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Autore: ilovebooks3    28/09/2014    1 recensioni
Una raccolta di one shots per immaginare le nuove vite di Jane e Lisbon immediatamente dopo il finale della sesta stagione.
Perché la tempesta è finita, ed entrambi si meritano un po’ di arcobaleno.
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon, Un po' tutti | Coppie: Jane/Lisbon
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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GOLDEN RING

«Oh. E’ bello qui».
Jane era stato solo una volta nella casa di Lisbon ad Austin.
Anzi, non è esatto, visto che in quell’occasione si era limitato a fare capolino sulla soglia. Perché dentro c’era Pike.
«Più che altro è vuoto», sbuffa Lisbon, accendendo le luci.
I mobili ci sono tutti perché, quando Teresa si era trasferita nella capitale del Texas, aveva preferito prendere in affitto una casa già ammobiliata; era più comodo, lei non aveva certo il tempo di andare in giro a comprare pezzi di arredamento; e i pochi mobili che possedeva li aveva venduti con l’appartamento di Sacramento quando si era trasferita nello stato di Washington, dopo che il CBI era stato distrutto, insieme alla sua vita.
Quello che ora manca nella villetta in stile coloniale dove ha vissuto per alcuni mesi sono i soprammobili; molti oggetti a cui è affezionata; vestiti; borse; scarpe. Lisbon non possiede molti oggetti personali del genere in realtà, non ha mai amato particolarmente la moda. Però, nell’ultima settimana, aveva comunque pensato di alleggerire il suo trasloco mandandone un po’ per volta a Washington, da Marcus. Forse anche per convincere se stessa che la decisione ormai era stata presa.
«Alcune cose le avevo già spedite a Pike», spiega, mordendosi il labbro.
«Capisco», biascica Jane, mogio.
Poi si rianima improvvisamente, guardandosi intorno con curiosità.
Una casa dice molto della persona che vi abita. Non che lui abbia bisogno di scoprire i segreti di Lisbon, la conosce da molti anni e li sa già tutti, o almeno crede. In ogni caso sarà interessante.
«Gli chiederò di rispedirmele al più presto», mormora Teresa, quasi tra se’ e se’.
Peccato che in quella casa Pike abbia bazzicato un po’ troppo spesso. «Oppure compri tutto nuovo. Ti va? Potrebbe essere divertente», propone Patrick, senza guardarla in viso.
«Jane, non ho paura di affrontare Marcus. Sono una donna adulta», gli ricorda, con il tono di voce che userebbe una mamma per rassicurare il suo bambino di cinque anni riguardo la non pericolosità di un inesistente Uomo Nero. E’ ovvio che lei stessa non muore dalla voglia di risentire il suo ex futuro marito dopo la patetica telefonata con cui gli aveva annunciato che non lo avrebbe né raggiunto né, tanto meno, sposato. Ma è necessario e lo farà. Lei fa sempre quello che è necessario. O quasi sempre.
«Lo so. Sono io che ho paura», le rivela lui, continuando a tenere gli occhi bassi.
«Credi che risentire Marcus al telefono mi farà improvvisamente cambiare idea? Pensi che potrei raggiungerlo a Washington?», gli chiede Teresa, sbalordita.
«Non lo so».
L’insolita insicurezza dell’uomo più sicuro di se’ che lei abbia mai avuto l’onore di incontrare la colpisce; anzi, quasi la commuove. Con tre dita gli sfiora il mento, sollevandoglielo per fare in modo che i loro occhi si incontrino. «Non fare l’idiota, Jane. E’ qui che voglio stare. Con te. E nulla potrebbe farmi andare via. Nemmeno il casino più grande che tu potresti mai combinare». Teresa ha alzato leggermente la voce. Vuole che il concetto sia chiaro.
Una calda ondata di gratitudine invade il petto di Patrick. E’ raro che Lisbon sia così esplicita quando si tratta dei suoi sentimenti. E se lo fa, c’è da crederle.
«Oh. Ok». E, finalmente, sorride. Uno di quei sorrisi disarmanti che solo lui sa fare.
«Non stare lì impalato, Jane. Mettiti comodo, dai», lo esorta lei, interrompendo il contatto visivo e l’esponenziale arrossamento delle sue guance (tutta colpa di quell’irresistibile sorriso).
Poi la donna si accorge che il biondo consulente non ha nulla con se’. Ne’ valigia, né vestiti. Nulla. Lei, per lo meno, ha il borsone che si era portata a Islamorada. E, per fortuna, in casa sono rimasti ancora alcuni dei suoi vestiti.
Lo guarda con aria interrogativa, chiedendo, senza bisogno di parole, tanto a lui quanto a se stessa, cosa avrebbero fatto.
«Sì, hai ragione Lisbon. Prenderò le mie cose nell’airstream e le porterò qui. Ma non stasera. Ci penserò domani», dice pacatamente Jane, rispondendo all’ implicita domanda contenuta in quel paio di spettacolari occhi verdi.
«Ok. Ti mostro la casa», propone Teresa, non riuscendo a nascondere un sorriso a trentadue denti. Allora il mentalista ha sul serio intenzione di restare.
«Oh. La conosco già», esclama lui con tono saccente. Ed ecco che comincia il Jane show. «E’ una casa grande. E a te non piacciono le case grandi perché ti fanno sentire più sola. Ma questa ti piace. E’ luminosa e accogliente, ha un bel giardinetto sul retro (in cui speravi di trovare il tempo di piantare qualche fiore), è perfettamente ammobiliata, e l’affitto costa poco perché è in una zona non comodissima al centro. Ma è vicina alla sede dell’FBI, quindi per te è perfetta. Lì a destra c’è la cucina; scommetto che il frigo è vuoto e che non c’è neanche una bustina di tè o un bollitore. Ancora più a destra c’è la sala da pranzo; quando sei sola non la usi, preferisci mangiare in cucina. Invece a sinistra abbiamo il salotto, con due grandi divani e uno scaffale pieno di dvd, soprattutto vecchie commedie romantiche e western, che non hai ancora spedito a Washington. Forse perché una piccola parte di te sapeva che non ci saresti andata.  Di sopra c’è la tua camera. Letto grande, con un copriletto verde, probabilmente; e con molte coperte, di notte soffri il freddo e qui non siamo certo in California. Vicino si trova il bagno, che profuma del tuo bagnoschiuma preferito, rigorosamente alla fragola. E hai anche una stanza degli ospiti, con bagno annesso, perché speri sempre che qualcuno dei tuoi fratelli venga a trovarti. Ma finora non sono ancora venuti, ed è una cosa che ti rende triste».
Lo spettacolo è terminato e, come sempre, ha colto nel segno. E, come sempre, lascia Lisbon di stucco.
«Ok. Odio quando entri nella mia testa. Almeno, però, mi risparmi il fastidio di farti da guida turistica», borbotta, fingendo più irritazione di quella che prova in realtà. E’ vero, Jane è bravo a cogliere i dettagli più insignificanti, ma, più che altro, la conosce molto bene.
«Ho indovinato?»
«Sì. Eccetto una cosa».
«Quale?». La curiosità sta divorando Patrick. Sbagliare non è da lui.
«Ho un bollitore. E molte bustine di tè, rigorosamente Twinings», esclama lei con tono vittorioso.
«Perchè? Tu odi il tè». Jane è davvero sorpreso. Ma, del resto, Lisbon, nonostante la sua prevedibilità, riesce spesso a stupirlo. Non ha ancora deciso se questa cosa gli piaccia. Probabilmente sì.
Teresa arrossisce e non dice nulla.
«Ah capisco. Non sapevo che Pike amasse il tè», mormora Jane, con una sfumatura di irritazione nella voce, di cui non va fiero.
«No, no, a lui non piace».
«E quindi?»
«Ha cominciato a piacermi da quando te ne sei andato. Due anni fa. Lo bevevo e pensavo a te. A dove fossi finito. A cosa stavi facendo. Se ti avrei mai rivisto». La voce di Lisbon è poco più di un sussurro.
Patrick pensa che sia la cosa più romantica che qualcuno abbia mai fatto per lui. Ma sta in silenzio. Non saprebbe come dirlo. Proprio lui che è il mago delle parole. Allora si limita a sorridere.
«Mi andrebbe proprio una bella tazza di tè», propone poi, dirigendosi verso la cucina.
«Preparatelo da solo, Jane. Io vado a farmi una doccia».
«Ma hai appena detto che ti piace», le ricorda lui, confuso come un mentalista non dovrebbe mai essere.
«Sì, ho imparato ad apprezzarlo. Ma ora non mi serve più», mormora Teresa, guardandolo intensamente. Ora ha direttamente lui. Ed è molto meglio.
Poi scompare per le scale, sorridendo di nascosto. Non fa in tempo a notare che Patrick Jane, l’uomo che ha sempre tutto controllo e che si diverte a imbarazzare la gente, è arrossito.

**********

Jane resta in piedi, immobile, per alcuni interminabili minuti.
Quando si riscuote, sente l’acqua scorrere al piano di sopra; Lisbon dev’essere già sotto la doccia. Si guarda intorno. C’è un’atmosfera familiare, insolita per lui.
C’è un calore che, da dodici anni, aveva dimenticato potesse esistere.
C’è, semplicemente, aria di casa.
Nonostante lui, in questa casa, non possieda neanche un paio di pantaloni di ricambio; e nonostante il frigo sia vuoto.
Una famiglia. Ha sempre considerato il vecchio team qualcosa di molto simile a una famiglia.
Non è del tutto esatto. Vuole bene a ogni componente dell’ex squadra del CBI, ma quella è una cosa diversa.
E’ Lisbon la sua famiglia. E mai, prima d’ora, gli è apparso così chiaro questo concetto.
Fissa con insistenza la sua mano sinistra.
All’anulare porta ancora la fede. Aveva provato a toglierla sull’isola, per dimostrare a se stesso di essere in grado di ricominciare e di uscire con una donna. Non era andata bene. Solamente perché la donna in questione non era Lisbon.
Anche loro sono la sua famiglia. Lo saranno sempre. Ma loro non ci sono più.
Con l’indice della mano destra tocca l’anello. E quello che sente mentre lo fa lo sorprende.
Non è più quel gelido pezzo di metallo che l’ha tormentato per dodici lunghi, vuoti, crudeli, interminabili anni. E’ caldo. Forse perché, ora, il suo cuore lo è.
Che sciocchezze sentimentali, pensa Patrick.
Eppure è proprio così, deve riconoscere.
Sfiorarlo, percorrerlo col polpastrello in spessore e in lunghezza non gli provoca più quella mortale fitta al petto. Al contrario gli fa rivivere ricordi felici. Ricordi che custodisce con cura nel suo palazzo della memoria, vividi come se fossero accaduti solo ieri. Un’Angela bambina, al circo in cui anche lui viveva e lavorava. Un’Angela adolescente, bellissima. Il primo appuntamento. Il primo bacio. La prima notte. Il loro matrimonio. La nascita di Charlotte.
Si sfila l’anello dal dito, e lo poggia sul tavolo. Lo guarda. Lo riprende in mano, soppesandolo. Non è più un macigno, è leggero.
Ci gioca per qualche minuto. Lo nasconde in una mano, per poi farlo riapparire nell’altra. Come faceva per divertire sua figlia. E’ sempre stato bravo con i giochi di prestigio. Sorride. Poi ritorna serio.
Non può più indossare quell’anello. Non è giusto.
Non è giusto per Teresa.
Non è giusto nemmeno per sua moglie e sua figlia.
Non è giusto soprattutto per lui.
Perché lui non è più l’uomo che aveva fatto quella promessa. Il dolore l’ha trasformato in una persona molto diversa da quella che, una quindicina di anni fa, aveva infilato al dito di Angela un anello simile al proprio. Erano giovani. Si amavano. Si conoscevano da quando avevano imparato a camminare. Sposarsi era la cosa più naturale.
Probabilmente se sua moglie fosse qui, non le piacerebbe affatto la persona che è diventato.
Certo, se sua moglie fosse qui, lui non sarebbe diventato così. Perché il dolore non avrebbe distrutto la sua vita e la sua anima. Quindi il problema non si porrebbe.
O forse sì.
Forse sarebbe cambiato per qualche altro motivo.
Ma Lisbon, solo lei, lo ama per come è. Adesso.
Ama questo ex assassino ex truffatore.
Ama questo giullare che nasconde l’oscurità dietro a un sorriso.
Ama questa statua di ghiaccio che non sa comportarsi da normale essere umano.
Ama questo buffone di corte che combina milioni di guai solo per il gusto di combinarli.
E lui, questo fantasma che non riconosce neanche il suo riflesso nello specchio, ama Teresa con tutto quello che resta del suo cuore malconcio.
E’ egoismo il suo, lo sa benissimo. Ma questo è tutto quello che conta ora.
Prende in mano l’anello per un’ultima volta. Se lo porta alle labbra, sfiorandolo in un lieve bacio.
Con l’altra mano afferra il portafoglio che porta nella tasca destra della giacca.
Lo apre e infila la fede nella tasca degli spiccioli.
In questo modo sarà sempre con lui. Come ricordo, però.
Non come legame. Non come peso. Non come alibi.
Per un attimo una fitta di senso di colpa lo attraversa.
Lui è vivo. Loro no. Per colpa sua.
Ma lui ha scontato la sua pena. Non è innocente, certo, ma è un uomo libero da quando ha avuto quella vendetta che aveva promesso.
Anzi no.
E’ un uomo libero da quando si è accorto di essere in grado di amare, ed essere amato, di nuovo. Forse più intensamente di prima, o forse no; forse con più consapevolezza, questo non saprebbe dirlo, e non sarebbe neanche giusto.
In ogni caso portare al dito quell’anello non ha più senso.
Guarda la sua mano e gli sembra tristemente vuota. Una lacrima vorrebbe fare capolino, ma lui non glielo permette. Angela e Charlotte non vorrebbero vederlo piangere ancora, questo è sicuro. Gli sembra di sentirle mentre gli bisbigliano “Non è colpa tua”.
La colpa, ovviamente, è interamente sua. Ma non fa più così male.
Se non odia più se stesso, o, almeno, non come prima, il merito è tutto di una combattiva poliziotta dagli occhi verdi.
A questo pensiero un’inattesa serenità gli riempie il cuore.
Adesso, però, ha bisogno di un buon tè.
 
**********
 
Quando Lisbon riemerge dalla doccia e scende in cucina, indossando jeans e maglia puliti, trova un Jane pensieroso che si gusta la sua tazza di tè.
«A cosa stai pensando?»
«A cosa poterti preparare per cena. Non c’è molta scelta. Ci sono delle uova, però. E, come sai, io adoro le uova. Ti vanno?», propone il biondo, senza smettere di sorseggiare il suo corroborante liquido.
«Sì, grazie. Ma stai tranquillo, Jane. Posso prepararle io. Dopotutto hai passato una notte in prigione. Te la sei meritata eh… Ma sarai stanco. E hai male alla caviglia, lo so». Come sempre, Lisbon non può fare a meno di preoccuparsi per quell’adorabile quanto irritante pazzoide che si mette sempre nei guai.
In realtà, Patrick della sua caviglia si era proprio dimenticato.
«Tu non ami cucinare». Come sempre, la sua non è una domanda. Lui non ha bisogno di fare domande.
«No, non molto», ammette Teresa, che è molto più a suo agio in una sparatoria che tra i fornelli.
«Ti ricorda quando dovevi cucinare per tuo padre».
«Già».
«E’ per questo che ci sono io», esclama Patrick con tono trionfante. E’ entusiasta come un bambino a cui hanno appena regalato un giocattolo nuovo.
«A te piace cucinare?». Evidentemente ci sono dei lati del consulente che Teresa non ha mai avuto l’occasione di conoscere e apprezzare. Non vede l’ora di scoprirli tutti. Anche quelli più nascosti.
«Sì, molto. Sono bravo».
«E presuntuoso», controbatte lei, anche per mimetizzare il rossore che sta, ben poco garbatamente, invadendo il suo viso da quando il pensiero di un certo lato nascosto di Patrick Jane, a lei sconosciuto, ha cominciato a farsi strada nella sua mente; un genere di lato nascosto non molto casto.
«Quello l’hai sempre saputo».
«Già. Su, allora vediamo di cosa sei capace».
Lisbon incrocia le braccia sul petto, aspettando di vedere che razza di trucco escogiterà Jane.
«Madame, si accomodi pure sul divano, in attesa che la cena sia servita».
«Come preferisce, Monsieur».
Teresa si allontana dalla cucina, lasciando Patrick padrone indiscusso. Spera almeno che non le metta a fuoco la casa.
Jane la guarda con soddisfazione allontanarsi. D’ora in poi ha intenzione di viziarla.
Non molto, sa già che quella brontolona non glielo permetterebbe; solo un po’.
 
**********
 
Lisbon si sta quasi per addormentare. Accoccolata su quel divano così comodo; dopo una giornata pesante, e memorabile, come quella che ha trascorso; con il sottofondo di rassicuranti rumori che provengono dalla cucina; con Patrick Jane che pensa alla cena e si prende cura di lei.
Jane, dal canto suo, sta dando il meglio di se’ ai fornelli. Peccato che frigo e dispensa offrano solo una dozzina di uova, mezzo cartoccio di latte (si spera non andato a male), un po’ di zucchero, qualche misera fetta di prosciutto in vaschetta, un fondo di formaggio e residui di marmellata. E’ un po’ poco per dare libero sfogo al suo immenso estro culinario. Ma i grandi artisti si vedono nelle avversità.
Si rimbocca le maniche, tira fuori dagli sportelli padelle che, sicuramente, appartengono al proprietario della casa (Lisbon non si è mai presa la briga di usarle, figuriamoci di comprarle), e si destreggia abilmente come se fosse sempre vissuto in quella casa.
Quando è tutto pronto, va in salotto.
La sua Teresa si sta quasi per addormentare, lo intuisce chiaramente dagli occhi ridotti a due fessure e dalla testa ciondolante.
Quasi gli dispiace svegliarla e, per un attimo, è tentato di non farlo.
Ma poi pensa che, probabilmente, è a digiuno da molte ore. E una Lisbon con lo stomaco vuoto è qualcosa che è meglio non affrontare.
Si avvicina, scrollandole dolcemente il braccio.
«Pigrona, la cena è pronta».
«Oh. Arrivo Patrick, grazie. Ho proprio fame». Il fatto che lo chiami spontaneamente per nome vuol dire che è mezza rintronata dal sonno. O, appunto, dalla fame. In ogni caso, suona bene.
«Dopo di voi, principessa», scherza lui, facendole un profondo inchino e indicandole la sala da pranzo.
Lisbon sorride, un po’ imbarazzata. Non è mai stata oggetto di tante attenzioni. Ma, conoscendo quel farabutto, da qualche parte ci dev’essere un inghippo.
E invece no.
La tavola è apparecchiata come a lei non è mai venuto in mente di fare nemmeno il giorno del Ringraziamento.
Jane ha trovato una tovaglia che Teresa non ricordava nemmeno dove fosse. Di cotone pregiato, bianca a fiori blu. Era la tovaglia preferita di sua madre; Teresa l’aveva voluta con se’, ma, in ogni casa in cui si è trovata a vivere, l’ha sempre relegata in fondo a un cassetto. Guardarla le faceva male. Figuriamoci mangiarci sopra.
Ora pensa che sia semplicemente perfetta. E che Jane non potesse farle una sorpresa più gradita.
Ma, probabilmente, lui questo lo sa già.
Gli sorride, riconoscente, con gli occhi più lucidi di quanto vorrebbe.
«Era la tovaglia preferita di mia madre», spiega, anche se, conoscendo Jane, non c’è alcun bisogno di farlo.
«Immaginavo fosse un ricordo di famiglia. Era in fondo al cassetto più scomodo della credenza, piegata con cura e ricoperta di polvere. E’ di una stoffa pregiata e antica, sicuramente non l’hai comprata tu. E non l’hai mai nemmeno usata. Ho pensato che fosse venuto il momento di tirarla fuori».
«Già».
«Ho fatto male?», le domanda Patrick, dubbioso. Forse non è stata una grande idea. Forse rivedere quella tovaglia l’ha turbata. Eppure gli sembrava una cosa dolce e familiare.
«Non leggi nella mia mente che ne sono molto felice?», lo prende in giro la padrona di casa.
«Ovviamente sì, ma volevo esserne sicuro».
«Ora lo sei», assicura lei, sfoderando un sorriso.
E’ così bello rendere felice Lisbon. E così facile. A volte sembra una bimba. «Siediti, Teresa». Le sussurra dolcemente, prendendola per mano e conducendola al tavolo.
«La casa non è ancora andata  a fuoco. E’ già qualcosa», ironizza lei, sollevando le sopracciglia.
«Per ora», mette in chiaro lo chef, facendole l’occhiolino.
Jane scompare per un attimo in cucina, per poi tornare con un enorme vassoio che Lisbon ha sempre pensato potesse essere più utile a un reggimento di soldati che a lei. E invece, ora, è pieno zeppo di crèpes solo per loro due.
«Wow Jane. Le hai fatte tu?». Domanda idiota, se ne rende conto anche da sola.
«Beh sì, non erano nel congelatore. Dentro ho messo quello che ho trovato in dispensa. Spero ti piacciano».
In dispensa c’era poco, pochissimo. Eppure Jane è riuscito a trasformare le sue misere provviste in qualcosa di bello.
E buono. Molto.
«Mmmmm», mugola Teresa, dopo aver assaggiato il primo morso.
«Ti piacciono?», domanda Jane speranzoso.
«Non lo vedi dalle mie espressioni facciali?»
«Non valgono mentre mastichi».
«Maleducato. Vorresti dire che mangio in modo poco elegante?», chiede Lisbon, fingendosi offesa.
«Voglio dire che mangi in modo vorace. Come tutti dovrebbero fare. E’ molto sexy, tra l’altro».
L’ultima parte della frase non può non far arrossire l’affamata agente.
Meglio cambiare discorso. «Sono buonissime, Patrick. Sul serio».
«Bene. Mi fa piacere», sussurra Jane. Gli scalda il cuore il pensiero di aver fatto qualcosa per lei.
«Non abituarti a tutti questi complimenti, però», mette in chiaro la donna specializzata in docce fredde.
«E tu non abituarti ai manicaretti del più grande chef d’America».
Teresa alza gli occhi al cielo. «Il più grande presuntuoso d’America, vorrai dire. Anzi, probabilmente, del mondo».
«Suvvia Lisbon, è la prima cosa che ti ha colpito di me. E ti piace. Ammettilo».
«Sulla seconda frase avrei qualche dubbio».
«Non me la bevo. Non puoi mentirmi, lo sai», la minaccia, fissandola intensamente.
Ma Lisbon sta correndo dietro a un pensiero che ha appena fatto capolino nella sua mente. E ne approfitta anche per sviare il discorso. «E tu? Qual è la prima cosa che ti ha colpito di me?», gli chiede, un po’ con ironia e un po’ con genuina curiosità.
Jane riflette qualche secondo. Molte immagini gli scorrono davanti agli occhi. Una tra tutte, una mano che lo tira su da terra e lo sostiene. «Oh, molte cose. Per prima la tua umanità, credo; verso di me, un disperato pazzoide fuori controllo, verso i tuoi colleghi, verso le vittime del primo caso in cui mi sono trovato a seguirti. Poi i tuoi occhi» Un guizzo malandrino interrompe improvvisamente la serietà del suo discorso. «Ma, ancor prima, la tua statura tascabile. E, soprattutto, la tua pistola».
«Idiota». Aveva avuto comunque una risposta abbastanza soddisfacente.
«Oh Lisbon, lo sai che adoro farti arrabbiare».
Tra una crèpe e l’altra (Teresa non saprebbe dire se le piacciono di più quelle salate o quelle dolci), parlano di tutto e di niente. Di uova. Di arredamento. Di libri. Di film. Di Austin che, malgrado la prima impressione, non è un brutto posto in cui vivere. Di come Jane ha imparato a cucinare. Di quando Lisbon ha cominciato a odiare cucinare. Di Parigi, il luogo che ha dato i natali a quello che stanno divorando con voracità; entrambi ci sono stati, molti anni fa. Dei posti che hanno visitato e di quelli che non hanno mai visto. Della madre di Lisbon, che sapeva preparare una frittata strepitosa. Di Charlotte, che adorava le crepes con la marmellata. Di aneddoti divertenti avvenuti al CBI, molti anni fa. Di quanto è bello essere sotto lo stesso tetto, rilassati come non sono mai stati. Del passato e del presente.
Del futuro no, non ne hanno bisogno.
Passano le ore, anche se per Jane e Lisbon non sembrano che minuti.
Si sta bene così, insieme, a condividere cose semplici, come cibo e chiacchiere. Senza maschere. Senza giochetti. Senza difese. Solo loro due. Non ne hanno mai avuto il tempo. O la possibilità. O entrambe le cose.
Lisbon insiste per lavare i piatti, dopotutto il suo mentalista ha già lavorato abbastanza per stasera.
Jane, pur a malincuore, acconsente, perché sa che quando Lisbon è così determinata è più prudente assecondarla; dopotutto ha una pistola, anzi, più di una in effetti.
Eppure non si allontana, e comincia a osservare con insistenza le mosse dell’improvvisata casalinga, sapendo che questo l’avrebbe fatta uscire dai gangheri nel giro di cinque minuti.
E infatti Teresa, allo scadere del quinto minuto, pur di non sentirlo gironzolare per la cucina ciondolando e commentando il suo modo di lavare i piatti, acconsente a coinvolgerlo in quell’interessante operazione. Era proprio quello lo scopo di Patrick.
«Io lavo, tu asciughi. Almeno fai qualcosa di utile».
«Tesoro, io sono utile anche quando non faccio niente di utile».
La lavapiatti si blocca.
Tesoro. L’ha chiamata Tesoro. Non le sono mai piaciuti i nomignoli affettuosi, li ha sempre ritenuti stupidamente sdolcinati.
Ora Lisbon pensa che non esista al mondo una parola più bella di quella che Jane ha appena pronunciato, quasi con noncuranza, davanti a un lavabo ricolmo di piatti sporchi. Mentre entrambi indossano guanti di gomma e lanciano schizzi d’acqua ovunque. Eppure, ora lo sa, non esiste un luogo più romantico della sua cucina.
Jane vede Teresa immobilizzarsi. Riconosce chiaramente il fremito di tensione che la irrigidisce.
Tesoro. L’ha appena chiamata tesoro. E tecnicamente non stanno ancora insieme.
Non è esatto. In effetti stanno insieme da sempre. E in questa cucina, presi da un’attività così banale e, allo stesso tempo, importante, gli è venuto spontaneo chiamarla così.
Forse Lisbon non ha apprezzato. Che stupido. Forse ha corso troppo e l’ha spaventata.
La guarda, per qualche secondo. Non ha idea di cosa stia pensando. Da quando non è più un libro aperto per lui? Probabilmente sta scegliendo quale oggetto contundente lanciargli sul naso.
Poi la vede sorridere, come tra se’ e se’. Un sorriso sognante. Un po’ incredulo. Felice.
Dopodiché riprende a lavare i piatti, come se nulla fosse.
E Jane capisce di aver appena ricevuto il permesso di chiamarla così.
 
**********
 
«Direi che abbiamo finito».
«Visto? In due si fa prima. Ed è più divertente», puntualizza il biondo.
«Già. In due è più divertente». Cioè, non semplicemente in due. Con Patrick Jane. E tutto, con lui, è più divertente, non solo lavare i piatti.
«Sei stanca. Andiamo a dormire».
Come sempre Jane capisce quello di cui Teresa ha bisogno, ancor prima che lei stessa se ne renda conto. Comodo, amare un mentalista. «Buona idea», accetta Lisbon, sbadigliando rumorosamente.
Ma, quando si rende conto di quello che il consulente ha appena detto, arrossisce.
Andiamo a dormire. Insieme.
«Dormire, Lisbon. Nel vero senso della parola», la avverte il consulente in questione, divertito dall’espressione della donna. «Per oggi, almeno», aggiunge con un tono di voce più profondo e fissandole maliziosamente le labbra.
Il colorito di Teresa diventa ancora più acceso.
«Certo, certo. Dormire. Stavo pensando a quello. Cos’hai capito?»
«Mmm…credo proprio che, invece, stessi pensando ad attività più gioiose e piacevoli».
«Non è vero. Jane esci dalla mia testa!», gli intima con una voce più acuta di un centinaio di decibel.
Ecco, gli mancava quella frase. Patrick intuisce che non è il caso di tirare troppo la corda, potrebbe ritrovarsi con un proiettile conficcato da qualche parte. Però è un peccato non poter continuare il suo giochetto, la reazione di Teresa è davvero spassosa. E tenera. Ed eccitante.
Anche Lisbon decide di lasciar cadere il discorso, intanto non riuscirebbe mai a spuntarla. Faticoso amare un mentalista.
Si avvia per le scale, col viso in fiamme e il cuore gonfio di emozioni, seguita a ruota da Jane.
Dunque non ha intenzione di dormire sul divano, pensa Teresa.
«No, Lisbon. Niente divano. Preferirei il tuo comodo letto, ammesso che tu sia d’accordo».
Incredibile. Ma, ormai da molti anni, la donna ha smesso di chiedersi come ci riesca. «E va bene, se insisti», scherza Teresa, fingendo rassegnazione per nascondere quanto poco, in realtà, le dispiaccia la proposta.
Quando arrivano in camera da letto, entrambi si guardano per un attimo e, non possono fare a meno di sorridersi. E’ una cosa che fanno piuttosto spesso, più o meno da dodici anni. Guardarsi, e poi sorridersi nel giro di una frazione di secondo. Istinto omicida permettendo.
Ma stavolta c’è qualcosa in più. Entrambi stanno pensando a quanto è cambiato il loro rapporto in sole 24 ore. E’ tutto troppo insolito per rimanere indifferenti; ma è anche stranamente naturale. Gesti che ieri sarebbero stati impensabili, ora sono la cosa più semplice del mondo. E’ un peccato essersi complicati così tanto la vita e aver perso tutto quel tempo.
Sono eccitati come due bambini che stanno per iniziare una nuova avventura; ma si sentono a proprio agio come se condividessero la stessa stanza da sempre.
Jane si appropria del lato destro del letto, probabilmente sapendo già che Lisbon è abituata a dormire nel lato sinistro. Teresa si siede vicino a lui.
«Ehi già invadi il mio lato?», la prende in giro il mentalista.
«E’ strano», afferma Lisbon ignorando la battuta.
«Cosa?». Jane sa perfettamente di cosa stia parlando, ma vuole sentirlo dalla voce di lei.
«Noi due. Qui. Insieme».
«Già».
«Ma è anche così…»
«…Normale?»
«Già. Mi hai letto nella mente o lo pensi anche tu?»
«Entrambe le cose».
«Bene. E’ una fortuna», afferma Lisbon, ripetendo di proposito la frase che Jane le aveva detto nella sala interrogatori della TSA.
«Già», risponde Patrick, cogliendo la citazione. Le accarezza lievemente una ciocca di capelli, poi si ferma. «Lisbon, starei tutta la notte a guardarti negli occhi, e probabilmente non solo questo, ma forse è meglio che mi faccia una doccia».
«Lo penso anch’io», controbatte lei con una delle sue occhiate sarcastiche. «Nel cassetto del bagno dovrebbe esserci un accappatoio pulito. E da qualche parte dovrei avere una tuta di Tommy, l’aveva lasciata una volta che era passato a salutarmi a Washington. Non gliel’ho più restituita, perché poi non è più venuto a trovarmi», continua, frugando in fondo all’armadio con ben poca delicatezza.
«Te la porti dietro ad ogni trasloco, ti piace avere in casa qualcosa di suo. Vedrai che verrà presto a trovarti». Lettura a caldo improvvisata.
«Eccola», esclama trionfante Teresa dopo alcuni minuti di impegnativa ricerca, porgendogli un’ informe pallottola di stoffa; ovvero l’indumento che l’elegantissimo Patrick Jane dovrebbe indossare.
Evidentemente Lisbon, tanto precisina sul lavoro, in casa è tutt’altro che ordinata. E quella tuta sembra davvero inquietante. Ma non importa, non è il momento di fare una sfilata di moda. «Grazie», si limita a dire l’ex mister Eleganza.
Mentre si avvia verso la porta del bagno, la voce sarcastica di Lisbon lo fa voltare. «Ah Jane, metti in lavatrice quelle calze!»
 
**********
 
La doccia l’ha rigenerato. E’ piacevole immergersi nel profumo alla fragola del bagnoschiuma di Lisbon.
Quando torna in camera, stretto in una tuta di una taglia più piccola della sua, e di un improponibile color giallo limone, si sente leggermente ridicolo. Non gli sono mai piaciute le tute.
Nello sguardo di Lisbon riconosce una scintilla di ironia, che non ha nessuna intenzione di risparmiargli.
«Il giallo non si addice ai tuoi capelli», lo prende in giro. Che poi lei pensi che Jane sia straordinariamente bello lo stesso (anzi, ancora di più, perché è in una versione familiare e casalinga riservata a lei), è un dettaglio. Che, stranamente, sfugge al mentalista, tutto preso ad autocommiserarsi.
«Non mettere il dito nella piaga, Lisbon».
Teresa, dal canto suo, indossa la sua maglia lunga di Lisbona. E’ vecchia e malandata, ma ci è affezionata perché gliela aveva portata suo fratello Tommy da un viaggio. E’ anche piuttosto sformata, ma non era certo il caso di indossare qualcosa di sexy solo perché avrebbe condiviso il letto con Patrick Jane. O no? Lui l’avrebbe presa in giro a vita. E poi la maggior parte della sua biancheria l’ha già spedita a Washington.
E, a dire il vero, non possiede nulla di sexy. Non le è mai piaciuta quella stupida lingerie in pizzo che pare tutte le donne, tranne lei, adorino indossare. Meglio qualcosa di comodo e sportivo, in cui sentirsi a proprio agio.
Jane la fissa. Probabilmente sta per indirizzare qualche battuta sarcastica al suo abbigliamento.
«Tu, invece, sei bellissima», le sussurra, squadrandola e stravolgendo le previsioni dell’improvvisata mentalista in erba.
A quell’inaspettato complimento, e sotto il suo sguardo scrutatore, Lisbon si sente avvampare.
In realtà non si è mai sentita meno bella come in questo momento, seduta nella sua metà di letto a gambe incrociate, con una vecchia maglia per pigiama e senza un filo di trucco.
Ignora che il suo neo coinquilino la stia ritenendo semplicemente meravigliosa. E tremendamente sexy. Ancora di più proprio perché è inconsapevole di esserlo.
Jane stacca con difficoltà lo sguardo da lei e si tuffa a capofitto nella sua metà di letto, apprezzandone la morbidezza. «Aaaahhh. Niente male il tuo letto, Lisbon. Se lo avessi saputo, ci avrei provato prima con te».
«Idiota», lo rimprovera lei, lanciandogli addosso il cuscino, fingendo di volerlo soffocare.
«E così stai cercando di farmi fuori già la prima sera di convivenza?», scherza Patrick, facendo l’offeso.
«Esattamente. Mi porto avanti».
«Dovrai metterci un po’ più di impegno, però».
«E’ proprio quello che ho intenzione di fare».
Dopo un’improvvisata, e sfiancante, battaglia di cuscini e attacchi di solletico a tradimento, è Lisbon ad avere la meglio.
Il mentalista si è appena arreso, sdraiandosi sul letto in posa drammatica, come se fosse stato colpito a morte.
La vincitrice rimane seduta accanto a lui, sovrastandolo, con ancora in mano la sua arma del delitto, ovvero il cuscino. Siccome non è giusto infierire sugli sconfitti, lo riappoggia magnanimamente sul letto, ridendo di gusto.
E’ bella la risata di Lisbon, pensa Jane. E’ calda e squillante, un po’ buffa. E’ musica per le sue orecchie. In uno slancio di tenerezza le prende la mano, ormai disarmata e inoffensiva.
Con il pollice disegna dei piccoli cerchi sul dorso. Quando è soddisfatto passa al palmo. E’ un contatto dolce e sensuale allo stesso tempo che sorprende entrambi.
Poi lascia una scia di piccoli baci sui polpastrelli, e sente che le pulsazioni di Lisbon aumentano. La cosa non può fargli che piacere.
Terminata questa meticolosa e interessante operazione, Jane alza il viso, puntando gli occhi in quelli della proprietaria di tale meravigliosa mano. Poi intreccia le sue dita in quelle di Teresa. Stanno così, a guardarsi mano nella mano per degli attimi infiniti. Si sentirebbero ridicoli se non fossero così presi l’uno dall’altro.
Quando, improvvisamente, Lisbon riattacca il cervello, ancora piuttosto intorpidito per colpa di un paio di intriganti labbra sulla sua pelle, realizza che manca qualcosa nella mano di Jane. Qualcosa di liscio, lucente e dorato.
«Dov’è la tua fede?», gli domanda, confusa.
«Nel mio portafoglio», risponde Patrick con tranquillità.
«Perché non la indossi?»
«Perché non ho bisogno di lei».
«Perché?», insiste la donna, incredula.
«Loro sono qui, nel mio cuore. Non ho bisogno di un anello per ricordarmene. L’anello mi serviva per allontanare le persone. Per simboleggiare il mio desiderio di vendetta. Per tenere vivo un legame morto. Per ricordarmi che non avrei potuto mai più legarmi a qualcuno». La voce gli trema leggermente, ma il suo viso è sereno.
«E ora?»
«Ora non ne ho più bisogno».
«Perché?»
«Sei poco perspicace, te l’hanno mai detto Lisbon? E’ ovvio. Perché ci sei tu», risponde come se fosse la cosa più scontata del mondo.
Teresa non riesce ad articolare una risposta coerente. E’ sorpresa. E’ terrorizzata. E’ triste. E’ felice.
E’ triste perché non riesce a non essere felice di una cosa triste.
Jane poggia ancora un tenero bacio sulla piccola mano di lei, prima di lasciarla libera. In una frazione di secondo ha compreso i sentimenti che stanno lottando nel cuore di Teresa. E quello è il suo modo di dirle che va tutto bene. Non hanno bisogno di parole, loro.
Lisbon arrossisce lievemente e si sdraia al suo fianco. Mentre lo fa un’involontaria lacrima, non saprebbe dire se di gioia, di tristezza o di entrambe le cose, le scivola via. Poi accoccola la testa nell’incavo della spalla di Jane.
Quella notte non avranno bisogno di altro. Solo di sentirsi vicini.
«Buona notte, Patrick».
«Buona notte, Teresa».
«Non russare, altrimenti…»
«Altrimenti mi tiri un pugno sul naso, lo so».
 
 
 





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Angolo dell'autrice: Ciao a tutti! Spero che questa one-shot piuttosto prolissa vi piaccia ;) Se avete voglia di lasciare le vostre opinioni, come sempre sono curiosissima. Il prossimo capitolo arriverà tra una decina di giorni. A presto :)
 
  
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