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Autore: Francine    01/10/2014    3 recensioni
Frammenti di vita quotidiana, sparsi nello spazio e nel tempo, all'ombra del Grande Tempio di Athena.
(Personaggi serie classica e Lost Canvas)
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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#17 Beaujolais





 
Prompt: Bicchiere di vino
Titolo: Beaujolais
Autore: Francine
Fandom: Saint Seiya – Serie Classica
Personaggi: Chameleon June – Andromeda Shun
Genere: Commedia
Rating: Verde
Avvertimenti: 
Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 1575/3
Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler):
 Partecipa alla Challenge Slice of Life 
 
 
 

Il vino prepara i cuori
e li rende più pronti
alla passione.
(Publio Ovidio Nasone)

 

«Pensavo… Non ti andrebbe di bere qualcosa?», ti senti chiedere. E pensi che forse hai alzato un po’ troppo il gomito, a cena. Che quel beaujolais – o come diamine si chiamava – deve essere uno di quei traditori che scendono giù allegramente, come fossero acqua fresca appena spruzzata un po’ di porpora, per poi presentare il conto dopo. Quando uno meno se l’aspetta.

«Non voglio che questa serata finisca», e mentre la voce di Shun ancora galleggia nell’aria frizzante della sera il tuo cuore si ferma. Le stelle sono un frammento di eternità sospeso sopra le vostre teste. Brillano, sfavillanti e lontanissime, rincorrendosi nella volta celeste, densa e nera come un cappotto fradicio di pioggia, ma voi neppure vi accorgete della loro presenza silenziosa. Shun tiene i suoi occhi piantati nei tuoi, occhi blu, profondi e trasparenti come un pezzo di vetro in controluce e per il quale serve il porto d’armi. Occhi che ti guardano fiduciosi, con la certezza incrollabile del cucciolo che osserva il padrone, sì; ma anche come quelli di un uomo. Che vuole te, per questa notte almeno.

«E chi ha detto che deve finire?», rispondi. Sfoderando le unghie e aggrappandoti a quello spiraglio con tutta te stessa. E dimostrando un’audacia ed un coraggio che non credevi di possedere. Affatto.

Shun sorride, un paio di passi davanti a te. Ti porge la mano e ti dice: «Vieni», in un sussurro così languido e carico di promesse che lo segui. Docile come un agnellino, per una volta tanto. Percorrete il marciapiede bagnato, il ticchettio dei tuoi tacchi che vi accompagna ad ogni passo. Avanzate decisi e rapidi, ma senza correre.
Che fretta c’è?, pensi, mentre una parte di te vorrebbe correre su, nell’appartamento di Shun e chiudervi la porta alle spalle. Sì, ma poi? Che succede, poi?, ti chiede l’altra parte di te. Quella che no, non vuole crescere. Che vuole restare ancora la solita June, in perenne attesa che il suo Principe Azzurro si accorga di lei. Che non vuole cambiare. Che ha paura. Del dopo, che è troppo oscuro e sconosciuto per non generare ansie e timori.

Shun armeggia con il mazzo delle chiavi, non trovando quella giusta, e tu pensi che se cincischia ancora un secondo di più, girerai sui tacchi e fuggirai via nella notte. Ma la serratura scatta, con un clac sinistro che assomiglia al suono della ghigliottina che impatta sull’osso del collo del condannato. Shun ti apre la porta e ti dice «Prego», facendosi da parte. «È un po’ in disordine, ma…»
Tu sai che non sarà così. E che ti sta tentando. Vuole che sia tu a decidere se entrare o no, adesso che ancora puoi. Io non mi fermerò, promettono i suoi occhi. E tu sai che stavolta sarà così. Che non si addormenterà mentre contate le stelle. Non stasera. Così sorridi, e i tuoi piedi piombati si muovono. Un passo, uno solo, ed entri nella tana del lupo.
«Permesso», dici, mentre varchi la soglia e Shun chiude la porta dietro di voi. Un suono ovattato, stavolta, non più minaccioso.

La stanza è in perfetto ordine, come sospettavi. Hai quasi paura che le scarpe nel genkan creino disordine, ma accetti le pantofole che Shun ti porge – rosa, ancora nel cellophane –e abbandoni le tue décolleté nere all’ingresso. Shun ti prende la giacca e la fa sparire da qualche parte.
«Ho del vino, se per te va bene», gli senti dire, mentre i tuoi occhi sono incollati alla vista mozzafiato che si gode dalla finestra. Le luci del porto non ti sono mai sembrate più romantiche e magiche. Rarefatte, come dopo una giornata di pioggia. Lucide, come se qualcuno le avesse rese d’acqua, e non di fuoco. Che è un po’ come ti senti tu, adesso.
«Va benissimo», gli dici. Perché per te va bene tutto, adesso. Anche ingollare del catrame ancora fresco. Lo senti aprire e chiudere i pensili del microscopico angolo cottura che vi ha accolto dopo il genkan.

Quando si riaffaccia nella stanza è armato di due bicchieri, la bottiglia di vino e una strana brocca. Sai che quell’affare si chiama decanter, e che al vino rosso fa bene prendere aria dopo che lo si è stappato. Deve’essere rosso per quanto è scuro. Borgogna, pensi, osservando il liquido ruscellare nell’ampolla panciuta.
«Ecco fatto. Un paio di minuti e sarà pronto», dice Shun, gli occhi che scintillano nella penombra della stanza. La sua mano sale a cercare la catenella che accende la luce, ma tu lo fermi.
«No. Lascia così», gli dici, gli occhi fissi e incollati a quella lucetta rossa che vedi brillare in lontananza. Una qualche boa di segnalazione, supponi. Ma adesso non ha importanza. Ti concentri su qualcosa, qualsiasi cosa, per non farti vincere da quel groppo che ti si è formato nello stomaco e che minaccia di straripare da un momento all’altro.

Non posso farmi prendere da un attacco di panico proprio adesso, pensi. Mordendoti le labbra. Tanto il rossetto non c’è più. L’hai lasciato ovunque, sui bicchieri e sulle posate del ristorante, ma non sul collo di Shun. Che si avvicina. E ti sfiora con un dito le spalle nude.
Trattieni il respiro. E il vino?, ti chiedi. Dandoti della cretina l’istante successivo. Al diavolo, il vino. Lo berrete dopo. Qualunque cosa ci sia, dopo. O forse non lo berrete affatto. Ma davvero vuoi fermati a pensare al vino adesso che Shun è così vicino che quasi fa male?
No.

Le dita di Shun catturano una ciocca di capelli, lasciata cadere dallo chignon e arricciata ad arte sulla tua nuca. Il suo respiro, sempre più vicino. Il suo alito che ti sfiora la guancia. Le sue labbra che si posano appena sulla tua pelle, da qualche parte tra la linea della mascella e l’orecchio, come il battito di una farfalla. Strappandoti un lievissimo sospiro. Perché tu quel bacio lo aspettavi. Da sempre. Così come aspettavi che lui ti prendesse tra le braccia. Ti facesse voltare. E ti stringesse al suo petto. Forte. Solido. Duro. Un petto di uomo, non come quello del passerotto sparuto che hai imparato ad amare e difendere sull’Isola.

Non aver paura. Sarò io il tuo rifugio, stanotte. Ti sembra che il suo cosmo te lo stia promettendo, accarezzando dolcemente il tuo in un sussurro. Niente promesse di amore eterno. Niente frasi sdolcinate. Solo tu e lui e l’infinità del microcosmo di Andromeda. Che ti abbraccia, ti cattura e ti conduce per mano dove non ancora tu non sei stata. Che ti ruscella nelle vene, innocente e lieve come il beaujolais. Inebriandoti. Perdendoti. Catturandoti. E facendoti chiedere ancora, ancora, ancora…
Ed è mentre la labbra di Shun abbracciano le tue che ti lasci andare. Ed iniziate a danzare assieme. Esplorandovi. Conoscendovi. Assaporandovi. Gustando il sapore dell’arrosto nella bocca l’uno dell’altra.

«Non sono ubriaca», gli dici, staccandoti per prendere aria, a fior di labbra. «Lo sai questo vero, Shun?»
«Neppure io», ti risponde, prima di riprendere a baciarti, mentre dalla finestra la luce della luna proietta le vostre sagome allacciate sul tatami.
«E il vino nel decater?», chiedi. Quando lui ti consente di riprendere fiato, le dita che si fermano attorno al tuo viso con delicatezza e fermezza. Come se non volesse farti scappare via.
Shun sorride. «Il… vino?», ti chiede. Con una nota di genuino divertimento nella voce.
«Sì», dici. Hai il timore di aver rovinato tutto. Ti mordicchi le labbra quando Shun ridacchia.
«Il vino, certo.» Si stacca da te, e senti il freddo più intenso che tu abbia mai provato invaderti le vene, nonostante sia a meno di un braccio di distanza da te. «Ecco», ti dice. Porgendoti il tuo bicchiere di vino. Rosso. Profumatissimo. Invitante. Come le labbra di Shun.
«Grazie», dici. Per educazione, certo. Ma anche perché non sai cosa diamine dire, adesso.
«A noi», propone lui, mentre i bicchieri tintinnano tra loro.
E tu ripeti «A noi», con un tono meccanico e imbarazzato.
Beve e tu ti accodi. Che altro puoi fare? Il vino scende nella gola fruttato, ma fai a malapena in tempo a buttarne giù una sorsata, che Shun te lo sfila di mano.

«Non vorrei che ti ubriacassi per davvero», ti dice, ma sai che è tutta una scusa, una bugia. Perché Shun freme per riprendere il discorso da dove lo avete interrotto.
In realtà sono ubriaca di te da che ho memoria, pensi. Ma non glielo dici. Non potresti mai. Non adesso, almeno. Magari un domani, chissà. Ma stasera… stasera no. Penserebbe che tu sia davvero brilla se cominciassi a parlare come un’eroina di un romanzetto rosa da quattro soldi.
«Non sono ubriaca», protesti. Lievemente. O non saresti tu.
«Bene», dice lui. Avvicinandosi. Abbracciandoti. Con un sorriso da predatore che non gli hai mai visto. Un sorriso che ti fa un po’ paura, sì; ma che ti regala un piacevolissimo brivido di piacere lungo tutta la spina dorsale.
«Tu, piuttosto», gli dici, accarezzandogli la linea del mento. «Non è che crolli addormentato come l’ultima volta, vero?»
«Nessun problema», e scende a baciarti. Ancora. E ancora. E ancora. Senza darti respiro. Stringendoti a sé. Liberandoti dall’impiccio dei vestiti. Stendendoti sul letto come se fossi fatta di cristallo. Unendosi a te, mentre la luce della luna si affaccia nella stanza e si specchia, vanesia, nei bicchieri lasciati a metà.
Il vino rosso ha bisogno di prendere aria, pensi da qualche parte del tuo cervellino, prima di tornare con la mente, l’anima, il corpo ed il cosmo ad occuparti di Shun.
 
 
   
 
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