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Autore: JDAnathema    29/09/2014    5 recensioni
Berlino, inizi del 1900.
Sotto un tendone bianco e rosso, inizia una storia, le prime pagine vengono sfogliate. Il lettore legge, gusta le parole, i personaggi e a Berlino conoscerà gli Amanti, fra feste, ritratti, fughe, musiche e platee.
Ruberanno il cuore anche a lui? Oppure scapperanno, seguiranno la loro voglia di scoprire, di vivere e d'amare?
In una romantica Berlino, costruita su segreti, false apparenze e perversione, Rose e Nikolas ci raccontano la loro storia.
"Eppure sorridevano. Sorridevano a giocavano, come se nulla importasse. Come se i vestiti di seconda mano, il padre che rientrava nel pieno della notte dalla fabbrica, la madre che piangeva sui conti da pagare e i testi di scuola che non potevano permettersi fossero solo un aspetto secondario della vita – e, oh, quanto avrei voluto dargli tutto quello che io avevo per solo un poco, un attimo, un secondo di quel sorriso."
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Ci sono delle volte che mi faccio domande da sola, ad esempio, “cosa diavolo stai facendo?” oppure “ sei sicura di farcela?” - e questo momento è uno di quelli. La risposta è “spero” ad entrambe le domande. Cos'è Gli Amanti di Berlino? Gli Amanti di Berlino è un tentativo di scrivere qualcosa che vada oltre la Fanfiction strappalacrime e i deliri da fangirl. Gli amanti di Berlino è, di per sé, un racconto d'amore e di avventura – ma per me simboleggia un distacco, un nuovo inizio. Per una volta volevo provare a scrivere qualcosa che andasse oltre l'idea di prendere dei personaggi da tale saga e incasinare tutto – condendo l'insieme di errori grammaticali. Forse alcuni di voi mi hanno conosciuto come Winter1988 - account morto e sepolto, e ora mi leggono come JDAnathema. A tutti, vecchi e nuovi, benvenuti.

Bando alle ciance, vi lascio alla lettura dei primi passi della mia piccola “impresa”, in questo scritto che oserei chiamare prologo.


 

 

 

 












 
Prologo
Di cappelli e gradini


La fila avanzava poco a poco e l'aria frizzante di inizio autunno mi pizzicava le guance, mentre mi agitavo e salivo in punta di piedi per cercare di vedere qualcosa sopra quel mare di persone molto più alte di me. Il cappottino che indossavo mi arrivava alla ginocchia e il cappello di lana rossa mi stava enorme, cadendomi sopra gli occhi ad ogni passo.
«Papà, papà!» Chiamai, strattonando il lembo del cappotto dell'uomo di fianco a me, che mi rivolse un'occhiata d'ammonimento, ma mi disse con tono dolce: «Non alzare la voce voce, piccola».
La mia mano continuò a tirare il lembo del suo cappotto in una muta richiesta d'attenzione, che venne accontentata quando mio padre mi sollevò e mi mise sopra le sue spalle. Da lì riuscivo a scorgere il punto dove la fila si infilava sotto i lembi aperti del tendone, immergendosi in una calma e soffice oscurità che rendevano i suoni ovattati e che amplificava le emozioni.
Ho sempre amato il circo, fin dalla più tenera età; non era un motivo per far vedere alle persone il mio bel cappotto e le mie unghie curate, come lo era per mamma, o una costrizione famigliare come per papà. Era un piacere, unico a puro; immergersi in quell'atmosfera magica, quasi esotica. L'odore dolce e salato di popcorn al burro e quello chimico dello zucchero filato, i nomi impronunciabili degli artisti e i giochi di prestigio: nel circo non sentivi la magia, non la odoravi: la vivevi.
Andare al circo per me significa distogliere l'attenzione dalla realtà; come per alcune persone lo era leggere o cantare: lì riuscivo a esternarmi e, anche se solo per qualche ora, a sognare.
«Ansel non fare il ridicolo! Falla scendere, per l'amor di Dio». Mia madre è sempre stata una donna dai modi un po' bruschi. Mi piace pensare che dentro di sé mi ami come è giusto che una madre ami una figlia, ma allora ero piccola e impertinente – sapevo solo che quando c'era mia mamma in giro, anche il più piccolo divertimento era negato. Era un continuo destreggiarsi fra compiti ed esercizi, acconciature elaborate e lezioni d'etichetta. Sarei stata ben felice di dire che con papà mi rotolavo nel fango, uscivo a passeggiare e imparavo ad andare in bici, ma vi direi una bugia. Il fatto è che mio padre non c'era quasi mai a casa: solo uno o due giorni alla settimana, giusto il tempo per rifare la valigia, baciare sul capo moglie e figlia, dirmi “ma come sei diventata alta!” e ripartire per lavorare, nessuno sapeva dove – o meglio, credevo che almeno mia madre lo sapesse, ma non gliel'ho mai chiesto. Per me mio papà era una figura che andava e veniva nella mia vita; non una presenza costante come mamma, ma più un motivo di curiosità e novità che attendevo trepidamente ogni settimana: non sapevo se avrebbe avuto o no il cappello, se la cravatta che indossava sarebbe stata grigia o marrone o se avrebbe messo le scarpe con la punta tonda o quelle appuntite.
Mia madre schioccò la lingua con fare irritato. «Sa stare in piedi da sola, mettila giù», aggiunse.
In poco tempo mi ritrovai coi piedi per terra, gli scarponcini di camoscio che si appoggiavano alle foglie umide: neri su un tappeto di giallo e rosso.
Cercai con gli occhi mio padre, ma lui aveva già rivolto lo sguardo alla fila, che era avanzata di un altro poco. Dal mio modesto metro e dieci riuscivo a scorgere solo la tesa del suo cappello e la linea della mascella coperta da una leggera barba brizzolata.
Mia mamma – Elizabeth era il suo nome – mi porse una mano avvolta in un guanto porpora, dove poggiai la mia, paffutella, rosa e nuda. Il suo guanto era di velluto, caldo e soffice contro la pelle, ma allo stesso tempo estraneo, come non dovrebbe mai essere il tocco di una madre.
Suoni di risa fanciullesche e grida estasiate: volsi il mio sguardo a un gruppo di bambini che giocavano a rincorrersi sul terreno umido, proprio di fianco all'entrata del tendone. Non erano vestiti come me e mamma; cappottini lisi che probabilmente non li scaldavano molto, camicette che un tempo forse erano state bianchi e pantaloni che sembravano fatti di cartone. Eppure sorridevano. Sorridevano a giocavano, come se nulla importasse. Come se i vestiti di seconda mano, il padre che rientrava nel pieno della notte dalla fabbrica, la madre che piangeva sui conti da pagare e i testi di scuola che non potevano permettersi fossero solo un aspetto secondario della vita – e, oh, quanto avrei voluto dargli tutto quello che io avevo per solo un poco, un attimo, un secondo di quel sorriso.
Continuavo ad osservarli, fino a che anch'essi mi notarono. Uno di loro, con capelli rossicci e un viso da topo, a dispetto del mio cappello di lana e dei miei scarponcini caldi, mi risolve uno di quei sorrisi magici, accompagnato da una sola parola, un unione di suoni che mi sembrava più dolce di tutte le canzoni mai sentite prima. «Giochi?»
E una mano, che mi porgeva fin quasi troppo timidamente, non copriva minimamente la distanza che ci separava e che ovviamente non sarei mai riuscita ad afferrare.
Mi chiesi se sarebbe stata liscia e calda come il guanto di mamma o magari ruvida e callosa, segnata da graffi e con le unghie mangiate fino all'osso?
«Rose», mia madre chiamò, tirandomi il braccio delicatamente. «Dritta con la schiena, stiamo per entrare».
Successe tutto in fretta: pochi secondo dopo sentii mio padre frugare nel portafoglio per tirar fuori i soldi e ricevere in cambio tre biglietti bianchi e rossi. Il signore che glieli aveva dati ci rivolse un sorriso neanche lontanamente paragonabile a quello dei bambini. «Divertitevi», mormorò, già con lo sguardo fisso sul prossimo cliente.
Avevo ancora la mano in quella di mia madre, ma mi girai lo stesso per vedere il bambino coi capelli rossi , che probabilmente attendeva una risposta. Riuscivo quasi a vederlo, la mano tesa e i riccioli scossi dall'aria frizzante.
Avevano ripreso a giocare, come se non fosse successo nulla, e sempre con quel grande sorriso; illuminavano quel giorno cupo come la notte.


Avete presente quando un si dice “non giudicare mai un libro dalla copertina”? Magari non vi piace l'illustrazione, magari non vi piace neanche il titolo o il nome dell'autore è troppo ridondante per i vostri gusti, oppure ha la costa verde e a voi il verde non piace; ecco, così era quel tendone. Scarno, quasi trascurato con le sue strisce bianche e rossa, classiche nella loro semplicità, con volantini pieni di leoni, cappelli buffi e trapezisti incastrati fra le transenne, diventati ormai pensati e illeggibili per via della prima pioggia autunnale. Ma dentro lasciava senza fiato – come i libri. Trascinava l'avventore in un grandissimo, folle e caotico viaggio che lo lasciava a bocca aperta, con le parole in bocca ma troppo stupito per pronunciarle e dar voce ai suoi pensieri.
E quando uscivi era come se fossi vuoto, ti domandavi cosa ne avresti fatto della tua vita e cosa ne stavi facendo il quel momento – perché lavorare, dormire o mangiare, se ogni momento, in qualche parte del mondo, c'era uno spettacolo simile? Perché fermarsi ad un singolo biglietto, perché non comprarne dieci, cento o mille e vivere tutti i secondi di quella magia? Così come quando finisci un libro.
Ero appena entrata nel tendone, avevo fatto il primo passo, sfogliato la prima pagina; eravamo al prologo, io e i miei genitori, in attesa di entrare sotto il tendone centrale, alto come due campanili e altrettanto imponente.
Riuscivo già a sentire le risa della gente, le esclamazioni estasiate e le grida dei bambini di fronte ai leoni e alle tigri.
Come un teatro greco, la platea si sviluppava intorno a un cerchio centrale di terra battuta, con un grande tendone rosso dietro di esso; i gradini, di legno e pericolanti, mi ricordavano quelli dei piccoli ponti a Venezia, dove papà ci portò l'anno scorso: avevano visto troppe storie, troppi baci rubati, frasi sussurrate, addii non voluti e tutti quegli altri segreti che l'acqua trasportava con sé quando li lambiva; sapevano troppo, e scricchiolavano, cercando di sussurrare a noi umani ciò che avevano imparato nel corso degli anni, fin quando, alla fine, liberavano il loro sapere e non cedevano sotto lo stivale di qualche privilegiato che forse resterà bloccato con la gamba a penzoloni per un po', ma è stato scelto dal fato per sapere lui – e solo lui, i segreti di quel gradino.
Prendemmo posto e io, seduta fra i miei genitori, non riuscivo a stare ferma. Non vedevo l'ora che iniziasse lo spettacolo, ma allo stesso tempo, se doveva iniziare, doveva anche finire, prima o poi.
Mamma sembrava agitata, sulla seggiola di fianco a me; guardava per terra, muovendo i piedi fra la polvere; agitava il cappotto e la sciarpa, si passava le mani fra i capelli pettinati.
«Ansel, Ansel», chiamò, guardando verso mio padre. «Tesoro, hai visto il mio orecchino?»
Non capivo perché i miei genitori continuavano a chiamarsi “tesoro” o “amore” quando si vedevano al massimo sette giorni in un mese. Forse mamma non si sentiva abbastanza preziosa? O forse per salvare le apparenza di famiglia perfetta?
Comunque gli orecchini che indossava mamma quel giorno non mi piacevano molto; ero quasi felice che ne avesse perso uno, così non gli avrebbe più messi. Erano colo oro e di forma ovale, con quella che sembrava madreperla sul lobo e una pietra cangiante nel mezzo. Le davano un aspetto dozzinale e un po' troppo provocante, anche se erano d'alta moda – li aveva portati papà di ritorno da uno dei suoi viaggi, forse Parigi o Vienna.
Mi persi la risposta di mio padre, seguendo il filo dei miei pensieri, che era comunque negativa: stava ancora scuotendo la testa quando mia madre mi chiese se potevi andare a cercarglielo. «Ma non uscire dal circo», mi ammonì, aggiustandomi il bavero del cappotto. Era inutile spiegarle che il circo non era il luogo in cui ci trovavamo, che si chiamava tendone; il circo era l'insieme delle persone che facevano di quest'arte un lavoro, l'insieme della musica, della vita, dei suoni e degli odori che rendevano dei corpi uno spettacolo unico. Uno spettacolo che non volevo perdermi.
«Ma fra poco inizierà lo spettacolo», mi lamentai, la voce leggermente nasale per via del raffreddore che avevo preso qualche giorno prima.
Mia madre mi lanciò un'occhiata d'ammonimento. “Non fare scenate”, sembrava dire. “Siamo in pubblico, tesoro. La gente cosa dirà di noi?”.
Le sue parole furono però diverse: «Non potrebbero mai iniziare senza di te, principessa. Vai, io e papà saremo qui ad aspettarti, così come lo spettacolo». Sorrise, ma non sembrava importarle veramente se perdevo o no i primi attimi dello show. Non potei far altro che annuire lentamente e controllare che le stringe fossero ben allacciate; i segreti i gradini te li raccontano se si rompono sotto di te, non se ci spiaccichi la faccia sopra. «Controlla bene all'entrata!» Aggiunse lei, mentre mi dava una leggera spintarella verso le scale.


Inutile dire che non trovai l'orecchino, e lo cercai bene. Controllai tutta la strada che avevamo percorso dall'entrata del tendone – che ora era deserta, e i lembi si sollevavano appena sospinti dall'aria autunnale – e osai dare un'occhiata anche di fuori, dove l'uomo che si occupava dei biglietti era già sparito. Restavano solo le transenne, nude e spoglie, a fare da spettatori alle pozzanghere che piano piano si formavano sotto la pioggerellina leggere che aveva appena iniziato a cadere.
«Stai cercando questo?»
Per un momento, ma solo per un momento, sentii il cuore in gola. Tecnicamente il cuore non può stare in gola, perché è nel petto, fra i polmoni, ma fui talmente presa alla sprovvista da quella voce che per un secondo lo sentii battere lì, appena sotto il mento, premendo sulla trachea.
Mi voltai di scatto, spaventata ma allo stesso tempo curiosa; è sempre stato il mio principale difetto, il mio essere curioso.
C'era un bambino davanti a me – non uno di quelli dal sorriso d'oro che giocavano prima fuori dal tendone. Questo aveva un'aria triste attorno a sé, come di rassegnazione; i suoi vestiti non dicevano molto di lui: camicia bianca, pantaloni marroni – forse un po' grandi – e mocassini un po' consumati.
L'unica cosa che forse tradiva la mia teoria che avesse qualche ipotetica origine borghese furono i suoi capelli; neri come la notte, erano scompigliati e sparavano da ogni parte – i figli dei borghesi non sarebbero mai andati in giro così, prima ancora dei genitori, erano loro che volevano spalmarsi brillantina e derivati sui capelli, in modo da sembrare di essere stati leccati da un cavallo.
I suoi occhi blu mi fissavano con uno sguardo interrogativo, e mi ricordai che mi aveva fatto una domanda. Fra le mani teneva un orecchino – quello di mia madre.
Mi feci avanti per prenderlo, incurante dell'etichetta o di rispondere affermativamente: prima lo avrei trovato, prima sarei tornata da mia madre e avrei visto lo spettacolo per intero.
Il ragazzino non sembrava della mia stessa idea, però; appena mi feci avanti, lui nascose l'orecchino dietro la schiena e la sua bocca si aprii in un ampio sorriso.
«L'ho trovato io», disse, come per prendermi in giro. «Ora è mio».
Il mio stupore era palpabile; che ingrato! «E cosa se ne farebbe un maschio di un orecchino?» Gli domandai, alterata. L'impazienza si fece strada in me, mentre ero qua a discutere inutilmente con questo insolente, dietro la tenda rossa probabilmente stavano ripassando le ultime battute, le ultime mosse; veniva dato da mangiare ai leoni e i trapezisti si infilavano le calzamaglie.
In tutta risposta, lui fece spallucce. «Lo rivende», mi disse. «E con i soldi si compra dei gelati». Il suo sorriso si fece ancora più ampio.
Decisi di mettere in pratica uno dei tanti consigli di mia madre; feci la ragazza educata, e glielo chiesi con gentilezza. Perché con la gentilezza si può avere tutto, principessa, ma anche un po' di polso non guasta, a volte.
«Non è che potresti ridarmi l'orecchino? É di mia madre e lo ha perso», gli chiesi con un tono di voce che speravo fosse gentile e dolce.
«Lo so», rispose lui. «L'ho visto cadere».
«E perché non glielo hai detto?» Non ero stupita: ero basita. Era pur sempre una questione di buona educazione.
Lui fece spallucce – ancora. «Non vi conoscevo – e non vi conosco neanche adesso. Cosa deve interessarmi? L'ho preso io».
Sembrava irremovibile. La delusione si fece strada sul mio viso; mamma teneva moltissimo a quegli orecchini, e probabilmente dopo questo episodio non saremmo più venuti al circo - «e perdere un altro orecchino? Sia mai!».
«Se mi dai qualcosa in cambio posso ridartelo», disse di scatto il bambino, sollevando l'orecchino, che brillò nella penombra.
Inclinai la testa di lato, come a valutare la sua proposta: in realtà, stavo solo pensando cosa avrebbe potuto chiedermi.
«E cosa vorresti?» Chiesi, circospetta. Non mi andava di dargli i miei scarponcini, o il mio cappotto: fra poco tempo avrebbe fatto buio, e la sera l'aria non era clemente, lì a Berlino.
«Il tuo cappello», mi rispose lui, senza battere ciglio.
«Il mio cappello?» Me lo tolsi e lo presi in mano, la lana mi graffiava dolcemente il palmo delle mani. Era enorme, rosso come le bacche d'agrifoglio, e non teneva molto caldo perché era a maglia larga.
Lui annuì. «Sì. Mi piace il rosso».
Stavolta toccò a me fare spallucce. Glielo porsi, e lui lo prese e lo indosso. Gli copriva metà fronte, ma non cadeva sugli occhi come a me.
Tesi una mano, aspettando l'orecchino.
«E un bacio», aggiunse lui, imperterrito. «Un bacio sulla guancia».
Che prepotente! Figuriamoci se gli avrei dato un bacio. Nemmeno per tutto l'oro del mondo mi sarei abbassata a baciare uno sconosciuto. «Ingrato! Assolutamente no! Non ti bacerò mai, potesse cascare la terra e an...»
«Lo vuoi quest'orecchino o no?» Mi sbeffeggiò lui, agitandomelo davanti al naso. Feci per acchiapparlo, ma lui lo ritrasse.
Sbuffai sonoramente, poi appoggiai le labbra sulla sua guancia; profumava d'incenso e di pulito. Mi fece scivolare l'orecchino in mano, poi se ne andò veloce com'era comparso, col il cappello rosso che gli ballonzolava in testa.
Rimasi un attimo ferma ad assimilare l'accaduto, dopodiché rifeci la strada all'incontrario e ritornai dai miei genitori, dove lo spettacolo era già iniziato e la colombe già volavano fra i sostegni in legno del tendone.
«Dov'è il tuo cappello, Rose?» Mi chiese mia madre, mentre si rimetteva l'orecchino – non prima di averlo pulito accuratamente.
«L'ha portato via il vento», le risposi.
Dopodiché appoggiai la guancia alla sua spalla, respirando l'odore del suo cappotto e mi godetti lo spettacolo, senza pensare né a cappelli rossi, né all'etichetta e neppure ad occhi blu.



 
 

 

 


Vi do il benvenuto alla fine di questa prima parte introduttiva. Penso di aver detto tutto ciò che avevo da dire, sinceramente. Vi è piaciuto? O no?
Come mio solito, vi invito a non fare i lettori silenziosi ma a lasciare un recensione – anche piccola piccola, (ovviamente quelle più articolate son più soddisfacenti) dopotutto, fate un piacere a me e guadagnate punti voi (per il programma recensioni) – meglio di così?
Aspetto con ansia i vostri commenti, pensieri e impressioni!


JDAnathema







 


 

   
 
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