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Autore: Feanoriel    21/09/2014    5 recensioni
la prima fan fiction che pubblico, spero sia gradita.
nessuno dei personaggi, delle ambientazioni, dei luoghi o delle situazioni è stato inventato da me, viene tutto dalla geniale penna di J.R.R. Tolkien. la mia fan fiction prende spunto da alcuni avvenimenti del Silmarillion, con particolare attenzione a questa frase "Maglor infatti si impietosì di Elros ed Elrond, e si affezionò loro, e anche in quelli nacque amore per lui, per quanto incredibile possa sembrare, ma il cuore di Maglor era esulcerato e stanco dal peso del terribile giuramento".
le informazioni usate per questa fan fiction vengono perlopiù dal Silmarillion, ma alcune provengono invece dalla HoME (History of Middle Earth), Volume XII, The Peoples of Middle Earth, con particolare attenzione al capitolo "The Shibboleth of Feanor".
[Gen fic per di più, ma con qualche accenno di Maglor/moglie e di Maedhros/Fingon]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Elrond, Elros, Maedhros, Maglor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 4

IN DIFESA DEI NOSTRI SOGNI

Into your lies
Hopeless and taken
We stole our new lives
Through blood and pain
In defense of our dreams
(30 Seconds to Mars- Kings and Queens)

Maglor intinse la penna nel calamaio e provò nuovamente a buttare giù una frase, a compilare una riga. Osservò per qualche attimo le parole che ne vennero fuori, poi si accorse che stridevano incredibilmente l’una con l’altra, che non erano nemmeno all’altezza di ciò che aveva realmente voluto esprimere con quelle. Tracciò una riga sopra di esse,e per qualche momento, frutto della propria frustrazione, gli venne voglia di stracciare il foglio e di strapparlo in mille pezzi. Ma la carta che aveva a disposizione era poca, e preziosa, così si limitò a passarci sopra nuovamente la penna. Poi sospirò e si appoggiò allo schienale della sedia, lasciando i pensieri liberi di vagare.

Non che avesse molto da fare. Nella torre dove lui e suo fratello avevano trovato rifugio i giorni scorrevano lenti e indolenti. Nessuno veniva a disturbarli in quell’angolo di mondo dimenticato da Eru, nessuna notizia di un possibile ritorno di Earendil giungeva dall’Ovest, e, benché l’ombra di Morgoth continuasse ad allungarsi, l’Oscuro Sire non aveva ancora sferrato alcun attacco ai pochi disperati che ancora si opponevano a lui.

Si pregusta il momento, il tiranno, pensò Maglor pieno di astio. Crede già di essere il padrone di Arda intera, di potersi sedere sul trono di Manwe e dichiararsi già Signore dell’Universo al posto di Iluvatàr. Questa è solo la quiete prima della tempesta, in cui il despota fa la conta delle sue forze, e si gode la quiete, prima di riversare i suoi abominevoli eserciti sulla Terra di Mezzo.

La frustrazione dei due fratelli era rapidamente cresciuta, nel sapere che uno dei gioielli di loro padre era disperso da qualche parte nel vasto e immenso oceano, e gli altri due ancora saldamente incastonati sulla corona ferrea di Morgoth, come lo erano da ormai più di cinquecento anni. Come potevano recuperarli? Non c’erano riusciti quando erano ancora in sette, e loro padre era vivo, ed erano a capo di un immenso esercito, potevano farlo ora che erano solo in due, stremati e braccati, ridotti a fuorilegge quando un tempo erano tra i più grandi dei principi degli elfi?

Nel ripensare a Morgoth, un odio immenso e bruciante lo invase. Goditi pure i gioielli di mio padre, vile tiranno, Nero Nemico del Mondo, orrido cancro della Creazione che non sei altro, pensò con rabbia. Varda ha decretato che quelle gemme sono tra le cose più pure e immacolate che esistano. Che il loro contatto ti bruci le carni, che ti causino come e più dolore di quello che il fuoco del tuo drago causò a me.

Ma, una volta pensato questo, Maglor sospirò e si prese la testa fra le mani. Avrebbe potuto maledire Morgoth e il destino crudele tutto il tempo che avesse voluto, fino a farsi calare la voce, ma questo non avrebbe cambiato di una virgola la sua situazione. Non c’era niente, niente che lui e Maedhros avrebbero potuto fare per rovesciare i Thangorodrim e scacciare Morgoth Bauglir dal suo trono sotterraneo, e svellere le gemme che erano in loro diritto dalla sua nera corona. Ci avevano provato per cinquecento anni, tra l’Assedio di Angband e le grandi battaglie del Beleriand, perché avrebbero dovuto riuscirci ora?

Nel tentativo di combattere quell’opprimente senso di impotenza che gravava su di loro, i due fratelli avevano deciso di occupare la propria giornata. Maedhros, che non riusciva a star chiuso lì dentro, spesso prendeva con sé il suo cavallo e la sua spada, e si inoltrava nei boschi e correva per le piane, talvolta andando a caccia, talvolta in ricognizione: non si era mai troppo sicuri con l’ombra di Morgoth che dal Nord calava lenta ma inesorabile, uno spicchio per volta, portando con sé le sue immonde schiere. Maglor, che era di tutt’altra pasta rispetto a suo fratello, preferiva rimanersene nella torre, esercitandosi con l’arpa, eseguendo a memoria tutti i canti che conosceva, o che aveva personalmente composto, oppure provando inutilmente, almeno finora, a gettare sulla carta qualche parola, qualche nota dei brevi frammenti di ispirazione che ogni tanto attraversavano la sua mente, radiosi e improvvisi come una cometa, e altrettanto rapidi a scomparire.

Non sapeva dove iniziare. Aveva ben chiara in mente l’idea di come avrebbe dovuto essere il suo poema, qualcosa che narrasse di come i Noldor, fulgidi come stelle quali erano stati in Aman, fossero così repentinamente precipitati nelle tenebre, sul fondo di un oscuro e cieco abisso dal quale guardavano disperati verso ciò che avevano perduto, potendo solo scorgere un pallido fantasma della luce che un tempo era stata loro così vicina.

Maglor sospirò. Era la Caduta, la loro Caduta quella di cui voleva parlare, quella che aveva decretato le loro miserie e i loro dolori, per quanto inizialmente lui e i suoi fratelli si fossero rifiutati di ammettere che una cosa del genere fosse avvenuta realmente. Ma mano a mano che la maledizione di Mandos si era abbattuta, implacabile, sui Noldor e sulle loro speranze, un dubbio oscuro, venefico e strisciante, si era lentamente fatto strada nel suo cuore. La Caduta, sì … ma quando esattamente essa era iniziata? Quando la Lunga Notte di Morgoth aveva avvolto il Reame Benedetto? O prima, molto prima, nella luce e nella benedizione di Aman, quando suo padre si era attardato lunghe ore nella sua fucina, nel tentativo di dare forma con le proprie mani a ciò che albergava nel suo cuore e nella sua anima?

Era quello che lo bloccava: l’inizio. Da dove mai sarebbe partita la sua storia? O forse non c’era un inizio adatto, pensò, poiché tutte le storie partono dall’Ainundale, da quando l’Uno sedeva solo nel Vuoto?

Scacciò quel pensiero, fissando affranto il modo in cui i rami di quercia si agitavano fuori dalla finestra. Inutile, era inutile. Non gli veniva in mente nulla che potesse ricondurlo all’inizio di tutto, in quei giorni lontani e ormai quasi obliati. I suoi pensieri continuavano a tornare al massacro dell’Arvernien, al fuoco dei roghi che appestava l’aria di mare, i corvi che spiegavano le loro immonde ali in cerca di banchetti, al sangue dei suoi fratelli. Prese un profondo respiro.

Ancora una volta, il suo sguardo cadde sulla porta della stanzetta dove i bambini erano rinchiusi. Erano ormai passati diversi giorni da quando li avevano portati lì, e il loro pensiero continuava insistentemente a rivolgersi a loro. Era certo un singolare caso, rifletté tra sé il secondogenito dello Spirito di Fuoco, che i due piccini si somigliassero tanto come si erano assomigliati Amrod e Amras, nonché Eluréd ed Elurìn. O forse non era un caso, ma un segno? L’avvertimento di una svolta nella loro vita sempre uguale, di un cerchio che si sarebbe finalmente chiuso? Poteva forse esserlo? Poteva per una volta, nella sua vita dannata e disperata, osar finalmente abbracciare la speranza?

Non sapeva nemmeno esattamente come definire ciò che provava. La compassione e il rimorso avevano frenato la mano sua e di suo fratello dal commettere un crimine atroce. Da quel momento, Maglor non riusciva a levarsi dalla mente la sensazione che forse poteva osar provare qualcosa che ormai gli pareva dimenticato e sepolto da tempo: la speranza. Nel corso della sua vicenda, preso tra la maledizione di Mandos e l’autoinflitta condanna al Buio Eterno, l’unica speranza per lui di essere finalmente libero da quel peso che lo opprimeva era di recuperare i Silmaril. Delle gemme di suo padre non ne aveva visto neppure lo scintillio, ciò nonostante …

Non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di aver scorto una nuova via, che una porta si fosse aperta, che qualcosa di nuovo si fosse fatto breccia dentro di lui.

Era  per quello che il suo pensiero indugiava sempre più spesso sui due bambini. A tal punto che aveva chiesto al fratello di poter essere lui ad occuparsi di loro. Era lui che gli portava i pasti, nonché l’unico che i due piccoli vedessero. Non sapeva bene definire a cosa questo li avesse portati:  certo i piccini non si fidavano ancora di lui, ne avevano preso alcuna confidenza, ma sembravano nettamente preferire la sua presenza a quella di Maedhros, di cui avevano un terrore viscerale.

I tempi in cui badava ai suoi fratellini più piccoli, o  al suo unico nipote, il figlio di Curufin, erano ormai così remoti e distanti nella sua memoria, da conservarne solo scarsi e sporadici ricordi, e non aveva la più pallida idea di come rapportarsi con un bambino. Nondimeno, si sentiva in dovere di provare, con il mezzo che gli era sempre stato più congeniale: la musica. Seduto di fronte alla porta della loro cella, aveva eseguito un grande numero di canti, alcuni imparati in gioventù, la maggior parte composti da lui personalmente, certo che sarebbero stati ascoltati. Aveva eseguito ogni tipo di canzone, dalle ninna nanne che un tempo sua madre gli cantava,ai sonetti che amava scrivere per sua moglie, agli epici lai che aveva composto dopo la sua venuta nel Beleriand. Sperava che quelle melodie potessero essere state in qualche modo apprezzate dai due bambini, che non erano ancora usciti dalla loro cella dal loro arrivo in quelle regioni. Maglor strinse le labbra. Vigliaccheria ingiustificata, come altro avrebbe potuto definire il fatto di tenere due bambini rinchiusi in quel modo? In fin dei conti, cosa avrebbero potuto fare due bambini soli, indifesi e disarmati? Cercare di scappare? Lui e suo fratello li avrebbero recuperati ben presto. E dove avrebbero potuto andare? Finire tra le grinfie degli orchi che sempre più spesso scorrazzavano per il Beleriand, andando incontro a un destino peggiore che alla morte?

Maglor sospirò nuovamente. Tanto l’ispirazione non gli sarebbe arrivata comunque. Era troppo disilluso, troppo rancoroso, troppo amareggiato per descrivere adeguatamente il Meriggio di Valinor, i giorni persi ed obliati della sua innocenza,e la rabbia e il dolore provati sulla pira di Amrod e Amras erano ancora troppo vivi nella sua mente perché non tingessero di cupi sentimenti quei ricordi dorati. Si alzò in piedi e si sgranchì un attimo le membra, prima di togliere lo sbarramento alla porta e accostarla.

-Elros? Elrond?- chiamò piano, sperando di non spaventarli.

I bambini si voltarono a guardarlo. Uno dei due (non avrebbe saputo però identificarlo, ancora non li distingueva)era accovacciato sul letto, pareva dormisse, l’altro era seduto sul pavimento, che guardava fisso fuori dalla finestra, lontano. Vorrebbe andarsene via, pensò Maglor. E chi può biasimarlo per questo?

Erano ancora spaventati da lui, glielo lesse chiaramente negli occhi: infatti non accennarono né ad avvicinarsi né a rivolgergli la parola. Maglor si chinò lentamente, accovacciandosi fino a che non furono alla stessa altezza.

-Come va?- chiese, parlando piano, a bassa voce. Suonava stupido, pensò amaramente, e perfino crudele chiedere qualcosa del genere, ma non aveva altra idea di come approcciarsi. In fin dei conti, cosa avevano da dirsi esattamente?

Con sua grande sorpresa, però, uno dei due piccoli, quello seduto sul pavimento, gli parlò.- Sei sempre tu che canti, vero?- disse volgendo lo sguardo verso di lui.

Maglor, preso alla sprovvista, annuì. Non si aspettava una domanda del genere, in realtà non sapeva nemmeno cosa si aspettasse esattamente, però, se la sua musica aveva in qualche modo fatto breccia nei due bambini, non aveva che da rallegrarsi.

-Perché lo fai?- lo incalzò il piccolo. Non smetteva di guardarlo, gli occhi che rilucevano nel faccino smunto come stelle su uno stagno al crepuscolo, grigio e limpido.

Bella domanda, rifletté Maglor tra sé e sé. Perché lo faceva? Perché non aveva altro modo per comunicare, altro modo per esprimersi. Perché la musica che creava conteneva parte della sua anima, così come i Silmaril avevano contenuto parte dell’anima di suo padre, e solo così poteva essere davvero sincero, davvero libero, davvero svincolato da tutto.

Forse perché era un artista, ma gli pareva di aver vissuto la sua intera vita come se qualcosa in lui s’annotasse scrupolosamente ogni sua esperienza, ogni sua emozione, per poi adornarle di parole sublimi e dolci note. Da sempre, fin da che avesse memoria, la sua vita si era riversata nelle sue canzoni, la sua gioia, il suo dolore, la rabbia come la passione erano diventate note che nascevano sulle corde pizzicate della sua arpa. Quando suo padre aveva tanto fieramente impugnato la spada, giurando vendetta contro Morgoth, dichiarandosi pronto a condurre una guerra senza quartiere contro il Nemico, aveva pensato a come quelle parole sarebbero suonate in un poema epico che avrebbe infiammato i cuori di coloro che sarebbero venuti, così come avevano infiammato il suo. Quando poi Feanor era caduto, la sua spoglia che si consumava di un fuoco che si era spontaneamente levato dalle sue carni, la pira di un Re che aveva arso il mondo, il vuoto che egli aveva lasciato era stato colossale , immenso, troppo grande per essere tollerato, dato ciò che egli aveva fatto, ciò che la sua presenza aveva significato, e la sua morte non era stata meno destabilizzante che la morte della luce dei Due Alberi, ma qualcosa in lui si era acceso, pensando che avrebbe potuto finalmente cantare del vero dolore, della vera perdita. Così come aveva potuto cantare del vero amore e dell’autentica passione quando, nei boschi di Aman, aveva incontrato la fanciulla che aveva preso il suo cuore, e le aveva dedicato le più dolci rime, in un tempo ormai fin da troppo dimenticato. Perfino quando, steso nella tenda dei guaritori, inerme e febbricitante, le carni che gli bruciavano là dove il fuoco di Glaurung le aveva lambite, si era chiesto quali note avrebbero potuto descrivere la funesta avanzata del Drago, facendo tremare i cuori coloro che avrebbero udito il canto di quelle epiche gesta, nei secoli a venire. Alte e acute erano state le note della sua arpa nella rovina del Doriath, mentre i corpi privi di vita dei suoi fratelli ardevano sulla pira. E così ora faceva: si chiese come avrebbe potuto suonare in musica quel momento, che tipo di parole avrebbe scelto per descrivere quel momento. Il suo destino e quello dei due bambini si era intrecciato irrimediabilmente, non avrebbe potuto negarlo, così come due melodie diverse si intrecciano in una sola canzone. Ma il canto di quei due bambini, quale sarebbe stato? Sarebbe stato un canto di dolore e disperazione, destinato a finire in tragedia, o un canto di riscatto, di speranza, che sarebbe finito in gloria?

Gli aquilotti , quando cadono dai nidi e finiscono tra gli artigli dei lupi, si chiese, potranno mai volare? Potranno mai questi bambini osare sperare di avere un futuro? Oppure la rovina e l’ombra li attende?

No, non può finire così, si disse poi. Io e Maedhros abbiamo avuto pietà di loro. Non può essere tutto questo privo di un senso, non può significare nulla tutto il loro dolore, il mio, non può non valere niente tutto ciò! E io ho intenzione di dimostrarlo. Se c’è un’altra via, io la troverò. Se c’è un significato, io lo indovinerò.

Forte di questo pensiero, diede un’occhiata al bambino:- Vuoi saperlo? Non è facile da spiegare. Forse un giorno lo capirai.- il bambino non disse più nulla, ma a Maglor venne improvvisamente in mente un’idea:- Un momento .. voi due sapete il Quenya? Non mi è parso.

Non si sarebbe stupito se avesse scoperto che fosse così. In fin dei conti, perché la bisnipote di Thingol avrebbe dovuto insegnare ai propri figli ciò che il suo antenato definiva con disprezzo la lingua degli assassini?

La risposta del bimbo lo sorprese.- Un po’ sì- esitò un attimo, e tenne il capo basso, parlando con un filo di voce. – La mamma diceva che era la lingua di papà, e voleva farcela imparare. Non la parlavamo tanto .. ce la stava ancora insegnando … - smise immediatamente di parlare quando Maglor lo fissò con sguardo penetrante, come se temesse di aver detto qualcosa di sbagliato e se ne pentisse.

Maglor in quel momento si ricordò di colpo che i due bambini non avevano mai conosciuto loro padre, che aveva preso la via del mare quando loro erano troppo piccoli per ricordarlo. Questo lo riportò al pensiero di suo padre. Ormai si era quasi abituato, per il rancore e la rabbia di coloro che  maledivano il nome di Feanor, ad associarlo alla sua dannazione e alla sua rovina, e aveva quasi ormai obliato i ricordi della sua infanzia, dove lui c’era, e c’era sempre stato. Chiuse per un momento gli occhi, ed eccolo lì, suo padre, che gli concedeva uno dei suoi rari sorrisi, quando aveva scoperto quali talenti si celassero nel suo secondogenito, la prima volta che lo aveva udito cantare. Perché, padre?, pensò,  sentendo gli occhi riempirsi di lacrime, ma quel ricordo svanì repentino com’era arrivato, lasciandolo solo.

Improvvisamente, però, ebbe un’idea. È mai possibile, si disse, che io, Makalaure figlio di Feanàro, io che sono il più abile cantore della mia stirpe, figlio di colui che era massimo tra i sapienti degli Eldar, il cui amore per la conoscenza era tale che fu lui a perfezionare le Tengwar, lasci che questi due piccoli rimangano ignoranti della mia lingua madre? E non è forse nel loro diritto imparare la lingua del loro padre? Non sono forse i figli di Earendil, principe di Gondolin?

Preso in questi pensieri, non si accorse che i bambini lo fissavano con timore, evidentemente temendo di aver fatto qualcosa che lo avesse contrariato. Li vide arretrare.

-Un attimo!- cercò di parlare con la sua voce più carezzevole, quella che aveva usato quando sua madre gli faceva tenere in braccio i fratellini più piccoli, quando erano appena nati. – Sentite, vorrei farvi una proposta .. no, non abbiate timore! Non intendo farvi del male. Si tratta del Quenya.- in qualche modo, quell’argomento sembrò rassicurarli, perché gli si avvicinarono finché furono a portata d’orecchio.- Ebbene, vi interesserebbe continuare il vostro studio? Il Quenya è la mia lingua madre, potrei insegnarvelo.

Ci fu un minuto di silenzio. I due bambini lo fissarono senza dire nulla, gli occhi che luccicavano debolmente alla luce delle torce, resi lucidi dalle troppe lacrime.

-Non è ciò che vorrebbe vostra madre, forse? Che imparaste la lingua del popolo di vostro padre .. – dette queste parole, si odiò per averlo fatto. Quanto suonava ipocrita, e crudele, dire una cosa del genere, agli stessi bambini che lui e suo fratello avevano strappato dalle braccia della madre? Che il fuoco di Glaurung mi avesse consumato, e che Thorondor non avesse fermato la mano di Findekàno, quando stava già per scoccare una freccia contro il cuore di Maitimo, ecco cosa avrebbe voluto Elwing. Che potesse continuare a stringere a sé i suoi piccoli, e vederli crescere, e diventare orgogliosi e possenti, e che mai e poi mai cadessero nelle grinfie degli uccisori della sua famiglia.

Con sua grande sorpresa però i due bambini, dopo essersi scambiati uno sguardo d’intesa, annuirono.- Sì, per noi va bene.

Maglor prese un sospiro di sollievo. Aveva temuto di aver detto qualcosa di sbagliato.- Molto bene, allora … Cominceremo quanto prima, addirittura domani, se ci sarà possibile- fece per aggiungere qualcos’altro, ma cambiò idea, e uscì fuori dalla stanzetta silenziosamente. Si chiese se sbarrare la porta o meno, ma poi decise di non farlo. Di cosa mai avremmo paura?, si chiese amaramente. Di due fanciulli indifesi?

Si sedette quindi sulla sua sedia, le mani unite e la fronte poggiata contro di essa. Ancora l’ispirazione continuava a sfuggirgli, ma almeno aveva un modo per tenere la mente occupata. Maedhros sarebbe tornato tra poco. Come avrebbe reagito, una volta che lo avesse messo al corrente delle sue intenzioni?

 

NOTE DELL’AUTRICE

Salve a tutti, questo capitolo è poco più che un breve intermezzo, spero comunque sia gradito. Ci tenevo comunque a precisare alcune cose: la parte dove si parla della moglie di Maglor non è farina del mio sacco: il Professore in una nota della History of Middle Earth ci dice che era nelle sue intenzioni che, tra i figli di Feanor, oltre a Curufin anche Caranthir e Maglor avessero una sposa. Mi sono permessa di ricamarci un po’ sopra.

Riguardo alla parte dove Maglor parla di Glaurung, sappiamo che egli , durante la Battaglia della Fiamma Improvvisa, scese in battaglia contro il Drago, dal momento che passò nel Beleriand proprio tramite la Breccia di Maglor, e che in questa battaglia si procurò tremende ustioni che non guarirono mai del tutto.

Altre cose degne di nota: Maitimo è l’amilesse (nome dato dalla madre) di Maedhros, dovrebbe significare più o meno “il ben fatto”, mentre Findekàno è l’ataresse (nome dato dal padre) di Fingon, primogenito di Fingolfin.
Grazie a tutti coloro che mi hanno seguito fin qui, e un ringraziamento speciale va a Melianar, Tyelemmaiwe, Leila91 e Ghevurah per le splendide recensioni che hanno lasciato. spero continuerete a seguirmi, grazie. 

 

   
 
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