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Autore: Nitrogen    27/09/2014    1 recensioni
Tornai a guardare la porta di fronte a me poggiando la testa alla mano e chiusi gli occhi: avevo la nausea e le vertigini, in aggiunta al bel quadretto c’era un mal di testa che si placava solo se smettevo di pensare. Non era facile sopportare tutti quei fastidi che avrebbero messo qualcun altro al tappeto e contemporaneamente risultare acida come se nulla mi causasse troppi problemi.
«Non sembra affatto spaventata.»
«Non ho motivo per esserlo.»
«Devo ricordarle che attualmente è detenuta in un ospedale psichiatrico?»

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Avvertenze: L'autrice di questa originale non è sana di mente, ragion per cui ha scritto una storia non adatta a stomaci deboli; violenza gratuita, linguaggio scurrile e sangue la fanno da padrone nella maggior parte dei capitoli. Siete stati avvisati.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo VIII
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«Non andare nel panico, Nebraska.»
«Siamo arrivati a questo punto e tu mi dici anche che non devo andare nel panico?! Quell’essere vuole farci fuori!»
«Se urli ci farà fuori adesso, e perdere la calma non servirà a nulla.», disse stiracchiandosi e accennando un sorriso, «Comportati normalmente, fa’ finta di non sapere nulla e gioca con Candie come al solito. No, anzi, va’ da Mayer: al momento non posso ascoltare le tue paranoie, ma lui del tempo per darti corda lo troverebbe senza problemi.»
«Alle mie paranoie? Tu non ti rendi conto di cosa sta accadendo!»
«Sono in questo ospedale da quattro anni, conosco Hijikata molto più di chiunque altro e comprendo perfettamente la gravità della situazione. Siamo agli sgoccioli e dobbiamo trovare un modo per uscirne sani e salvi. Sciaguratamente, le tue preoccupazioni non servono a questo scopo.»
In quel momento mi sentivo presa in giro e non capita da una delle poche persone che reputavo fidate all’interno dell’ospedale. Normalmente avrei lasciato perdere, mi sarei allontanata di mia spontanea volontà pur di non intavolare una discussione che mi avrebbe portato ad andare fuori di testa, ma ero così arrabbiata per tutto quello che stavo passando che non riuscii a tenere a freno il mio pugno destro, entrato in collisione con lo zigomo già violaceo di Jonathan.
Temevo di averla fatta grossa, ma poiché lui non aveva né urlato né reagito in malo modo, nessuna delle guardie parve notare quanto stava accadendo al nostro tavolo: io ero paralizzata, sorpresa dalla mia reazione; Jonathan si massaggiava lo zigomo, con una smorfia che non esprimeva dolore ma fastidio per il mio gesto.
«Sai, Herstal, mi chiedo perché tu debba sempre essere così impulsiva.»
Mi afferrò i capelli e mi fece sbattere violentemente la testa contro il tavolo. Non credevo avrebbe reagito, o almeno non in tal modo con me. Mi stavo preparando a reagire a un ennesimo attacco di Jonathan, ma le guardie  scattarono verso di noi non appena lo videro alzare nuovamente il braccio all’altezza della testa.
«Adesso picchi anche le ragazze, bastardo?»
Jonathan sorrise e si lasciò legare le mani; lo trascinarono via con la forza anche se avrebbero tranquillamente potuto chiederglielo con gentilezza – poiché li avrebbe seguiti senza opporre resistenza.
Ovunque lo stessero portando non era di certo per fare una passeggiata all’aria aperta e temevo sarebbe toccato lo stesso destino anche a me, cosa che invece non accadde: le due guardie che si avvicinarono mi chiesero semplicemente se Jonathan mi avesse fatto troppo male.
«Mi gira la testa.», risposi, «Ma ho sopportato di peggio… Non è il caso di allarmarsi.»
«Non è solo Zedd da punire, lei gli ha dato un pugno poco prima.»
Puntai gli occhi su Broox, apparsa alle mie spalle con l'espressione tipica di chi non aveva intenzione di farmela passare liscia. Imprecai.
«Zedd mi ha fatto arrabbiare.»
«Non è un buon motivo per picchiare qualcuno, Nebraska.»
 
 
 

«Diamo il benvenuto a Nebraska nel nostro gruppo. Forza, salutatela.»
Si alzò un coro per nulla intonato di “Buongiorno” e altre parole biascicate in malo modo che mi irritò non poco. Ero appena entrata in quella stanza e già desideravo ardentemente scappare via, tornare nel mio isolamento forzato – e voluto – che ero riuscita a mandare avanti per più di quanto avessi immaginato. Nell’ospedale c’erano continue attività di gruppo ed io, per un motivo o per un altro, ero riuscita ad evitarli fino a quel giorno; ma sapevo che quella fortuna non sarebbe durata per sempre e mi stavo lentamente rassegnando all’essere trattata come tutti gli altri pazienti. Broox mi aveva incastrata.
«Nebraska, sai qual è la funzione principale di questo gruppo?», chiese la dottoressa numero uno con un sorriso largo e a dire il vero anche piuttosto sincero.
Era seduta di fronte a noi sei pazienti e al fianco della sua collega, quest’ultima con una penna già pronta all’uso per trascrivere la mia risposta sul quaderno che teneva in grembo. La cosa non mi aiutava ad essere molto spontanea.
«Ne ho solo una vaga idea.»
«Allora faremo iniziare gli altri, così potrai renderti conto in cosa consiste. Non è nulla di complicato, vero signori?»
Diversi “sì” si fece largo nella stanza e io storsi il naso; la dottoressa numero due lo appuntò sul quaderno. Solo in quell’istante notai che l’ultima sedia del semicerchio formato da noi pazienti – esattamente quella più vicina a lei – ancora non era stata occupata.
«Inizieremo dalla mia sinistra quest’oggi: Daniel, come ti senti questa mattina?»
L’uomo in questione dondolava nervosamente sulla sedia, sforzandosi di guardare la dottoressa negli occhi ma senza alcun buon risultato. Aveva delle iridi di un verde smeraldo molto intenso, ma le pupille erano fin troppo dilatate e non riuscivano a stare ferme per molto; era un bell’uomo, ed era un vero peccato vederlo ridotto in quello stato.
«B-bene, do… do… dottoressa.»
La dottoressa numero uno gli sorrise e gli disse che era felice di saperlo; l’altra appuntò quanto uscito dalle labbra di Daniel senza quasi aspettare che finisse di parlare.
«E le forti emicranie? So che il dottore ha cambiato le tue medicine.»
Daniel si limitò a sorridere e ad annuire non facendomi capire la risposta; ma le due dottoresse sembravano aver afferrato il messaggio poiché dopo altre brevi domande che non mi premurai di ascoltare passarono al paziente successivo, quello immediatamente alla mia destra: si chiamava Lacy e doveva avere circa il doppio dei miei anni, eppure aveva diverse treccine ad adornargli i capelli scuri che lo facevano sembrare abbastanza infantile.
Non appena la dottoressa numero uno ebbe terminato la prima domanda di routine – quella su come si sentisse – la porta della stanza si spalancò di colpo e fece il suo ingresso in scena Jonathan, che si andò a sedere con nonchalance sull’unica sedia libera seguito a ruota da due guardie. Evidentemente era riuscito per l’ennesima volta a sfuggire alla sua punizione.
«Dottoressa Evans, dottoressa Lee.» salutò, prima la più vicina – che registrò il suo ingresso sul quaderno – e dopo la più distante – che mutò il suo sorriso in un ghigno. Non era il benvenuto ma non lo mandarono via, tutt’altro: congedarono le due guardie e si consultarono velocemente sottovoce, per poi tornare esattamente come prima, belle e sorridenti come se affette da paralisi facciale.
La dottoressa Lee parlò per prima: «A cosa dobbiamo la tua visita? Di solito non ti interessi ai gruppi e fai il possibile per evitarli.»
«‘Sta mattina mi sono svegliato con la Sindrome di Stoccolma e dunque vi amo entrambe.»
Nascosi una risata non molto sonora voltandomi verso Lacy, che vedendomi divertita parve accennare un sorriso. Ma non era il sorriso da mezzo squilibrato che mi aspettavo: mi sembrava lucido e mi guardò come se sapesse perfettamente io chi fossi; non che alla fine ci volesse tanto.
Per la prima volta riuscii a sentire la voce della dottoressa Evans: «Immagino che durante la tua assenza ai nostri incontri siano successe diverse cose… Vuoi parlare di qualcosa ai tuoi compagni?»
Jonathan ci guardò tutti, nessuno escluso: da quando era entrato non mi aveva rivolto uno sguardo e nemmeno in quel frangente concentrò su di me più attenzione del necessario; si comportava come se per lui non fossi nient’altro che un ordinario paziente, diverso in nulla dagli altri. Poi sorrise senza apparente motivo alla donna seduta due sedie dopo di lui, una quarantenne piuttosto in carne dai capelli rossi e cotonati. Aveva una faccia simpatica.
«Patricia! Non mi ero accorto della sua presenza, mia signora.» E si alzò dalla sua sedia per raggiungerla, baciarle la mano e spostarsi alle spalle dell’uomo alla mia sinistra – ossia quello alla destra della donna. «Hey, Oldboy, alzati. Oldboy… Oldboy! Leva il culo da questa sedia!»
La ragazza seduta in precedenza alla destra di Jonathan mise le mani davanti agli occhi: «Non dovresti essere così scurrile con le persone! Bisogna essere gentili per ricevere gentilezza.»
«Se fosse vero quel che dici, Dee Dee, allora non sarei stato accolto in questo posto con un coro di offese e il sottofondo di pugni, quattro anni fa.»
«Ma tu hai ucciso tua sorella, per questo ti hanno picchiato.»
«Che ragionamento del cazzo…», bisbigliò irritato passandosi una mano sul volto. Dopo un sospiro schioccò le dita e alzò la voce per farsi sentire, cercando di starle al gioco. «Oh, giusto, mia sorella! Dimentico sempre quel dettaglio...»
Nemmeno il tempo di finire la frase che Jonathan spinse l’uomo che chiamava “Oldboy” per terra e si sedette rapidamente al suo posto. Nemmeno in quel momento mi degnò di particolari attenzioni ma anzi, si concentrò su Patricia dandole un sonoro bacio sulla guancia destra.
«Zedd!», urlò la dottoressa Lee, «Aiuta Jim a rialzarsi e torna subito al tuo posto!»
«Oldboy, vai al mio posto?»
Ma l’omone di due metri continuava a star seduto sul pavimento in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto. A quel punto Jonathan gli mise le braccia al collo e le dottoresse si alzarono di scatto, terrorizzate.
«Stai – »
«Non voglio strangolarlo, dottoresse. Se volessi ucciderlo non lo farei di certo in questo modo, e nemmeno qui dove potreste fermarmi.»
Dee Dee intervenne ancora: «Ecco. Poi ti lamenti se ti picchiano. Non si uccidono le persone, Zedd!»
Jonathan mi guardò, chiaramente al limite della pazienza: «Capisci perché preferisco prenderle dalle guardie anziché stare qui?»
«Beh, di questo passo ti manderanno a calci, da loro.»
«È quello che sperava fin dall’inizio.», disse Lacy tutto d’un tratto.
«Oh, ecco! Nebraska ti presento Lacy, affetto da schizofrenia e con alle spalle una dozzina di omicidi. Lacy questa è Nebraska, l’omicida della famiglia Collins.»
Rimasi un po’ turbata dalla presentazione fatta da Jonathan, più che altro perché era stato lui stesso diverso tempo prima a dirmi che era meglio non conoscere il passato dei pazienti; e di certo dirmi che era un serial killer schizofrenico non mi aiutava a stringergli la mano senza sembrare rigida e a disagio.
«Tranquilla Herstal, Lacy è apposto, non tenterà di uccidere anche te.»
Lo fulminai con gli occhi; non era di certo quello il modo migliore per rassicurare qualcuno ed ero certa lui lo sapesse bene.
«Fate silenzio voi tre!», urlò la dottoressa Lee tutto d’un tratto. Si alzò e con un sorriso ben poco sincero si avvicino a Oldboy per farlo accomodare all’iniziale posto di Jonathan, dopodiché tornò a sedersi e guardò noi tre con uno sguardo che non prometteva nulla di buono. «È nel vostro interesse collaborare con noi se desiderate una permanenza tranquilla nell’ospedale.»
«Crede che se me ne importasse qualcosa farei tutto questo chiasso?», replicò Jonathan con una smorfia dipinta sul volto. «Io mi annoio, qui, e poiché nessuno sembra voler ascoltare le verità di un apparente pazzo assassino, farò in modo di non farvi passare delle belle giornate. E sfortunatamente io sono di parola. Ma avevamo già parlato tempo fa di questo, sbaglio?»
La dottoressa Lee chiuse gli occhi per qualche istante e parve riflettere; quando li riaprì lessi un velo di compassione rivolto interamente a Jonathan.
«Du sollst weg.»
«Ich will aber nicht.»
«Weg.»
Il significato dell’ultimo scambio di battute avvenuto tra i due sfuggì a tutti i presenti, me compresa: avevo riconosciuto la lingua, era tedesco, ma io non avevo le conoscenze necessarie per capire cosa significasse. Mi limitai a osservare Jonathan, perplessa, nella speranza che mi desse qualche spiegazione. Ovviamente lui non lo fece.
Si alzò dalla sedia, si stiracchiò e guardò la dottoressa Lee dritto negli occhi: anche questa volta si parlarono ma senza l'uso delle parole; non era nulla che noi, dall'esterno, potevamo comprendere affondo.
«Herstal, alzati.»
«Perché?»
«Se non l'hai capito ti sto dando l'opportunità di non scontare la tua “punizione”.»
La dottoressa Lee emise un sospiro, dopodiché mi guardò. «Va' anche tu, Nebraska. Ti autorizzo io.»
A quel punto non obiettai: se potevo davvero risparmiarmi quell'imbarazzante e noiosa terapia di gruppo o qualsiasi cosa fosse…
«Bene, allora…»
«Da quanto sei così educata da voler salutare?»
Jonathan mi prese per il polso e mi trascinò fuori dalla stanza, stringendolo più di quanto fosse necessario per portarmi via.
«Perché ce ne siamo andati? E cosa vi siete detti tu e la dottoressa Evans?»
«“Dovresti andare via.”, “Non voglio”, “Vai”. È tedesco.»
«Perché conosci il tedesco?»
«So anche il francese, lo spagnolo e un po’ di latino. I miei genitori tenevano molto ad avere i loro figli ben istruiti.»
Sapevo che non voleva gli facessi domande simili, ma non riuscii a trattenermi: «Avevi solo quella sorella?»
«Cosa ti importa?»
«Semplice curiosità. Non ho idea di chi tu sia stato prima di finire qui, non vuoi mai parlarne.»
Si fermò di colpo a pochi passi dall'infermeria, spazientito come ogni qual volta si toccava l'argomento.
«Sono il secondogenito di una famiglia benestante, educato, istruito a dovere, dal quoziente intellettivo leggermente superiore alla norma e per tale motivo ho subito pressioni di ogni tipo. Quest'ultima cosa ha influenzato così tanto la mia vita che ho passato l'intera adolescenza in compagnia di poche persone che potessi definire mie amiche: “loro non capiscono, sono stupidi” e così la maggior parte del mio tempo l'ho trascorso con Clara, mia sorella maggiore. I miei parenti e amici di famiglia erano convinti avessi qualche problema, socializzavo poco e avevo strane manie.» Sorrise amaro, si avvicinò leggermente e continuò a parlare puntando i suoi occhi acciaio nei miei. «Poi i miei genitori sono morti e siamo stati affidati a mio zio, di sicuro non una brava persona considerando che maltrattava Clara e l’ha uccisa quando lei è arrivata al limite della sopportazione dandomene la colpa. Ma ovviamente proclamare la mia innocenza non è servito a molto. Dopotutto, io ero quello strano e non c’era nessuno oltre mia sorella che pensasse il contrario.»
Fece uno scatto indietro, voltandosi per raggiungere la porta dell’infermeria e lasciandomi da sola con le sue parole: aveva sputato tutto in un solo colpo, facendo un riassunto perfetto della sua vita nel giro di pochi secondi; se quel che diceva era vero, avevamo in comune un passato molto più simile di quanto immaginassi, e non era da escludere che lui lo sapesse fin dall’inizio.
Lo raggiunsi con tutte le intenzioni di togliermi questo dubbio, ma come prevedibile lui rispose prima che io gli chiedessi qualsiasi cosa.
«Evita di sprecare fiato inutilmente, non ti risponderò.»
«Il tuo dono della telepatia è sorprendente.»
«Non prendermi in giro, Herstal. So cosa pensi perché ti conosco: sei troppo curiosa e detesti non avere risposte… Probabilmente è questo il motivo principale per cui ti sei legata a quel tizio senza nome che ti ostini a difendere. Ti dava le risposte che cercavi e doveva averti detto ben poco sul suo conto.» Prese una pausa, dopodiché fu come colto da un’illuminazione. «Herstal! Sei un’idiota!»
«Che ho fatto adesso? Ce l’hai ancora con me per il pugno?»
Ma lui aprì la porta dell’infermeria e mi costrinse ad entrare: era visibilmente fuori di testa, e iniziò a sbraitare affinché tutti i presenti eccetto il dottor Mayer uscissero per lasciarci soli.
«Ascoltatemi, ragazzi: al momento sono occupato e – »
«Nebraska si è fidata di uno sconosciuto, non conosce nemmeno il vero nome della persona che l’ha incastrata al suo posto in questo manicomio!»
Bingo.
Passai una mano tra i capelli, facendo una smorfia per quanto aveva appena detto Jonathan. Non dissi nulla per conferma o per diniego, ma la mia espressione era fin troppo chiara: sì, quello psicopatico ci ha visto giusto.
Io non sapevo nulla di Lui, nemmeno quanti anni avesse o quale fosse il suo lavoro – sempre se ne avesse uno. Voleva solo io gli parlassi di me, che gli raccontassi di quello che facevo ogni giorno anche se era oggettivamente poco interessante. E a me questo bastava, perché io non avevo bisogno d’altro, non desideravo altro.
Lessi negli occhi di Joshua tutte le intenzione di farmi una ramanzina ma alla fine rimase in silenzio; c’era qualcosa che lo turbava molto più di quello che Jonathan aveva detto, era distante, sovrappensiero.
«Dottore, mi risparmia gli insulti?»
«Per oggi sì, sono molto occupato e preferirei voi andaste – »
Jonathan lo interruppe: «Sta pensando ad Aiden, non è così?»
Joshua silenziò, con gli occhi fissi sulla superficie della scrivania, stringendo i pugni con forza.
«Sai quanto tenevo a quell’uomo.»
«Sì, e sappiamo entrambi che non può essere stata una morte naturale o una casualità.»
«Jonathan, non giungere a conclusioni affrettate…»
«Affrettate? Non prendiamoci in giro! Sa come sono andate le cose!»
E lo sapevo anche io, ci avrei messo la mano sul fuoco che Hijikata avesse fatto qualcosa a quel pover uomo. Non poteva essere una semplice coincidenza.
«Non abbiamo alcuna prova, Jonathan.», replicò ancora il dottore.
«Questo purtroppo lo so, ma volendo ci sarebbero prove per altri reati che ha commesso.» Si accomodò su una delle due sedie poste davanti alla scrivania di Joshua e continuò. «Aiden da solo non avrebbe vinto contro Hijikata, non aveva i mezzi necessari e nemmeno le conoscenze per mandarlo via da questo posto. Non è stato ucciso perché aveva paura di lui o per dargli una lezione; la morte di Aiden è un avvertimento, e alla prossima azione sbagliata sarà sicuramente Herstal a pagarne le conseguenze.»
Trasalii e mi avvicinai alla scrivania, senza sedermi: «Perché proprio me? L’azione più logica sarebbe uccidere il dottor Mayer; se lui sparisse, nessuno gli darebbe più fastidio.»
«Non ti sbagli del tutto, ma ci sono due cose che non hai tenuto in conto. La prima è che la morte di due dipendenti dello stesso ospedale nell’arco di poco tempo sarebbe una coincidenza forzata; la seconda è che Hijikata ha aiutato Joshua ad uscire da un periodo decisamente poco felice della sua vita dove ha tentato diverse volte di farla finita.» Fece una breve pausa, dopodiché puntò i suoi occhi nei miei. «Herstal, faresti mai del male al tuo salvatore?»
Guardai il dottore in cerca di una conferma, ma lui spostò l’attenzione su Jonathan: «Come fai a saperlo? Io non ne ho parlato a nessuno.»
«Tu non ne hai parlato, ma qualcun altro sì.», rispose con il sorriso sulle labbra, «Sai, Hijikata è un chiacchierone, e noi due passiamo molto tempo insieme.»
Joshua abbassò nuovamente lo sguardo verso la scrivania; sembrava pronto a implodere da un momento all’altro, non era affatto contento delle parole di Jonathan e a dire il vero non lo ero nemmeno io.
Se solo Joshua si fosse deciso, quel mostro sarebbe stato cacciato dall’ospedale e avrebbe smesso di far del male a noi pazienti. Nella mia testa si ripeteva ciclicamente la scena di Hijikata che prendeva a calci e umiliava Jonathan, quest’ultimo in lacrime e con la lingua tra i denti per non urlare. Perché quel ricordo mi faceva molto più male della saliva di Sam sul mio collo, delle sue viscide mani che tentavano di raggiungere la pelle sotto la mia felpa.
«Lei deve fare qualcosa.», dissi, «Non può permettere a Hijikata di – »
«Nebraska…»
«No, mi ascolti prima di dire qualsiasi cosa. So cosa vuol dire essere emotovamente legati al tal punto da non avere il coraggio di mettere nei guai chi si ama; sono consapevole di quanto sia più semplice chiudere gli occhi anziché agire e tentare seppur invano di far ragionare qualcuno. Ma la prego, dottor Mayer, non ci abbandoni. Noi non possiamo difenderci da soli, e a quanto pare lei ha la possibilità di salvarci.» Mi fermai per qualche istante, inumidendo le labbra e cercando il coraggio di portare avanti il mio discorso. «Non continui a proteggere quel mostro solo perché l’ha aiutata una volta, lui non lo merita.»
Joshua tacque e lo feci anche io. Avevo parlato più di quanto volessi, detto al dottore tutto quello che in realtà mi ripetevo spesso quando Lui tornava per tormentare i miei pensieri. Ma io, a differenza di Joshua, non avevo nulla in mano che mi permettesse di identificarlo, io non potevo nient’altro che soffrire in silenzio e rassegnarmi alla mia condanna.
Mi avvicinai al dottore e feci per posargli una mano sulla spalla con tutte le intenzioni di continuare a parlare, ma lui si scostò rapidamente.
«Sarebbe meglio voi tornaste nella sala comune; tra non molto verrà servito il pranzo.»
Non era una menzogna quella appena detta, ma la sua era una semplice scusa per congedarci educatamente e restare solo; se avessi insistito o lo avesse fatto Jonathan, il risultato sarebbe stato peggiore e avrebbe inveito contro di noi.
Cercai lo sguardo di Jonathan, abbandonato sulla sedia con un’espressione di disappunto che non si premurò di nascondere. Non sono mai stata in grado di capire cosa passasse nella testa di quel ragazzo, eppure in quel momento ero certa entrambi fossimo d’accordo che uscire dall’infermeria fosse la scelta migliore e non ce lo facemmo ripetere ulteriormente: varcammo la porta diretti alla sala comune, in silenzio, senza nemmeno salutare Mayer.
Avevo il morale a terra, ero convinta che Joshua non ci avrebbe aiutati e immaginavo anche Jonathan dovesse sentirsi di pessimo umore; eppure quest’ultimo canticchiava sottovoce un motivetto che non comprendevo, con gli occhi sereni e un sorriso appena accennato sulle labbra pur avendo l’attenzione delle guardie puntata interamente su di sé. Non capivo come potesse essere tanto tranquillo.
«Herstal, non tenere il muso, sei stata bravissima.»
«Bravissima in cosa?»
Jonathan fece uno scatto in avanti e iniziò a camminare all’indietro, cosicché potesse guardarmi perfettamente: «Magari non sembra, ma sono quasi certo tu abbia convinto Joshua ad andare contro Hijikata. Ci ho provato diverse volte anche io, ma i miei tentativi non sono serviti a molto. Credo tu gli piaccia molto più di me, quindi direi che molto probabilmente, tra un paio d’ore al massimo, si sarà completamente convinto che aiutarci sia la cosa giusta da fare.»
«Come fai a dirlo?»
Lui fece spallucce. «Io le persone so leggerle dentro, e lui non è tanto complicato come sembra.»



 




──Note dell'autore──
Questo capitolo è stato un parto e non so ancora chi legge questa storia: purtroppo l'estate mi rammollisce, e il troppo tempo libero mi fa sentire come se potessi fare qualsiasi cosa e ho iniziato a scrivere talmente tante di quelle cose diverse che alla fine Mental Disorder è passata in secondo piano.
Ma non uccidetemi: i prossimi capitoli sono già stati abbozzati, dunque gli aggiornamenti saranno sicuramente molto più rapidi di questo (se non altro non passeranno tre mesi prima che sentiate di nuovo Nebraska lamentarsi della sua villeggiatura in ospedale).
Potrei dirvi che quel pugno di Nebraska a Jonathan l'ho desiderato per diverso tempo e ho fatto in modo che finisse in questo capitolo (e non so come, ma sono anche riuscita a collegarlo), potrei raccontarvi di come non dovevo scrivere del passato di Jonathan e alla fine l'ho fatto, oppure ancora del perché io abbia deciso che Nebraska meritava di finire in uno di quei gruppi e "salvata" da chi nemmeno due ore prima l'aveva fatta diventare una cosa con il tavolo. Ma questo non interessa a nessuno, dunque buona lettura.
Ah: grazie per aver lasciato recensioni, aver messo MD nelle ricordate/seguite/favorite e per avermi inviato sollecitazioni di ogni tipo ricordandomi che Nebraska era ancora chiusa qua dentro e aspettava me.  


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「Nitrogen」
   
 
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