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Autore: Sheep01    26/09/2014    2 recensioni
“Ehi tu…” un’eco nel candido nulla in cui stava affogando. “Dico a te… ragazzina…”
Fu il rumore del proprio cuore pulsante a riportarla alla ragione. Alla pseudo lucidità.
La bocca ancora impastata, le membra gelide, tremanti. Quando sentì il lieve tocco dello sconosciuto su di sé, scattò in lei qualcosa di antico, furibondo, letale. [...]
La lama affondò in qualcosa di… rigido. I suoi occhi misero a fuoco un bauletto. Nero. E poi, rialzando il tiro, a scrutare un paio di occhi grigio azzurro.
“Woah, ma che razza di ringraziamento sarebbe, questo?”
[Clintasha pre-SHIELD, pre-Avengers]
Genere: Azione, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Altri, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 19

 

She said fine and in thirty seconds time she said, I want to live like common people
I want to do whatever common people do, I want to sleep with common people
I want to sleep with common people like you.
Well what else could I do - I said I'll see what I can do.

(Common People - Pulp)

 

Caffè.

Gli ci sarebbe voluto molto più caffè.

La sua vista di Falco cominciava a vacillare su quell’ammasso di fogli sparsi.

Odiava la burocrazia. La stupida burocrazia. Insomma, lui era un uomo d’azione. Avesse voluto lavorare in un ufficio avrebbe aspirato a un posto d’impiegato.

Avrebbe continuato a studiare. Per dire.

E invece, a quanto pare, sbolognare la stupida burocrazia è uno dei compiti a cui lo SHIELD non ti prepara. Non immediatamente.

Prima ti imbocca con false promesse di una vita d’azione e badassery e poi te lo mette nel culo con un paio di cavilli da sbrigare. Tipo redigere i rapporti di una missione appena conclusa.

Che se non te li cavi d’impiccio in corso d’opera, come è consigliabile fare (come Coulson o come la Hill, si premuravano sempre di ribadire), allora ti tocca sbrigartela al rientro. Quando l’unico desiderio è cadere su un letto e morire. Non… letteralmente. Ma insomma. Per dare l’idea.

 

Clint cercava di capire come sistemare quei due o tre dettagli che non gli tornavano. Che, insomma, vaglielo a spiegare che era stata l’ennesima iniziativa personale a salvar la missione, senza farla sembrare negligenza.

Non era granché bravo con le parole.

Ancora indeciso se usare il termine incompetenti o smisurate teste di cazzo, trasalì quando un’ombra oscura gli finì sotto al naso a ostruire la visuale.

“Barton.”

Natasha era saltata sul tavolo. Le gambe incrociate, gli anfibi ad accartocciare i documenti sparsi su tutta la scrivania.

“Cristo santo!” Si era lasciato andare, scivolando all’indietro sulla sedia con le rotelle, “Un'entrata in scena meno teatrale sarebbe stata gradita ugualmente.”

“Che stai facendo?” aveva preso in mano un paio di fogli e la fotografia di uno dei sospetti.

“Lavoro. Giù il culo dalla mia scrivania.”

“Che tipo di lavoro?” La sentì replicare, mentre scrutava imperturbabile tutti i documenti come ad assorbirne le informazioni.

“Uno che non ti riguarda.” Le strappò i fogli di mano, scatenando il suo disappunto.

“Ancora nei guai con la relazione?”

“Le mie relazioni vanno benissimo.”

“Le tue relazioni fanno schifo.”

E Clint dovette fare uno sforzo per capire a che tipo di relazione si riferisse. In entrambi i casi non sbagliava affatto.

“Continuano a non essere affari tuoi.” Prese a sistemare i documenti con un po’ troppa foga. Il fatto che già non gli andasse di farlo, si aggravava con quell’insistenza non richiesta.

Natasha… così lo SHIELD aveva americanizzato il suo nome.

Così lo SHIELD le aveva dato una nuova identità.

Bazzicava da quelle parti da quasi un anno. Un intero anno dalla decisione di prendere in mano la sua vita e riplasmarla.

Il reintegro non era stato immediato. La trafila non di facile sviluppo.

Clint aveva dovuto convincere la commissione. Fury aveva dovuto convincere la commissione. Ma alla fine lo SHIELD si era preso in carico la vita di una ex ragazzina prodigio, dalle qualità intellettive e fisiche ben al di sopra della media della maggior parte degli agenti dell’organizzazione.

I risultati dei suoi test si erano rivelati, come da copione, straordinari e la ragazza aveva guadagnato un nuovo lavoro, una nuova… famiglia.

Clint, di contro, aveva dovuto combattere per mesi con la frustrazione di veder falliti tutti i suoi tentativi di vederle sorgere dentro la consapevolezza del loro precedente incontro.

Quando aveva capito che sarebbe stato sempre un niente di fatto, aveva deciso di non farle pressione. Di ricominciare da capo.

Natasha sembrava aver apprezzato gli sforzi perché Clint, assieme a pochissimi altri, era l’unica persona con cui sembrava interagire con familiarità. O interagire. Punto.

Quella di ficcare il naso, invece, era una delle libertà che si era presa… da subito.

“E’ questa?” aveva recuperato il foglio scritto a mano e pieno di cancellature che nemmeno un tema scritto in brutta grafia, ed era scesa dalla scrivania.

“Non-” Clint allargò le braccia, frustrato. “Ridammelo.”

“Io cambierei un po’ la forma.”

“Che forma?”

“Tipo qui. Non credo che la parola: stronzeggiare esista nel vocabolario ufficiale.”

“Non ho scritto stronzeggiare.”

“A me sembra ci sia scritto stronzeggiare.”

“Fra sembrare ed essere c’è una bella differenza. Non è colpa mia se hai scarse doti interpretative.”

“Sei tu che scrivi da schifo.”

“Ma come cazzo ti permetti? Ridammelo.” Si era alzato in piedi.

“Anche qui: il soggetto si è allontanato per un centinaio di metri prima di grufolare per la discesa. Grufolare?”

“Hai letto male.”

“E’ scritto in stampatello.”

“Ridammelo.”

Natasha aveva preso a girare per la stanza con la sua relazione in mano. Un modo meschino per passare il tempo.

“E ancora: non è stata iniziativa personale ma una decisione dettata dalla scarsa capacità di giudizio del colleghi.” Lesse, mentre Clint cercava di strapparle i fogli e lei si arrampicava su un’altra scrivania. “Praticamente stai dando a tutti di incompetenti.”

“La vuoi finire?!” era saltato anche lui sulla scrivania, stivali d’ordinanza e tutto il resto, le mani che cercavano di strapparle il verbale che gli aveva sottratto.

“Sganciali”

“Non fare il violento”

“E tu non fare la stronza.” La guardò saltare su un’altra scrivania.

La rincorsa in bilico su tutte le scrivanie dell’ufficio fu pressoché scontata.

“Aiuto. Aiuto. L’agente Barton è impazzito.” Esclamò lei con un tono così glaciale da risultare comico nel contesto.

Clint fece una brusca virata e spiccò un balzo che lo fece atterrare di fronte a lei. Le agganciò un braccio mentre con l’altra mano cercava di liberare i fogli dalla sua presa ad artiglio.

“Dammeli”

“E’ tutto quello che sai fare? Usare la forza bruta?”

“Rivoglio solo i miei… fogli.”

“Chiedi per favore.” Continuava a sventagliare il braccio, ad impedirgli di recuperarli.

“Col cazzo.”

“Peccato, la gente sottovaluta la gentilezza.”

“Natasha.”

“Barton.”

Aveva avvicinato il viso al suo, e schioccato un bacio, a tanto così dalla sua bocca, che lo fece trasalire.

“Merda.” La presa si allentò senza previsione e Natasha fu di nuovo libera.

La vide saltare giù dalla scrivania e lanciargli uno sguardo di trionfo.

Sapeva sempre come colpire, la stronza. Il suo unico, letale punto debole.

Quando la porta dell’ufficio si aprì Clint era ancora in piedi su una della scrivanie.

L’agente Hill gli lanciò uno sguardo severo e perplesso allo stesso tempo.

“Che cosa stai facendo lì?”

Clint scoccò uno sguardo a Natasha che aveva sistemato il foglio della relazione proprio lì, dove lo aveva preso.

“Ahm…” si umettò le labbra, in evidente, imbarazzo: “Capitano, mio capitano?”

La Hill non sembrò afferrare la citazione. Non del film, almeno.

 

*

 

“Il direttore Fury vi vuole nel suo ufficio.”

Una sola frase e se ne era uscita ad aprir loro la strada.

Barton sembrava avere l’aria di chi ne avesse combinata un’altra delle sue. Forse temeva per il ritardo nel redigere il rapporto: si fosse preso più tempo ad analizzare il direttore, forse si sarebbe reso conto che a Fury non importava nulla delle relazioni. Era Coulson quello fissato.

Evitò di dirglielo, godendosi quell’espressione di contrito cordoglio, la vittoria in pugno per l’ennesima volta.

All’inizio non era stata del tutto sicura di sapere perché l’agente Barton le piacesse così tanto. Escluso il fatto che si era rifiutato di prendersi la sua vita, dandole una ben nota possibilità di redenzione. Escluso il debito che sentiva di avere nei suoi confronti. In ogni caso avrebbe potuto evitare di farselo piacere: invece la sua compagnia le era congeniale. E non faticava a credere, non più almeno, che ci fosse stato un pregresso coinvolgimento emotivo nei suoi confronti.

Ancora la guardava con quegli occhi colmi di frustrazione e malinconia.

E le sue intenzioni, del tutto sincere, confidenziali, trasparivano da qualsiasi gesto nei suoi confronti.

Per quello non le era risultato difficile entrare in sintonia con lui. Che fosse una delle poche, pochissime persone di cui sembrava fidarsi, veniva da sé.

Lui e il direttore Fury.

Che l’aveva guidata attraverso la sua formazione nemmeno fosse lui il suo supervisore.

Aveva nei confronti dell’organizzazione tutta, un debito di gratitudine che ben difficilmente sarebbe riuscita a estinguere.

All’inizio aveva preso in modo pessimo la notizia: anche il solo pensiero di essere in debito con qualcuno le dava alla testa. Poi, lentamente, si era abituata all’idea e convinta che mantenere una buona condotta, sarebbe stato il modo più semplice e meno doloroso di ripagare… quella fiducia.

L’unico neo dell’intera faccenda era stata la mancanza di azione.

Lezioni, esercitazioni, test, tutte cose di cui aveva capito fin dall’inizio di poter fare a meno, ma che l’avevano obbligata a eseguire.

In un anno non aveva fatto altro che spendere le proprie energie sulla… teoria.

E poteva ben dire, adesso, di averne avuto abbastanza.

La noia. La noia era la parte peggiore di tutta quella faccenda.

Veder partire Clint per l’ennesima missione faceva crescere in lei il desiderio di impegnarsi per essere notata. In pochi mesi era diventata uno degli agenti più preparati dell’intero distretto.

Ed ora… il fatto che Fury li avesse chiamati a raccolta, accese in lei, in qualche modo… la speranza?

“Agente Barton, agente… Romanoff.”

Romanoff. Il suo nuovo nome non le dispiaceva. Ne amava il suono, amava il fatto che spezzasse con il suo passato senza però darle la possibilità di dimenticarlo.

Qualcosa di concreto. Per tenere i piedi ben piantati per terra.

“Barton… ho sentito che è rientrato ieri mattina.”

Clint sembrò muoversi un po’ nervosamente sul posto. Non che fosse visibile, ma ormai aveva imparato a riconoscere i segnali: era a disagio.

“Ahm, sì, signore…” lo sentì rispondere. Sperò si fermasse lì. E invece… “Se è per la relazione le posso assicurare che…”

“Relazione?”

“… che è tutta colpa della Romanoff.”

“Che cosa?” Natasha.

“Come… ?” Fury.

“Chi?” Clint.

“Che cosa c’entra la relazione?” il direttore lo aveva osservato con il suo unico, letale occhio scuro.

“Niente.” L'arciere si affrettò a liquidare l’argomento.

“Bene. Dunque posso finire di parlare o ha bisogno di altro tempo per elaborare una dichiarazione del tutto fuori luogo?”

“Può parlare.”

“Grazie per la concessione.”

Natasha si sforzò di trattenere una risata.

“Credo che la formazione dell’agente Romanoff sia alfine giunta alla sua degna conclusione.”

Adesso la voglia di ridere stava lentamente mutando in qualcosa di più complesso. E meno divertente. Più euforico, forse. “E che sia arrivato il momento di concretizzare i frutti della sua permanenza qui.”

Euforico senz’ombra di dubbio. Dall’esterno non v’era però che una tiepida reazione di sorpresa.

“La trovo un’idea… geniale, direttore.” Intervenne Barton, non meno sorpreso ma decisamente più incline a dimostrare il suo appoggio ed entusiasmo. Gliene fu immediatamente grata.

“Oh, grazie di nuovo, Barton.” Il sarcasmo nella voce di Fury sembrò decisamente meno duro di quello a cui tutti erano abituati, “Quindi suppongo che nominarla suo personale supervisore, in virtù della prossima missione a cui andrete a partecipare, sarà per lei motivo d’orgoglio.”

“Cert-  che?”

“Supervisore. E partner nella prossima missione che ho intenzione di affidarvi.”

Porse a loro le cartelline e Natasha riuscì a immaginare quanto Barton fosse rimasto spiazzato dalla notizia, anche solo dal modo in cui aveva preso a stringere i documenti.

Lei, di contro, cominciò a sentir fremere le mani alla sola idea che avrebbe finalmente potuto entrare in azione.

“Avremo modo di discuterne i dettagli più tardi, prima voglio che analizziate insieme tutto il materiale che vi ho fornito.”

“Ma signore…”

“Qualche obiezione da sollevare a riguardo, agente Barton?”

Natasha gli lanciò uno sguardo in tralice. Che stava facendo? Voleva avanzare una protesta? Avrebbe preferito non lavorare con lei? Era da poco allo SHIELD ma era una dannata professionista. Lui lo sapeva! Persino meglio di Fury. E…

“Niente. Mi chiedevo solo… se questo mi esonera dal finire la relazione sull’ultima missione.”

Natasha adesso lo stava guardando come se fosse completamente pazzo. O assolutamente geniale.

“Mi aspetto di trovarlo sulla mia scrivania, entro domani mattina, agente.”

“Ovviamente.”

“Potete andare.”

 

Quando furono usciti, a malapena riuscì a trattenere il buon umore. Era da tempo che non si sentiva veramente eccitata per qualcosa, il pensiero dell’anticipazione adrenalinica. Fossero anche solo andati a cercare il gatto della zia di Fury, disperso nel gran canyon. Tutto, purchè fuori da quelle quattro mura che, con la loro austerità, le si stavano ormai stringendo addosso da troppo tempo.

“Se mi dai un aiuto con la relazione ti pago.” Articolò Clint, lanciandole uno sguardo strano.

Si fermò poco oltre la soglia a studiarlo attentamente a verificare la veridicità della sua affermazione.

“E’ tutto ciò che hai da dire… a riguardo?”

Perché sì, insomma… aveva parlato di supervisori e Natasha sapeva perfettamente quanto Clint amasse lavorare da solo.

O meglio… era convinta di sapere… quanto gli piacesse lavorare da solo.

Non glielo aveva già detto?

In un’altra vita… forse.

“Che altro?” la guardò sinceramente perplesso. “Oh, congratulazioni?”

Le porse allora la mano.

E rimase a guardarla un po’ troppo a lungo quella mano.

Congratulazioni.

Se non fosse stato per lui non sarebbe mai arrivata fino a quel punto. Non all’abbandono totale, completo di quel passato che l’aveva umiliata, annullata.

Esitò, cercando di ignorare lo sguardo che lui le stava rivolgendo. Lo stesso. Sempre lo stesso sguardo. Un’accusa mai dichiarata. Una mestizia mai disciolta.

Quello sguardo che era in grado di farle dubitare di qualsiasi cosa, di farla sentire impotente, di attivare tutte le sue più nascoste fragilità.

Alzò la sua, di mano, e gliela strinse, prima con una e poi a coprirgliela anche con l’altra.

“Ti giuro che ci sto provando, Clint.”

Lo sentì irrigidirsi, ma non mollò la presa. Non questa volta, non adesso che era lei a cercare un punto d’incontro. Un contatto. Quando glielo aveva rifiutato così tante volte.

“Lo so…” lo sentì rispondere, “Non devi giustificarti.”

E invece era convinta fosse necessario farlo eccome. Sapeva ancora leggere abbastanza bene la gente per capire quanto ancora si sentisse ferito da quell’inconsapevole tradimento.

Ci sarebbe arrivata, prima o poi.

“Salti tu salto io… no?”

Clint sorrise a quell’uscita.

“Esatto. Magari con un paracadute stavolta.”

“Grazie.” Mormorò solo, prima di tornare a guadarlo.

E in quel ringraziamento si agitava tutto ciò che le provocò, finalmente, un sorriso.

 

*

 

Quando Clint aveva detto a Barney che aveva da fare, non mentiva.

Quando Barney, altrettanto innocentemente, si era andato a prendere una tazza di caffè, nel suo angolo cucina, decidendo che Clint gonfiava le cose… non mentiva.

Il fatto era che nessuno dei due mentiva. Il problema stava nel capire che era il giorno prima di un’importante missione e Barney non era gradito. Mentre il caffè non era granché gradito a Barney.

“Si può sapere che problema hai?”

“No, che problema hai tu. Sono venuto qui da Washington e nemmeno riesci a offrirmi un letto per stanotte.”
“Perché sarò fuori dagli Stati Uniti, entro stanotte.”

Barney fece un gesto vago con la mano, mentre si ingollava un po’ del suo caffè, senza zucchero.

“Dovrei metterci della panna.”

“Non ce l’ho la panna.”

“Dovresti comprare… della panna.”

“Perché non ci vai tu a comprarla?”

Barney gli sorrise con l’aria di uno che sa esattamente che, se mai avesse messo il naso fuori casa, non vi avrebbe fatto più ritorno, e non certo per iniziativa personale.

“Ho un fratello stronzo.”

“Barney.”

“No, seriamente, stronzo forte, eh. Cos’è? Adesso che lavori per lo SHIELD non hai più tempo di star dietro a un compatriota?”

“Ma quale compatriota!”

“Vabbè un compatriota fratello.”

“Barney… ti ho solo detto che non ho tempo, devo… lavorare.”

“Parti? Per dove?”

“Per il mare dei cazzi miei.”

“Quanta finezza. Frequentare Fury ti ha cambiato.”

“Che ne sai di Fury?”

“Ne so abbastanza per dire che non mi piace.”

“A me piace.” In determinati giorni. A fasi alterne. “Non posso ospitarti. Sarà per la prossima volta. C’è un Bed and Breakfast niente male a un solo isolato da qui.”

“Se devo andare a dormire da un’altra parte preferisco starmene a Manhattan.”

Clint gli scoccò uno sguardo perplesso.

“Perdonatemi, vostra maestà.”

“Non credo di aver afferrato da che parte di mondo vai a finire stavolta.”

Clint chiuse il borsone che stava preparando. Ci aveva infilato dentro la roba alla rinfusa. Come al solito. Tanto non avrebbe usato un bel niente. Se stava cercando di fregarlo aveva poco da sperare.

“Barney… io fra poco esco.”

“Anche io.”

Erano passati cinque anni. Aveva cambiato vita. Ma Barney ancora non aveva finito di rompere le palle. Le sue incursioni erano ricorrenti e Clint non era del tutto convinto si trattasse di mere gite di piacere. Il fatto era che, secondo lui, ancora lo stava tenendo d'occhio. In un modo tutto suo. Non era certo che lo avrebbe mai ritenuto una persona responsabile… e forse nemmeno Clint, ne era poi tanto sicuro.

Sì, gli faceva piacere. Il fatto che finalmente fossero arrivati a un punto d’incontro sulla natura delle loro divergenze, lo aveva messo in condizioni di apprezzare maggiormente la sua presenza. Il fatto era che, si sentiva in colpa, perché ancora taceva a Barney delle cose. E questo lo metteva in una condizione di disagio nei suoi confronti.

Cosa gli taceva?

Bè, in primis…

Quando sentì suonare alla porta, trasalì per la sorpresa. E se Barney intese qualcosa di oscuro in quel comportamento non lo diede a vedere.

Solo lo guardava perplesso per il fatto che non si fosse mosso dal divano.

“Bè? Non vai ad aprire?”

“Saranno i testimoni di Geova.”

“Oppure no.”

“Oppure un rappresentante di enciclopedie. Non mi viene a trovare mai nessuno.”

“Magari questa è un’eccezione.”

“Magari no. E poi se devo partire, tanto vale fingere di non essere in casa.”

“Se lo dici tu…” adesso però sì che lo stava guardando con sospetto. Clint non era mai stato un grande attore.

Il campanello non suonò una seconda volta, e se per caso avesse sperato fosse stato davvero un testimone di Geova o un rappresentante… la sua aspettativa venne smontata, pezzo per pezzo da un evento inaspettato.

“Barton?”

Natasha? La voce di Natasha dalla finestra della sua camera da letto.

Dannate scale esterne!

“Cos’è?” Barney si era rimesso in piedi e abbandonato, più che volentieri – ne era più che certo – la sua tazza di caffè nero.

“Niente!” Clint si era precipitato alla porta della sua camera richiudendola di schianto, mentre Natasha gli veniva incontro.

“Ma era una donna!”

“Dove?”

“In camera tua!”

“In… ? Ma cosa dici? Sarà stato un gatto.”

“Un gatto che ti chiama per nome?”

“Tecnicamente era un cognome. E poi… evidentemente è un gatto molto dotato.”

“Clint…”

“Barney?”

“Ti entra una donna dalla finestra e me la nascondi. O è una cosa seria. O è una pazza.”

“E’ una pazza.” Colse al volo l’occasione. “Mi tormenta. Da mesi. Non sai la sofferenza.”

“Non credo che la soluzione sia quella di chiuderla in camera.”

“Oh, ma tu non la conosci…”

“BARTON!” la voce dietro alla porta ora era accompagnata da pugni piuttosto vigorosi.

“Visto? E’ pazza.” Sibilò con la schiena appoggiata alla superficie, mentre Natasha cercava di aprire.

Barney non ne sembrò per nulla convinto.

“Barton, se non apri la porta te la distruggo.”

E di nuovo Clint mimò la parola: pazza.

“Barton! Mi vuoi spiegare che significa? Dobbiamo partire!”

Natasha e la sua boccaccia da… epiteto volgare che però si pentì immediatamente di aver formulato. Perché non era sessista.

“Clint, questa cosa sta diventando ridicola. Lasciala entrare.”

“No, Barney. Questa cosa non è ridicola. E’ complicata. E proprio perché lo è, devo chiederti per favore… di andartene.”

“Sei serio?”

“Mai stato più serio di così.” E sfoggiò la sua espressione più professionale. Quasi credibile, dopo anni di esercitazioni.

“Già bè…” sembrò sul punto di cedere, “Tanto non mi volevi qui.”

“Non è che non ti volevo…” lo guardò recuperare giacca e borsone.

“Non sono offeso. Solo un tantino scoraggiato. Insomma…”

“Mi dispiace Barney.”

“BARTON!”

“Me ne vado.” E poi guardando la porta, “arrivederci signorina di cui non scoprirò mai il nome! E’ stato un piacere non conoscerla!”

Il silenzio dall’altra parte sembrò decretare che Natasha aveva subodorato qualcosa.

Clint guardò Barney inforcare l’uscio, salutare e uscire di scena.

Tirò un sospiro di sollievo, accasciandosi contro la porta della camera da letto.

Se non fosse stato ancora abbastanza chiaro: Clint non aveva mai rivelato a Barney il ritorno di Natalia. Natasha. Insomma… Nat. Era quello il punto cruciale del suo senso di colpa nei confronti del fratello. Ma non poteva certo mettere nei casini Natasha, no? O a repentaglio il segreto professionale dello SHIELD.

Sentì un rumore ovattato dietro alla porta, come se anche la ragazza si fosse messa a sedere dall’altro lato, provata da quella performance del tutto inaspettata.

“Era tuo fratello… ?” la sentì domandare, un po’ di rammarico nel tono. Non le aveva mai parlato troppo spesso di Barney e mai nello specifico.

“Già…”

“Scusa.”

“Non è colpa tua.”

E di certo non lo era, ma se non avesse avuto quel pessimo vizio di scalare pareti nemmeno fosse Manolo. O Spiderman.

“Barton...”

“Dimmi…”

“Vuoi levarti dalla porta?”

“Ah, sì. Scusa…”

Si era appena messo in piedi che si propagò un gran fracasso nella stanza accanto. Un tonfo, un mezzo grido, una voce.

Ma che diavolo?

“Nikita?”

C’era solo una persona che chiamava così Natasha. E quella persona era…

“No!”

 

___

 

Note:

Un capitolo che mi sono divertita tanto a scrivere che ricalca un po’ quelli dell’inizio. L’assurdo trio si è ricompattato e ci accompagnerà alla fine della storia!

La citazione del ‘Capitano mio Capitano’, avrete capito, arriva direttamente dal film “L’attimo Fuggente” un film che ho amato così tanto e a cui dovevo dar credito almeno nelle note. Invece la citazione della canzone dei Pulp non arriva perché penso che Clint sia da annoverare fra i Common People, ma perché l’ascoltavo mentre scrivevo il capitolo. E l’ho trovata azzeccata.

Niente altro da aggiungere di importante, se non che il prossimo è l’ultimo capitolo e dovremo salutare tutti. Ed io voi. Ma lo faccio meglio quando ci risentiamo. Per ora solo i ringraziamenti di rito a chi mi segue, alla mia superbeta sclerosocia (adoooro), e alla prossima, ultima volta!

  
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