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Autore: HannibalLecter    23/09/2014    2 recensioni
A lei piace lui e lei piace a lui.
A lui piace lei e lui piace a lei.
Perfetto no?
Peccato che entrambi si ostinino ad ignorare questa faccenda continuando tranquillamente il loro percorso che si snoda lungo due rette parallele destinate a non allontanarsi mai ma neanche ad incrociarsi mai, o forse no?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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«Mia madre si è scandalizzata e dopo vari rosari e benedizioni con l'acqua santa ci ha supplicato, anzi sarebbe meglio dire ordinato, di sposarci in fretta», ci spiegò allegro Alberto guardando felice negli occhi la sua futura sposa.
Nella loro casetta aleggiava una gioia contagiosa e nessuno di fronte allo spettacolo di quella coppia innamorata poteva restare insensibile.
Cecilia sarebbe stata così la prima di noi quattro a convolare a nozze.
E il lieto evento avrebbe avuto luogo sul lago di Como tra poco più di un mese.
Non che fossi sorpresa, anzi, avrei scommesso le mie scarpe blu elettrico di Prada che Ceci sarebbe stata la prima.
Di sicuro io e Veronica saremmo state le ultime o non forse non avremmo neanche mai portato una fede all'anulare sinistro.
Veronica amava la sua indipendenza e non avrebbe mai rinunciato ad essa per legarsi in modo definitivo con qualcuno.
E io, bé io non credevo molto nel matrimonio. So benissimo che non si può pensare di costruire una vita insieme pensando già ad un eventuale fallimento e conseguente separazione, ma ero convinta che il legame matrimoniale, pur essendo uno stupido foglio di carta, portasse con sé molti più svantaggi che altro. Matrimonio significava ricoprire d'oro l'avvocato divorzista, abbassarsi a ricatti meschini e litigi infantili per stabilire a chi lasciare cosa.
Ovviamente se un matrimonio funzionava niente di tutto ciò accadeva però i vantaggi dati dal 'vi dichiaro marito e moglie' non erano di molto maggiori a quelli di una semplice convivenza.
In tanti avevano cercato di contraddire questa mia convinzione e di confutare la mia tesi, ma tutti avevano fallito e, di fronte alla mia testardaggine, si erano dichiarati sconfitti.
Veronica lanciò un urlo che squarciò la calma serena del soggiorno illuminato dalla tenue luce del pallido sole di marzo.
«Cecilia! Come posso prepararti un vestito da principessa in così poco tempo?!», domandò disperata passandosi le mani tra i capelli.
I nostri volti da spaventati per il suo grido improvviso si rilassarono e tutti noi scoppiammo a ridere di fronte a quella reazione esagerata.
«Tesoro, la parola chiave deve essere: semplicità», dichiarò sorridendo calma Ceci, «Sbizzarisciti piuttosto nel disegnare gli abiti per le mie tre meravigliose damigelle!», esclamò cogliendoci di sorpresa.
A quella notizia io, Chiara e Veronica lanciammo degli urletti estasiati e ci precipitammo nella sua direzione, sommergendola di abbracci e baci.
«Ragazze andateci piano altrimenti potrei diventare geloso», ridacchiò divertito Alberto.
Veronica tornò a sedersi sul divano e, magicamente, nel giro di pochi secondi, sulle sue gambe si era materializzato un bloc-notes.
«Ceci hai già un'idea? Modello, lunghezza, tessuto, colore?», domandò mangiucchiando il cappuccio della penna a sfera.
Cecilia sorrise e sparì verso la sua stanza.
Due minuti più tardi Veronica teneva tra le mani un ritaglio di giornale e lo osservava attenta, sotto lo sguardo speranzoso di Cecilia, che nel frattempo blaterava ininterrottamente: «So che non è propriamente un vestito da sposa ma vi ricordate? Abbiamo sempre detto che ci saremmo sposate in un abito di Elie Saab. Non posso acquistarne uno perché manca la materia prima ma potrei averne uno simile. Credi sia possibile? Mi piacerebbe fosse bianco con le varie decorazioni sui toni del blu».
«Ovvio che posso farlo cara! Sono o non sono una stilista?», rispose sicura Veronica.
Cecilia lanciò un urletto e le stampò un bacio sulla guancia.
«E per voi tre», sussurrò assottigliando gli occhi, «ho in mente qualcosa di favoloso!».
A nulla servirono le mille moine e i biscotti al cioccolato con cui provammo a corromperla per farci rivelare i suoi piani.
Ce ne andammo verso mezzanotte e io salii in macchina rapidamente. Per essere metà marzo faceva ancora un freddo polare. Accesi il riscaldamento e la radio, canticchiando tra me.
Lo facevo spesso, soprattutto quando dovevo guidare di notte: la musica era un ottimo modo per scongiurare pisolini al volante.
Dopo pochi minuti, grazie alle strade semi deserte, parcheggiai di fronte al mio palazzo e scesi dall'auto.
Attraversai la strada, stringendomi nel cappotto alla ricerca di un po' di calore.
Solo allora mi accorsi della figura seduta sul gradino davanti al portone d'ingresso.
Rallentai e avanzai incerta.
Chi poteva essere? Un senzatetto? Non avevo mai visti in quella zona. Un mio vicino rimasto chiuso fuori? Bastava suonare ad un altro vicino per farsi riconoscere e chiedere di aprire il portone.
Non appena giunsi in prossimità dell'ingresso la figura si alzò e io, riconoscendola, mi bloccai, senza parole.
«Alessandro...», mormorai non credendo ai miei occhi.
Cosa ci faceva a mezzanotte seduto davanti a casa mia? C'erano tre gradi!
«Dovevo parlarti», si scusò lui abbassando gli occhi.
Fissai le sue mani tremanti, le braccia conserte, come a cercare un po' di tepore, gli occhi lucidi.
Sospirai e aprii il portone, scostandomi per farlo entrare.
Il tragitto in ascensore fu silenzioso.
Gli feci segno di accomodarsi sul divano mentre mi sfilavo il cappotto e le scarpe.
«Da quanto tempo eri lì fuori?», chiesi infine, spezzando quel silenzio irreale.
«Dalle otto, forse prima...»
Spalancai gli occhi incredula.
Aveva passato più di quattro ore al freddo e al gelo solo perché doveva parlarmi. Quell'uomo doveva essere pazzo!
«Avrai rischiato di morire assiderato», osservai ancora scioccata da quella rivelazione, «Vuoi una coperta?».
Lui scosse la testa: «Ormai ho freddo fin dentro le ossa. Non importa, alle fine sei arrivata...».
Scossi la testa sempre più incredula, continuava a mettersi in secondo piano, ansioso di parlarmi di chissà che cosa.
Ok, non potevo fingere di non sapere perché fosse lì. Sospettavo riguardasse i due incidenti nei quali erano rimaste coinvolte le nostre labbra.
«Al gelo nelle ossa c'è un unico rimedio: una bella doccia calda», esclamai decisa.
Lui alzò le sopracciglia malizioso e io sbuffai: «Non farti strane idee. Mi sento solo responsabile, in fondo se sei ridotto così è anche colpa mia. Vieni...», specificai, facendogli segno di seguirmi.
Gli indicai il bagno e gli diedi un asciugamano pulito.
«Io sono in cucina», gli dissi lasciandolo alla sua doccia calda.
Riempii il bollitore e lo accesi.
Mi arrampicai su una sedia per riuscire a raggiungere la scatola con le bustine di the.
Sentivo l'acqua della doccia scorrere intervallata da pause, durante le quali la voce di Alessandro, intenta a canticchiare una canzone dei Beatles, raggiungeva la cucina.
Era strano. Quella situazione. Quell'uomo. Quella sensazione che stava provando. Tutto ere insolito.
Avevo passato gli ultimi nove mesi in solitudine, tra cenette veloci e serate trascorse sul divano con coperte e serie tv.
La sola consapevolezza di non essere sola in quell'appartamento mi faceva sentire bene.
Con Nicola tutto era stato veloce: incontro, scintilla, uscite, sesso, convivenza, rottura.
Dopo un mese condividevamo già tutto: appartamento, letto, pranzi.
Forse quella rapidità ci aveva danneggiato, ci aveva fatto perdere la possibilità di godere delle piccole cose, di gustarle pienamente, con lentezza e più volte. Era stata una corsa contro il tempo, ansiosi di raggiungere chissà che cosa. E come quando corri, tutto è sfuocato, i contorni si disperdono e i particolari sfuggono.
Mi mancava però avere qualcuno con cui, mano nella mano, andare piano ed ammirare le tante cose belle che la vita ci avrebbe riservato.
«Grazie mille!»
Mi voltai di scatto e per pochi attimi il mio sguardo restò fisso nel suo.
Distolsi gli occhi rapidamente e portai le tazze di the in soggiorno, dove, dopo esserci seduti sul divano, gliene porsi una.
«Hai una doccia enorme! Occupa metà bagno...», osservò sorridendomi.
Era venuto qui per aprire un dibattito sulle dimensioni della mia doccia?
Il suo comportamento mi disorientava e ancora di più lo facevano i suoi capelli bagnati e la sua camicia leggera, che gli lasciava scoperta una porzione di petto.
«Ho una vera passione per la doccia, se potessi passerei la mia vita lì dentro...», risposi arrossendo.
Non mi ero mai sentita così stupida. Io e la mia patetica passione per la doccia.
«Interessante. Solitamente le persone come passioni hanno la cucina o uno sport. Avrei dovuto immaginare che tu fossi originale anche in questo», mormorò pensoso.
Era un complimento o un insulto velato?
Lo fissai senza ribattere, stringendo spasmodicamente tra le mani la tazza colma di the.
Lui sospirò e si passò le mani tra i capelli, chinandosi poi ad appoggiare la sua tazza sul tavolino accanto al divano.
Lo faceva apposta? I miei ormoni ormai erano impazziti ed ora stavano ballando una scatenata rumba. I suoi occhi erano ancora più verdi del solito, sembravano quasi fosforescenti.
Faceva uso di lenti a contatto colorate? Quel verde era quasi innaturale. Era ammaliante e io ne ero come incantata.
Lui mi sfilò dalle mani la tazza e si avvicinò piano.
Sempre lentamente sollevò una mano e mi mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Senza fretta la sua mano raggiunse la mia bocca e leggera ne tracciò il contorno.
Io ero come in trance; ero frastornata dal martellare assordante prodotto dal mio cuore e dalla tempesta di emozioni aggrovigliate che si stava scatenando dentro di me.
Anche lui sembrava aver deciso che l'andar piano era senza dubbio la soluzione più saggia.
Se fossimo già passati alla fase dello strapparci i vestiti di dosso mi sarei persa l'espressione quasi sognante dei suoi occhi, il leggero tremolio delle sue dita contro le mie labbra e il suo respiro accelerato.
Senza fretta mi avvicinai a lui e, finalmente, passai lieve una mano tra i suoi capelli ancora umidi, fino ad arrivare al collo.
Come se fossero dotate di vita propria le mia mani trovarono autonomamente, senza bisogno di comandi da parte del mio cervello ormai ko, la strada per il suo petto.
Tracciai con le punta delle dita un semicerchio alla base del collo, scendendo pian piano, fino a dove il tragitto non veniva interrotto dalla camicia abbottonata.
Slacciai lentamente i primi due bottoni e continuai il mio cammino lungo quel meraviglioso petto caldo.
Quasi rapita appoggiai i palmi delle mani aperte sul suo petto.
Era bollente. Mi avvicinai e appoggiai le labbra sopra il suo cuore, tra le mia mani.
Mi scostai senza fretta, con l'intenzione di dedicarmi un po' a quell'appetitoso collo solcato da decine di vene azzurrine.
Non raggiunsi mai il suo collo perché le mie labbra si imbatterono prima nelle sue.
Mi fece appoggiare la schiena sul divano mentre lui si allungava sopra di me, sempre senza lasciare le mie labbra.
Mi aggrappai al suo collo cercando di recuperare un po' di lucidità. Era come se stessi naufragando, come se fossi sott'acqua. Ma non c'era altro posto al mondo in cui sarei voluta essere in quel momento.

Allungai pigramente le gambe indolenzite e aprii piano gli occhi, sorpresa di trovare la stanza già invasa dalla luce del sole, filtrata attraverso le persiane chiuse.
La vera sorpresa però fu il corpo a cui ero semi avvinghiata.
Mi sollevai di scatto, come scottata.
«Buongiorno», biascicò Alessandro.
Fissai stupita quel corpo perfetto sdraiato nel mio letto e cercai di riavvolgere mentalmente il nastro.
Ieri sera. Lui davanti alla porta. Doccia. The. Baci e pomiciata bollente sul divano. E poi?
Alessandro si appoggiò sorridente ai cuscini e mi accarezzò una guancia: «Qual è il problema?»
Domanda corretta. Qual era il problema? Mi sentivo bene e, per quanto mi costava ammetterlo, mi era piaciuto svegliarmi in compagnia.
«Alessandro...noi abbiamo...ehm ecco...noi...», balbettai non sapendo se porre una domanda diretta o fare un giro di parole.
«No», mi rispose tranquillo, «Abbiamo deciso di andare piano, una cosa alla volta».
«Ah», mormorai sorpresa.
Quell'uomo era da sposare! Dove lo scovavo un altro che aspettava a fare sesso, nonostante la serata fosse iniziata in modo muy caliente, solo per dar retta alle mie stupide idee sull'andar con calma?
«E poi sono certo che se fosse successo te lo saresti ricordato», constatò ridacchiando malizioso.
Gli diedi un pugno scherzoso sulla spalla: «Presuntuoso! Magari a letto eri stato così noioso che io me ne ero dimenticata...», ipotizzai ridendo a mia volta.
Lui si alzò repentinamente e schiacciandomi contro i cuscini.
«Oh ti posso assicurare che sono tutto fuorché noioso...», sussurrò suadente prima di appoggiare le sue labbra sul mio collo.
Cercai di non farmi trascinare nuovamente in quella sorta di limbo onirico, nel quale scivolavo ogni volta che mi baciava.
«Non abbiamo parlato però...», lo fermai ricordandogli il motivo della sua quasi ipotermia.
Lui si staccò dalla mia pelle mugugnando e mi guardò serio.
«È colpa tua! Sei così bella da costituire una fonte di distrazione continua!», mi accusò imbronciandosi.
Arrossii e mi chinai a posargli un veloce bacio sulle labbra.
«Non sono sposato, non ho figli, ne sono stato promesso sposo a chissà quale principessa quando sono nato», iniziò e, dopo aver visto il mio sopracciglio alzato, si giustificò, «Magari lo avevi pensato! Ti ho già raccontato la triste vicenda di mio padre e del suo schifosissimo snobismo. Gli uomini Grimaldi, oltre ad essere tutti notai, sono tutti sposati a varie contesse o donne con qualche polveroso titolo nobiliare. Al liceo mi fidanzai con una mia compagna di classe, figlia del bidello, alunna del mio liceo solo grazie ad une borsa di studio. Avevamo sedici anni e la nostra era la tipica storiella adolescenziale di poco conto, ma allora, ai miei occhi inesperti, appariva come il grande amore della mia vita. Un giorno la portai a casa, mamma aveva insistito tanto. Mio padre si comportò in modo orribile; la umiliò e si prese gioco di lei e delle umili professioni dei suoi genitori. Io non riuscii a difenderla e non mi perdonai mai questa mia debolezza. Fu allora che iniziai a capire che persona di poco valore fosse mio padre e che la nobiltà d'animo è mille volta più preziosa di quella materiale, frutto di un'eredità», si fermò e chiuse gli occhi.
Strinsi la sua mano tra le sue per infondergli un po' di conforto.
«Per questo ti ho allontanato, per questo sono scappato: per paura di ferirti», mormorò piano.
Afferrai il suo mento e lo costrinsi a guardarmi: «Tu non sei come tuo padre e se mi ferirai non sarà di certo colpa dell'essere suo figlio. Tu sei nobile d'animo», affermai certa sorridendogli.
Lui fece un timido sorriso e io lo abbracciai stretto.
«Queste tue belle parole mi confortano ma non cambiano il fatto che sono figlio di una sorta di essere freddo ed insensibile, da cui voglio proteggerti, almeno finché riuscirò», sospirò triste, «Mamma vorrà conoscerti prima o poi e a lei non potrò dire di no. Lei è una persona luminosa e con questa sua luce ha sempre cercato di limitare la negatività di mio padre».
Doveva essere terribile nascere e crescere in una famiglia, nella quale il padre si comportava da despota e trattata con disprezzo quasi tutti, ritenendoli inferiori.
Pensai con affetto a papà, la creatura più mite di tutta la terra, sempre perso nei mondi che egli stesso creava.
«E tu prima o poi dovrai confrontarti con i coniugi Visconti, ma vedrai che sarà piacevole...»
Lui mi baciò, stringendomi forte tra le sue braccia nude.
«Mmh stiamo già parlando di eventuali presentazioni con i genitori...non avevamo detto di voler andar piano?», mormorò staccandosi dalle mie labbra.
«Ci penseremo più avanti. Ora torna qui», gli sussurrai circondandogli il collo con le braccia.
Il nostro piacevole stretching mattutino fu però presto interrotto dal trillo insistente proveniente dal mio telefono.
Sbuffando mi allontanai da Alessandro e mi allungai ad afferrare il cellulare.
Francesco.
«Scusa un attimo», borbottai.
Feci per alzarmi dal letto ma poi scuotendo leggermente la testa sprofondai nuovamente tra le lenzuola, dove le braccia calde di Alessandro mi accolsero protettive.
Che bisogno c'era di andare in un'altra stanza? Non avevo segreti da nascondere.
«Pronto?»
«Ehila bella addormentata! Il tiranno...ahi!...volevo dire il caro Alfredo è qui con me e vuole sapere se è un caso che sia tu che il nostro bel collega manchiate all'appello»
Merda! Il lavoro!
Scostai un attimo il telefono dall'orecchio e indicai ad Alessandro l'orario scritto sul display.
8.33.
Lui si strinse nelle spalle e ridacchiò.
«Ehm non mi ero accorta fosse così tardi...», cercai di giustificarmi, «Di ad Alfie di considerare il mio ritardo come due ore di richiesta di permessa», Alessandro si indicò e io aggiunsi, «Idem per Alessandro».
Un urlo mi trapanò un timpano.
«È lì con teeee!! Furbacchiona! Vi concedo una giornata di ferie, dillo al tuo bel maschione. A patto che stasera tu mi chiami e mi racconti dettagliatamente e ripeto dettagliatamente ogni cosa, senza tralasciare nulla!», trillò Alfie, che evidentemente aveva strappato il telefono di mano a Francesco.
Sentii Alessandro soffocare una risata nell'incavo del mio collo e sorrisi imbarazzata.
«Alfie guarda che Alessandro è qui e tu sente...»
«Oohhh allora ti lascio e mi raccomando: fagli tutto quello che vorrei fargli io!»
«Alfie!»
«Copulate suvvia! Diventerò zio! Addio cari! Briochina attendo con ansia la tua telefonata!», concluse prima di riattaccare.
Posai il telefono e mi voltai verso Alessandro tentando di scusarmi.
«Mmh non preoccuparti, io direi di seguire i suoi consigli che ne dici?», mi sussurrò piano facendo scivolare una mano sul mio seno.
Mi tuffai letteralmente sulle sue labbra.
Al diavolo la faccenda della calma e della lentezza!






Eccomi qui!
Ieri ho aggiornato l'altra storia e oggi sono già qui con un nuovo capitolo di Rette Parallele, wooo mi sto velocizzando.
Forse dovrei rallentare anche io come propone saggiamente Gin (ok, alla fine cede ma...chi non l'avrebbe fatto? ;) )
Allora allora allora?
Capitolo total Ginevra-Alessandro: commenti?
Sono curiosa di sapere cosa ne pensate.
Bacioni,
S.
  
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