeno, pensò, questo era un modo per rompere il ghiaccio. «Tutto grazie a questo fantastico anello inventato da Cyborg. Mi sorprende che tu mi abbia riconosciuto» tentò di scherzare.
Raven lo fulminò con un’occhiata. «Dovrei essere cieca e priva di poteri, se non idiota, per non riconoscerti» ribatté piccata. Incrociò le braccia e sbuffò, lanciando un’occhiata oltre la spalla del ragazzo per scrutare là dove la fioraia era sparita.
Con un movimento rapido, quasi troppo veloce per rendersi conto davvero di ciò che stava per fare, Garfield allungò la mano e spinse via il cappuccio, rivelando appieno l’espressione contrariata della ragazza. Schiuse le labbra, pensando a quanto avrebbe voluto dirle quanto gli era mancata, quanto avesse sperato di rivederla e quanto gli sembrasse surreale averla lì in quel momento.
Ma Raven ovviamente sapeva già tutto. Afferrò il cappuccio a testa china e lo sollevò, rifiutandosi di ricambiare lo sguardo del ragazzo come se questo potesse aiutarla a tenere sotto controllo l’empatia. «È meglio che vada, adesso» concluse mortificata.
Gli diede le spalle per tornare all’ingresso, ma il ragazzo la trattenne per un polso. «No», le disse secco, con un tono più duro di quanto avrebbe voluto. Provò a riportare a galla tutto ciò che provava per lei, a farle percepire la speranza di non vederla scappare un’altra volta. Pensò ancora che se Raven avesse voluto avrebbe potuto dirgli che ricambiava i suoi sentimenti in cogni momento, ma non l’aveva mai fatto. La vide scuotere la testa, la lasciò andare. Forse Raven non aveva mai provato nulla e lui si era solo illuso. «Ok» concluse deluso. «Vai allora, me ne farò una ragione». Raven si voltò, il volto teso e le labbra strette. «Addio allora» terminò Garfield.
E la lasciò andare.

Kori fece strada emozionata, guidando il ragazzino nell’edificio. La felicità di essere riuscita a parlare con lui era tanta che le ci vollero alcuni secondi per rendersi conto che lui non era più a fianco a lei.
Si voltò a cercarlo e lo vide immobile pochi passi dopo l’ingresso. Jeremy si guardava attorno sperduto, come se si aspettasse da un momento all’altro la rivelazione di essere caduto in una trappola. Era rimasto a distanza anche prima, evitando il contatto fisico, lasciando sempre almeno un metro tra loro. Kori non aveva provato ad avvicinarsi, lasciandogli tutto lo spazio di cui sentiva il bisogno.
Non la stava guardando, ma sapeva di essere osservato ed il suo volto si fece immediatamente gelido. Sospirò, nel tentativo di non essere contagiato dalla voglia di lei di diventare amici.
Lo sentiva chiaramente. La voglia di lei di aiutarlo, di proteggerlo, di trovare un punto di incontro che potesse fare felici entrambi. Tenne i piedi ben piantati a terra. Non sapeva più se la voglia di avvicinarsi e il desiderio di non ferirla fossero davvero desideri suoi. Quella ragazza era una vera tempesta emotiva, un vaso di sentimenti positivi.
Kori intuì il suo disagio. Non si scompose, esibendosi anzi nel più caloroso dei suoi sorrisi.
«Vieni avanti. Vedrai, ti piacerà. Ho visto come osservavi quella vetrina» gli disse incoraggiante.
Jeremy strinse gli occhi. Non gli piaceva che la gente lo osservasse, tanto più quando lo coglievano con la guardia abbassata, con il rischio di leggere in lui cose che non voleva che trapelassero. Cose che rischiavano anche di non appartenergli.
Obbedì, solo perché i suoi poteri gli permettevano di vedere chiaramente che la ragazza non voleva ingannarlo in alcun modo. Lei era circondata da un aura di felicità e fiducia che rischiavano di invaderlo. Uno dei problemi di essere un empatico; non riuscire a distinguere i propri sentimenti da quelli degli altri.
«Raven ti ha mai parlato di me?» gli domandò Kori sorridendogli. Non si aspettava una risposta positiva. Non si aspettava affatto una vera risposta. Era solo un modo come un altro per iniziare un discorso, per incitarlo a parlare, per fargli capire che potevano essere, se non amici, almeno conoscenti. Per fargli sapere in qualche modo che non era sua intenzione immischiarsi nei suoi affari, ma che gli avrebbe parlato di lei e poi lui, solo se l’avesse voluto, avrebbe potuto fare lo stesso.
Jeremy distolse lo sguardo, non che questo lo aiutasse a percepire di meno le emozioni altrui. Da qualche parte, nel corridoio, ci doveva essere un bambino che saltellava su un piede solo perché nessuno si degnava di portarlo in bagno a svuotare la vescica. Dovette ricordare a sé stesso che non era lui a dover fare pipì, come non era lui ad essere appena stato mollato dal fidanzato, o ad essersi sbucciato il ginocchio inciampando sul primo scalino.
Tornò a concentrarsi su Kori. Poteva gestirla, si disse. «Non parla mai del passato»
Il sorriso di Kori si allentò un istante, ma poi si riaccese più forte di prima, per la felicità di aver ricevuto una risposta, seppur negativa. Sentì la gioia di lei pervaderlo. Si pizzicò la gamba attraverso la stoffa della giacca e dei jeans, forte, per impedirsi di sorriderle a sua volta.
«Quindi non sai che io sono una principessa aliena» gli disse Kori spostandosi una ciocca di capelli dal viso. Jeremy sollevò lo sguardo. Tentava di nascondere la sorpresa, ma i suoi occhi sgranati lo tradivano. Si costrinse a non spalancare la bocca, mentre Kori sorrideva divertita dalla sua reazione.
«Vengo dallo spazio» ribadì poggiando una mano sul cuore in segno di giuramento. «Sono così lontana da casa che a volte mi chiedo come faccio a resistere»
Jeremy fu travolto dalla malinconia. Se non avesse passato ciò che aveva passato si sarebbe stupido di quanto dolore potesse provare una persona. Solo una volta aveva sentito un rimorso più grande. L’aveva letto in Raven in modo talmente intenso da pensare per un istante di poter soffocare.
Represse quel ricordo, e represse la nostalgia di Kori, ripetendosi che doveva restare in sé.
«Non sono mai stato in un planetario» rivelò allora Jeremy per distrarla. Lo fece involontariamente, senza rendersene conto. Non voleva causarle dolore. Non era sicuro se lei ci fosse cascata o no, essendo riuscito a sottrarsi momentaneamente alle sue emozioni, ma lei non si pose alcun problema e lo assecondò immediatamente.
«C’è questa grande stanza con il soffitto rotondo e poi ci riflettono sotto l’intero planetario» s’interruppe e guardò il ragazzo entusiasta. «Anche se non è questo che voglio farti vedere oggi»
Jeremy nascose la curiosità. Non chiese nulla. Aveva intuito in qualche modo che la ragazza avrebbe parlato comunque. Da quello che aveva visto non era una che avrebbe fatto attendere, nel voler allietare la giornata a qualcuno. E farlo felice almeno per un po’ era quello a cui lei mirava.
Bastarono pochi secondi perché lei si sbottonasse. «Al piano più alto c’è l’osservatorio» rivelò sognante. Percorse il corridoio, chiamò l’ascensore. Aspettarono insieme in silenzio.
Una volta che furono saliti sull’ascensore Kori riprese il suo racconto. «Sono nata nello spazio, su un pianeta che si chiama Tamaran. Non ti annoierò raccontandoti la mia storia, non preoccuparti. È solo che ho visto come guardavi quelle mappe stellari ed ho pensato che ti sarebbe piaciuto venire qui»
Jeremy trovò incredibile il modo in cui sembrava l’avesse capito anche senza avere alcun tipo di empatia. Non disse nulla.
L’ascensore si aprì, rivelando una sala dalle pareti quasi interamente trasparenti. Il cielo, ormai quasi completamente oscurato dalla notte, era ben visibile anche attraverso la cupola trasparente.
Jeremy spalancò gli occhi, lasciando trapelare la sorpresa un istante di troppo. Guardò di sottecchi Kori e, accennando un sorriso, decise di darle almeno un po’ di fiducia.
Lei aveva un cuore buono, ferirla sarebbe stata solo una crudeltà, e lui non voleva essere crudele come troppo spesso gli altri erano stati con lui.
«Vengo qui a guardare le stelle a volte» rivelò Kori. «Anche se Tamaran è troppo lontano per essere visto anche con il telescopio»
Jeremy s’impossessò immediatamente di uno de i telescopi, piantò l’occhio nello spioncino e s’immobilizzò estasiato.
Kori lo osservò soddisfatta, tenendosi a distanza, in silenzio.
Jeremy s’incantò a scrutare gli astri nell’oscurità del cielo. Ora che anche l’ultimo fascio di luce era scomparso oltre l’orizzonte era tutto più facile. Non era mai riuscito neanche a sperare di poter vedere tutto così da vicino, ed ora gli sembrava quasi possibile sognare di arrivare fin lì, dove nessuno lo conosceva, dove forse non sarebbe stato considerato strano e rifiutato.
Sapeva che la ragazza al suo fianco poteva intuire la sua, seppur lieve, felicità. Sapeva che lo stava osservando di sottecchi, con la speranza di aver fatto un passo avanti nell’essere amici. Lei non aveva fretta, in questo.
Ma questi pensieri erano controproducenti, per Jeremy, se voleva evitare di intrufolarsi involontariamente nel suo tumulto interiore.
«C’è la guerra, sul mio pianeta» raccontò Kori. «Anche se sono stata via talmente tanto tempo che ora potrebbe anche essere finita. A volte mi manca, altre volte penso che è meglio così. Qui posso salvare delle vite, ho quella marcia in più che mi serve per rendermi utile. Su Tamaran, stato sociale a parte, ero solo una dei tanti»
Jeremy non la guardava, ma rifletté sulle sue parole. Lei era vissuta in un mondo in cui tutti erano come lei, in cui tutti potevano comprendere le sue stranezze perché quella per loro era la normalità, ed aveva scelto ti abbandonarlo. Certo, lui non sapeva perché l’avesse fatto, ma non metteva in dubbio le difficoltà che lei aveva trovato una volta arrivata sulla terra. Erano più simili di quanto avesse pensato all’inizio.
Le parole gli sfuggirono prima che se ne rendesse conto.
«Ti sei mai sentita fuori posto, come se nessuno potesse capirti?» domandò Jeremy all’improvviso.
Kori si avvicinò, colta alla sprovvista, ma felice che le avesse fatto una domanda così personale.
«Diciamo che sono stata fortunata a trovare altri…» si fermò a riflettere sul termine giusto; l’aveva usato Victor un paio di giorni prima e le aveva spiegato il significato. «Outsider in un mondo di persone comuni» Jeremy si staccò dal telescopio e la guardò, anche se non gli serviva vedere i suoi occhi per sapere che era sincera, che ci credeva veramente. Era un po’ quello che era successo a lui con l’arrivo dei suoi fratelli. Era sempre stato solo, fino ad allora e non gli piaceva ripensare al passato, adesso.
Kori si avvicinò, Jeremy fece un passo indietro per evitare che lo sfiorasse, ma la ragazza voleva solo puntare un fazzoletto di cielo preciso. Gli fece cenno di guardare e, quando il ragazzo l’ebbe fatto gli disse: «Vedi, casa mia è oltre quel gruppo di stelle»
Jeremy scrutò rapito la costellazione; le trovava così distanti, luminose. Loro non dovevano preoccuparsi di spaventare le persone, perché erano indispensabili. Alcune erano soli di altre galassie, altre semplicemente la mappa che si usava da tempo immemore per non perdersi in mare. Loro erano luce nell’oscurità.

La porta le si richiuse alle spalle con un cigolio sommesso; i cardini erano stati oliati di recente, ma questo a Raven non importava; ciò che la preoccupava era il chiasso che le proveniva dall’interno, e che i suoi fratelli empatici avrebbero percepito immediatamente. Era stata in giro una mezz’ora buona per smaltire la delusione che aveva portato il pessimo finale dell’incontro con Garfield, meditando su un tetto poco distante fino a quando non si era sentita meglio. Aveva spinto le sue emozioni in un angolo com’era stata abituata a fare fin da piccola e, solo allora, si era resa conto di non aver preso la pianta che aveva promesso a Lilith. Per un istante aveva pensato alla possibilità di rubarne una da un giardino o da un balcone, ma aveva constatato che non sarebbe stata una buona idea, se avesse voluto considerarsi ancora una protettrice della città. Si era rassegnata ed era tornata a mani vuote in quella che avrebbero chiamato casa almeno per un po’.
Lilith la aspettava nel giardino d’inverno, circondata da quelle piante che la sua natura di ninfa la costringeva sempre a ricercare. Inclinò leggermente la testa, confusa ed involontariamente partecipe delle sue emozioni. Raven accennò un sorriso; uno di quelli rari, colpevoli e grati. Lilith non le chiese della pianta, ma voleva sapere cosa l’avesse ferita. Raven non avrebbe voluto dare spiegazioni, ma quell’affetto così puro, quella curiosità così colma di premura la avvolgevano, ed era così grata che insieme ai suoi fratelli potesse sentirsi finalmente al suo posto.
Si inginocchiò davanti a Lilith, scuotendo la testa lentamente. «Garfield era alla serra. Credo di averlo perso per sempre, questa volta» ammise rammaricata ed a testa bassa.
Lilith la abbracciò premurosamente. Quel ragazzo le piaceva, ma nessuno avrebbe mai dovuto fare sentire così Raven, perché lei era la persona più fantastica e dolce dell’intero universo.

Garfield si sfilò l’anello in un vicolo. Per una volta aveva voglia di essere solo sé stesso mentre camminava in città; essere verde l’avrebbe aiutato a ricordare com’era fino a pochi mesi prima, ma sarebbe stata solo una questione di aspetto esteriore. Era solo questo che contava, no? Apparire come gli alti si aspettavano che fosse, privo di dubbi ed esitazioni, un eroe per la città, qualcuno che non aveva bisogno di nessuno su cui contare per restare in piedi. Rimise l’anello al dito ed abbandonò il vicolo con le mani nelle tasche dei pantaloni. Robin gli avrebbe detto che agire senza riflettere era proprio da lui, ed avrebbe dato lo stesso parere riguardo a ciò che aveva detto a Raven quasi due ore prima, ma Garfield sentiva, per una volta, di essere nel giusto. Non poteva continuare ad aspettarla, a correrle dietro all’infinito, specialmente se lei non aveva intenzione di fare qualcosa per dimostrargli che i suoi sforzi non erano totalmente vani.
Tirò un calcio ad una lattina vuota che era stata abbandonata sul il marciapiede, ma la rabbia era già scemata in delusione. Pensò che avrebbe dovuto annullare l’ordine delle piante per la camera di Lilith, ed a come avrebbe potuto dire a Starfire che del loro piano non se ne faceva più nulla.
Sospirò ampliamente e la brezza della sera gli porto alle narici il profumo di sottobosco. Era leggero e mescolato agli altri centinaia di odori presenti nella strada commerciale di Jump City, quasi coperto dal profumo emanato da una bancarella di zucchero filato che stava alla sua destra, ma abbastanza intenso da farlo voltare a colpo sicuro verso il punto da cui proveniva.
Lilith lo fissava con un’intensità tale da fargli credere quasi che volesse colpirlo con lo sguardo. Il vento le scompigliava i capelli, portando ancora il suo odore verso di lui, non indossava alcun cappuccio, ed aveva l’espressione più truce che le avesse mai visto in volto. Restava immobile e, controvoglia, fu Garfield ad avvicinarsi, facendo lo slalom controcorrente dalla parte sbagliata del marciapiede.
Talvolta qualcuno gli lanciava un’occhiata contrariata, probabilmente chiedendosi cosa volesse da quella strana ragazzina e perché lei lo fissasse a quel modo. Nessuno domandò nulla e lui non sentì la necessità di spiegare, ma il suo istinto animale percepiva l’ostilità di lei.
«Cosa c’è?» le domandò confuso, una volta che furono faccia a faccia.
Lei sbatté gli occhi e strinse i pugni. «Raven» asserì, cercando le parole. «L’hai ferita» affermò, portando una mano al petto per mostrargli da dove provenisse il suo dolore.
Garfield ebbe un moto di sconforto, ma lo scacciò, ricordando che era proprio per questo che aveva detto quelle parole; per ferire Raven quanto lei aveva ferito lui.
La reazione di Lilith a quel sentimento fu istintiva, quasi selvaggia. Gli occhi le scintillarono di rosso, l’oscurità le oscillò attorno e lei sollevò un braccio e lo scaraventò contro una vetrina con una sfera di oscurità familiare. Garfield infranse il vetro e sbatté contro alcuni manichini in esposizione, rotolando sul pavimento e rialzandosi alla svelta. La gente iniziò a gridare ed a fuggire in preda al panico, Lilith camminò verso di lui come posseduta, mentre alcune persone si rifugiavano nel retro del negozio.
Garfield tossì, agitò il braccio dolorante su cui era atterrato e domandò a Lilith: «Che diavolo ti sei messa in testa?»
Ma capì subito che c’era poco, in quel momento, della Lilith che aveva conosciuto. Era come rivedere Raven prima della sconfitta di Trigon; la stessa energia oscura che la muoveva e lo stesso sguardo demoniaco. Garfield non riuscì a comprendere cosa le avesse detto per scatenare questa reazione, e non aveva alcuna voglia di iniziare a combattere contro di lei. Evitò un altro attacco e saltò fuori dal negozio, decidendo che prima di riuscire a tentare di calmarla avrebbe dovuto prendere tempo per permettere alla gente di mettersi in salvo. Si voltò verso la strada, constatando che la gente era ancora in preda al panico, poi tornò a fissare dritto verso Lilith, che intanto stava caricando un fascio di energia nera da scagliargli addosso come se fosse una frusta. Garfield scartò di lato appena in tempo per essere preso solo di striscio, e quello di abbatté su un’auto, affondando nel tettuccio ed infrangendone parabrezza e finestrini.
«Ok, ora stai esagerando» affermò nervoso, alzandosi e sistemandosi in posizione d’attacco. Non aveva intenzione di usare contro di lei i suoi poteri, anche se la strada ora era sgombra, ma non poteva negare che la sua parte animale percepisse da lei una maggiore soglia di pericolo rispetto a quella che aveva percepito davanti a Jeremy alcuni giorni prima.
Il ragazzo era spaventato, lei era arrabbiata, ed alla fine Garfield avrebbe dovuto difendersi. Sentì le sirene della polizia in lontananza, si domandò se non sarebbe stato meglio togliersi l’anello e rivelare la sua identità di Titans, ma non voleva giocarsi la copertura e dare loro la possibilità di riconoscerlo anche senza il suo inusuale colorito verde. Saltò sul cofano di un’auto per sfuggire all’ennesima sfera di energia e, rammaricato, si decise a contrattaccare.
Non sarebbe riuscito a fermarla, se non ci avesse neanche provato. Le si lanciò addosso e la atterrò, le sirene si fecero più vicine e, mentre Garfield si distraeva nel vedere accorrere i poliziotti, Lilith riuscì a scollarselo di dosso. La vide sollevarsi ad alcuni metri da terra, poi prepararsi ad attaccarlo ancora ed i poliziotti puntarle contro le loro pistole.
Senza il suo colorito particolare appariva come un civile, rifletté alla svelta, e lei, con i suoi poteri, una minaccia per la sua incolumità. Per un attimo pensò di sfilarsi l’anello ed informare gli agenti del fatto che poteva cavarsela da solo, ma decise di provare un’altra strada, prima, e sollevò le mani per intimare ai poliziotti di restarne fuori. Era improbabile che lo facessero, ma lui li ignorò.
«Lilith, per favore!» le disse con tono duro. «Qualunque sia il problema questo non è il modo per affrontarlo»
Lei gli si avvicinò. «Hai ferito Raven per tua scelta. Nessuno deve fare del male a Raven»
Garfield sgranò gli occhi. «Mi dispiace, ma lei non è l’unica che sta male, in questa storia» ribatté. Lilith sferrò un’altra sfera di energia, Garfield si lasciò colpire e scivolò indietro strisciando sull’asfalto per diversi metri. «Non sono io che ho cominciato!» ribadì Garfield. «Io era felice di vederla, è lei che ha rovinato tutto!»
«Bugiardo!» ribatté Lilith. Lanciò un'altra sfera, ed il ragazzo scartò di lato per non essere colpita. Quella si schiantò contro una cassetta della posta, facendola saltare in aria e spargendo lettere per tutta la strada. «Tu non sai cosa hai fatto!» gridò, la voce gonfia di rabbia e tanto perfida da non sembrare neanche la sua. «Sì invece. Non posso continuare così, io le ho dato un mucchio di occasioni e lei le ha rifiutate tutte!»
«Solo perché è troppo presto!» ribatté Lilith. Sollevò una mano a mezz’aria, un colpo carico che però non lanciò mai. La rabbia di Garfield scemò in un istante, e con essa anche la furia di lei.
«Troppo presto? Che significa?» le domandò. Ma lei non rispose; pareva essere ritornata in sé all’improvviso, e si guardava attorno colpevole. Scesa a terra, cessando ogni ostilità davanti ai poliziotti ancora in allerta.
«Io… Mi dispiace» sussurrò a testa china. «Giuro che non volevo arrabbiarmi, ma Raven era così triste dopo aver parlato con te. Promettimi che non ti perderà, qualunque cosa succeda. Se dovesse accadere potrebbe perdere sé stessa»
Per Garfield la rivelazione fu un colpo dritto nel petto, e si rese conto di quanto le sue parole, dette per rabbia in uno sfogo improvviso, avrebbero potuto significare per lei. «Lo prometto» mormorò colpevole. «Lei non mi perderà mai, qualunque cosa possa succedere»
Lilith alzò lo sguardo sollevata, sorrise. «Grazie» mormorò.
Garfield le sorrise a sua volta, mentre con la coda dell’occhio intravedeva alcuni poliziotti avvicinarsi a lei per coglierla alle spalle. Solo allora si rese conto che erano entrambi circondati, ma non poteva permettere che la ragazzina venisse arrestata. Scartò in avanti, ed impedì ad uno degli uomini di coprirla con una rete di energia. «Vai via!» le urlò. «Scappa!»
Lilith si dissolse in una pozza nera, mentre altri due agenti lo afferravano ed ammanettavano.
Sorrise tra sé, pensando alle parole di Lilith. Il cervello era talmente in subbuglio che le parole degli uomini lo raggiunsero solo in seguito. «Lei è in arresto per intralcio alla giustizia. Metta le mani dietro la testa!». Il sorriso del giovane s'incrinò, dischiuse le labbra «Oh, andiamo. Sul serio?» ma l'agente gli puntò la pistola alla fronte, senza voler sentire ragioni. Garfield sbuffò. Questa volta Robin sarebbe diventato una vera belva.


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Salve gente. BOOM! Scrivetelo nelle recensioni, se questo capitolo vi piace, o vi faccio saltare come la cassetta delle lettere. BOOM!

P.S. Gli ultimi due righi sono opera di Digital, visto che a me non andava di scriverli XD

In attesa del prossimo capitolo, spero al massimo il mese prossimo, vi invito a fare una visitina alle fanfiction qui sotto:
L’Ombra nell’anima, di me, che sono Kojima Ayano
e, visto che ci sono, con gli stessi personaggi originali, c’è anche questa fic di Digital nella sezione d i Pretty Cure:
Heroes, di Makoto Hoshikawa.


Baci, Genius

  
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