Steal
My Broken Heart
Pioveva.
Pioveva il giorno in cui la sua vita cambiò totalmente, e
non fu mai più la stessa.
La
pioggia occupava la
maggior parte dell’anno il cielo di Holmes Chapel.
Era
sempre stata così, una
piccola cittadina con il sole perennemente coperto dalle nuvole grigie
impregnate di pioggia in attesa di cadere e infastidire nuovamente gli
abitanti, ormai abituati.
Le
strade erano scivolose e
con pozzanghere ogni tre passi d’uomo, l’aria era
fredda, umida e pungente e
nessuno avrebbe voluto vivere in un posto del genere, non di spontanea
volontà.
I
palazzi erano bassi e
malandati, la maggior parte di loro ricordavano antiche strutture con
mattoni e
piastrelle sbiadite e archi posizionati un po’ qua e un
po’ la.
Proprio
di fianco il paesino
c’era un
piccolo boschetto dove le poche
coppie giovani si andavano ad appartare per passare pomeriggi o serate
romantiche senza occhi indiscreti di anziane signore sfaccendate che
facevano
correre voci false e non, su quello che facessero. Era uno di quei
posti
insignificanti di cui nessuno aveva cura o conosceva, un posto non
adatto al
novanta per cento della popolazione e per niente allegro.
Non
era il posto adatto per
chi avesse una salute cagionevole a causa del tempo, non era il posto
adatto a
dei ragazzi perché non c’era qualcosa di veramente
adatto a loro, come luna
park, discoteche o quant’altro, erano fortunati se a una
cinquantina di
chilometri di distanza dal paese trovavano qualche locale carino.
Tante
persone in quel posto
avevano voglia di andare via, scappare dalla noiosa vita che scorreva
giorno
per giorno sotto le gocce di pioggia e ai lampi che illuminavano le vie
nelle
ore buie, scappare in un posto migliore, con il sole che rendeva la
pelle
dorata, dove lo schiamazzo dei ragazzi diretti verso scuola a prima
mattina si
faceva sentire a gran voce e con una notte luminosa dei mille colori di
una
città grande e piena di occasioni.
Louis,
Louis William
Tomlinson era uno di loro..bhè..almeno fino
all’arrivo di Harry.
---
{
L }
Un
brivido mi percorse il
corpo facendolo tremare come una foglia in autunno, scossa da un vento
gelido e
tempestoso. Come la foglia anche io venni svegliato dal vento forte di
quella
mattina di metà autunno, la cosa anormale è che
io ero in casa, sotto le mie coperte
mentre le foglie erano sugli alberi esposti all’aperto,
teoricamente non
dovrebbe esserci vento in casa.
Aprii
di malavoglia un occhio
attaccaticcio di quella sostanza giallastra che assomigliava tanto alla
sabbia
e che mi capitava tra gli occhi dopo una notte passata più
in piedi che a
letto. Un suono gutturale trapelò dalle mie labbra quando,
con l’occhio aperto,
scortai la finestra spalancata e i vetri sbattere contro il muro tinto
di verde
chiaro, ancora fresco
di una settimana
prima e che già mi aveva stufato. Cercai di ignorare il
rumore e il freddo
causati dalla finestra, presenti in quella camera, affondando la testa
nel
cuscino e portandomi le coperte fin sopra il naso così da
lasciare gli occhi
lucidi dal gelo scoperti. L’udito mi si ovattò e
potevo sentire i piedi quasi
riscaldarsi dopo averli strusciati più volte contro le
pesanti lenzuola che mia
madre aveva cambiato il giorno prima in prevenzione del tempo ancora
più
piovoso di quel che fosse già nell’arco
dell’anno. Era sempre così in quel
posto, le belle giornate capitavano di raro e la colonna sonora di ogni
cittadino era il suono della pioggia che batteva
sull’asfalto, sinceramente
avrei preferito una colonna sonora come nei film, di quelle che ti
facevano
sentire potente anche solo camminando, ma in quel paese di merda non
potevi
chiedere di meglio di gocce d’acqua cadute dal cielo.
Le
mie dita fecero scivolare
il tessuto che avevo tenuto stretto fino a quel momento e sentivo che
lentamente i miei sensi si stavano spegnendo di nuovo, per lasciarmi
ancora un
po’ coccolare dalle coperte, ma proprio nel momento in cui
sentivo di essere lì
per addormentarmi, un tonfo mi fece sobbalzare e le coperte finirono in
terra
esponendo il mio corpo al freddo mattutino di Holmes Chapel.
Bestemmiai
mentalmente e mi
alzai di botto dal letto guardando la finestra quasi come se avessi
intenzione
di prenderla a botte, l’avrei fatto se solo fosse stato
possibile. Un brivido
mi percorse il corpo costringendomi a intrufolare immediatamente i miei
piedi
nelle pantofole e stringermi nelle spalle.
“Maledetto
il giorno in cui
il nonno si è trasferito in questa merda” i denti
battevano e le gambe
scricchiolavano ad ogni passo fatto verso la causa del mio spiacevole
risveglio
che mi aveva predetto un giorno passato sicuramente con il malumore.
Combattei
contro l’aria che tirava e che non mi lasciava chiudere la
finestra, il vento
mi soffiava in faccia togliendomi il respiro e aprii la bocca per
cercare
ossigeno a cui appigliarmi. Con una forza che non sapevo di avere
sbattei i
vetri contro i bordi della finestra per poi abbassare la maniglia e
sospirare
vittorioso per aver battuto ancora una volta l’atmosfera di
questo posto. Erano
ventidue lunghi anni che vivevo in quella città e ancora non
mi ero abituato al
freddo e al mal tempo perenne che regnava lì. Avevo perso il
conto di quante
volte avevo chiesto ai miei genitori di andare via e di trasferirci in
una
grande metropoli, o almeno in una città che accettasse il
sole di tanto in
tanto, ma se ne uscivano sempre con qualche motivazione stupida, che mi
rendeva
ancor più nervoso di quel che ero normalmente.
“Abbiamo dei bambini piccoli
caro, non possiamo trasferirci” “Costerebbe troppo
il trasferimento, Louis..non
fare il ragazzino e comportati da uomo” “Ci sono i
nonni qui, non possiamo
lasciarli da soli” Ripetevo le loro parole imitandoli con una
faccia alquanto
disgustata, se solo avessi avuto più soldi e meno sensi di
colpa avrei lasciato
questo posto anche lo stesso giorno dopo e non sarei mai tornato
più.
Passai
una mano nei capelli
bagnati di umidità e chiusi gli occhi per qualche secondo,
gettando la testa
all’indietro sperando che non stesse per arrivare uno di quei
soliti mal di
testa che mi prendevano quando ero incazzato o frustrato. Dovevo solo
calmarmi,
fare un bel respiro profondo e riuscire a superare la giornata che mi
aspettava
come tutte le altre, con la solita routine e con la solita pioggia.
Dovevo solo
stare calmo.
Più
lo ripetevo più diventavo
nervoso e sentivo il sangue nelle vene pulsare selvaggiamente, avevo
ormai
capito che l’unica cosa che avrebbe potuto acquietarmi era
una grande tazza di
cappuccino fumante. Girai il collo in direzione della radiosveglia
posta sul
comodino di fianco al letto disfatto e senza coperte perché
giacevano ancora in
terra. Segnava le 6:24. Sospirai e piegai la testa prima da un lato e
poi da un
altro, cercando di prendere sensibilità con il mondo reale e
lasciare quello
intrappolato nella mia testa. Pensavo che ormai non era tanto grave il
danno,
dato che dopo una decina di minuti avrei dovuto comunque alzarmi e
lasciare il
calduccio che risedeva nel mio letto ma restava comunque un risveglio
tutt’altro che piacevole che mi aveva donato un inizio
giornata pessimo. La mia
vita faceva schifo.
---
{
H }
Faceva
freddo. Molto freddo
quella mattina. Quasi l’aria era in-respirabile per quanto
fosse ghiacciata. Ad
ogni parola, sospiro o sussurro si formava una nuvoletta a qualche
centimetro
dalle mie labbra, che poi si dissolveva in pochi secondi.
Era
una di quelle mattine in
cui avrei preferito non svegliarmi affatto, di cercare protezione sotto
le
coperte di un letto ormai vecchio, in una stanza ormai vecchia, con un
armadio
pieno di mostri.
Non
pioveva ma le nuvole
grigiastre coprivano il cielo e davano un aspetto cupo alla
città in cui vivevo
da vent’anni a questa parte, in cui da anni non riuscivo
più ad abituarmi, a
sentirmi a casa. Non era più la mia città, ne
quella della mia famiglia, era
solo un luogo in cui alloggiavo, nell’angolo più
buio, rannicchiato tra le mie
lunghe braccia.
Mi
trovavo davanti allo
specchio del bagno di casa mia, la finestrella posta dietro di me era
serrata e
la stufetta sopra il mobiletto in fondo era accesa, per non far
congelare il
mio lungo ma sottile corpo. Mi guardavo con gli occhi stanchi di chi ha
passato
troppe notti insonni e di chi ha vissuto più incubi che
sogni. La felpa bianca
che portavo in dosso era leggermente slabbrata e mi faceva sembrare
più in
carne, le maniche erano lunghe e mi coprivano le dita e pensai che in
qualche
modo era anche più comodo, dato che non avevo un paio di
guanti e quelle mi
avrebbero riscaldato.
Mi
guardai intorno, scrutando
ogni angolo di quel bagno che sotto le mattonelle aveva molto
più che del
cemento, a distanza di un’ ora avrei dovuto dire addio per
sempre a questa
casa. Al pensiero è come se si accese un piccolo fuoco
all’interno del mio
stomaco, non capivo se era una sensazione piacevole o non, sapevo solo
che mi faceva
sentire strano e la voglia di rimanere tra quelle quattro mura strette,
contornate
da mobili bianchi e di ceramica, era sempre di meno. Mi avvicinai alla
stufetta, facendo scricchiolare le scarpe contro piastrelle leggermente
bagnate
e allungai il braccio sul tastino che segnava le scritte on
e off. Pigiai il dito
su quest’ultima per poi uscire da quella camera ormai
diventata asfissiante e
forse un po’ troppo calda per il mio abbigliamento.
La
casa era silenziosa, non
che solitamente fosse rumorosa ma qualche piccolo rumore come i piatti
che
strusciavano fra di loro mentre mamma li lavava o il leggero suono
della radio
accesa proveniente dalla stanza di mia sorella, erano quasi sempre
presenti in
casa. Oramai era solo una vecchia abitazione vuota di mobili e piena di
ricordi, più spaventosi che altro.
Portai
le mani alle braccia e
scesi lentamente le scale, guardando di tanto in tanto dietro di me per
assicurarmi, come mio solito, che non ci fosse nessuno. Lo facevo
sempre, era
un modo per sentirmi sicuro, perché la solitudine non
porterà mai tanto dolore
quanto lo potrebbe portare la compagnia di qualcuno indesiderato. E
questo lo
avevo imparato a mie spese. Mi venne la pelle d’oca solo al
ricordo impresso
ancora nella mia mente, era come se l’avessero attaccato con
la colla più
potente al mondo nella mia testa, per assicurarsi che non sarebbe mai
andato
via e, passati ormai sei anni, direi che aveva fatto davvero un grande
effetto.
Girai
un’ultima volta la
testa, guardando le scale di legno che non avrei percorso mai
più. Non sapevo
se ero davvero pronto a trasferirmi in una nuova città, a
ricominciare una
nuova vita e cercare di sconfiggere i demoni che giacevano silenziosi
dentro il
mio corpo, che aspettavano la notte per uscire e sbranarmi come fossero
lupi.
Questa
casa è stata tutto per
me, ogni muro, ogni crepa e ogni buco sapeva tutto quel che avevo
passato in
questi venti anni, tutto quello che avevo patito e tutto quello che
avevo
condiviso con la mia famiglia. Queste mattonelle, questi parati e
questi
parquet non erano testimoni solo del mio dolore ma anche quello di
un’altra
persona.
Sfregai
la mano prima
lentamente e poi più velocemente sulla lunghezza del
braccio, scuotendo la
testa per far cadere all’indietro i miei ricci che quella
mattina non ne
volevano sapere di rimanere al loro posto.
“Sei
pronto?”
Sobbalzai
all’udire una voce
alle mie spalle che mi fece andare per un attimo il cuore a mille e,
solo dopo
aver capito che fosse solo la voce profonda di mio padre, riuscii a
calmarmi.
Quella mattina ero agitato, non riuscivo a trovare un equilibrio
mentale che mi
aiutasse a superare quella giornata che si prospettava faticosa sia
moralmente
che fisicamente. Annuii facendo ricadere ancora una volta i capelli
davanti
agli occhi, impedendomi una vista lucida di quel che avessi davanti,
avrei
dovuto tagliarli al più presto magari anche il giorno dopo.
Infilai la mano
all’interno della tasca stretta del mio pantalone nero
lasciando che la
maglietta si piegasse formando piccoli rotolini contro il mio polso,
mentre con
le dita esploravo il tessuto alla ricerca della mia fascia color notte.
Quando
i miei polpastrelli sentirono sotto di essi la presenza di un qualcosa
di
morbido e flessibile si affrettarono ad attorcigliarsi intorno ed esso
e
cacciare fuori l’oggetto che cercavo da una trentina di
secondi. Finiva sempre
per attaccarsi al fondo delle tasche e ad impedirmi
un’immediata azione.
La
grande mano di mio padre
si poggiò sulla mia spalla, stringendomi delicatamente
contro il lato del suo
corpo.
Era
di qualche centimetro più
alto di me che quasi non si notava, iridi verdi incastonate nei bulbi e
un
corpo possente e muscoloso di chi ha fatto il militare per tanti e
tanti anni.
Se non lo conoscessi non avrei mai pensato che un uomo come lui potesse
essere
un soldato dell’esercito, insomma era così
gentile, affettuoso e con un viso
sempre incurvato in un espressione dolce e sorridente.. fin da piccolo
è stato
sempre il mio eroe, l’idolo a cui ispirarmi e il modello da
imitare e pensare
che ero il suo completo opposto mi donava una fitta al petto per niente
piacevole.
Battei
più volte le palpebre
quando, senza accorgermene, mi trovavo già
sull’uscio della porta di casa, che
non avrei varcato più.
Era
arrivato il momento di
dirle per sempre addio.
---
Era
circa mezz’ora che ero
seduto, con la schiena poggiata al sedile comodo e morbido della
macchina di
mio padre ed ero già stufo di essere in uno spazio
così ristretto e di non
potermi muovere come e dove volevo.
Le
gambe stese finivano sotto
il sedile di mia madre che guardava il suo riflesso nello specchietto
rotondo
che si portava sempre dentro la borsa, mio padre guidava con una
posizione
retta e seriosa e non accennava nessun tipo di espressione in
particolare, da
quanto riuscivo a vedere dallo specchietto, e infine c’era
mia sorella seduta
accanto a me, con il cellulare stretto tra le piccole dita e le
cuffiette nelle
orecchie. Era immobile, sembrava quasi non respirasse mentre fissava
con
sguardo assente il paesaggio sfrecciare al suo lato. La sua bocca era
aperta in
una piccola ‘o’ involontaria e potevo benissimo
immaginare a cosa i suoi
pensieri erano rivolti, a cosa stesse succedendo dentro di lei, posta
in un
silenzioso portamento esterno e un rumoroso portamento interno.
Non
ero fiero di me.
Ne
come figlio, ne come
persona, ne come ragazzo ne tantomeno come fratello.
Mi
etichettavo tra i fratelli
peggiori che possano esistere, non avevo la forza di combattere e non
avevo la
forza di aiutarla a combattere. Io che avrei dovuto proteggerla e
aiutarla non
lo facevo, mentre succedeva il contrario ogni giorno della mia inutile
esistenza.
La
saliva era diventata acida
e pesante e non avevo il coraggio di provare a deglutire, sapendo che
avrei
potuto strozzarmi da solo finché non sentii qualcosa di
piccolo e sottile
incastrarsi tra le mie dita, nella mano che tenevo poggiata sul sedile.
Abbassai lo sguardo per incrociare quello di mia sorella che mi
sorrideva,
ancora una volta mi aveva strappato via da quel barlume di
oscurità in cui mi
ritrovavo ogni volta che mi mettevo a pensare. Sorrisi a mia volta e le
strinsi
la mano, girando nuovamente la testa verso il finestrino con
l’anima più
leggera.
Attizzai
le orecchie quando
udii, per la prima volta da quando eravamo partiti, la voce da
ragazzina che
aveva ancora mia sorella.
“Com’è
che si chiama questo
posto in cui andiamo a sperderci?”
Mia
madre la guardò
attraverso lo specchietto con sguardo concentrato, quasi come si stesse
sforzando di ricordare un nome a lei difficile da memorizzare.
“Uuhm..Ecco!
Holmes Chapel”
||
Salve! Questa è la mia
prima storia seria sui Larry perciò siate indulgenti hahaha
grazie per aver
letto e se mi lasciate una recensione mi fa più che
piacere ||