51 Cinque personaggi in
cerca d’epilogo – Rizzo
«Bbbzzz… ELVA… CONDETO… FUORI… TO…
NON FERE CHE… TE. MA PORCA TROIA PERCHE’ NON MI FUNZIONA MAI NIENTE A ME? E
ADESSO FUNZIONI CHE NON SERVE PIU’? MAVVEFFENCULO VE’. BEL… SEI CIR… bbzz.
Bzz.. PUTTENA MALEDETTA!!!»
Il poliziotto pelato scagliò, rosso
in viso, il microfonino a filo dell’altoparlante della macchina contro il
parabrezza, scheggiandolo. Sembrava Efesto in persona, dopo una giornata in
officina a forgiare le armi per tutti gli dei dell’Olimpo.
Asuka Tomoki e Rizzo, che erano
arrivati in auto con lui, non lo guardarono nemmeno. Gli occhi fissi verso il
buio del cantiere che inghiottiva l’acquario. A differenza dei loro colleghi,
che una ventina di minuti prima avevano fatto la fine del topo, non avevano
alcun dubbio sul fatto la Belva si nascondesse proprio lì. L’auto di Yamaguchi,
infatti, era parcheggiata a pochi metri di distanza. Le quattro frecce ancor
accese in attesa di un padrone che non sarebbe mai tornato a spegnerle.
«Io vado». Disse Tomoki.
«Fermo». Gli fece eco, calmo come
un monaco buddista, il commissario Rizzo. Guardava in avanti, verso l’acquario.
«C’è mio figlio, lì!». Sbraitò
sbracciandosi il detective Asuka. In lui lottavano l’istinto paterno,
desideroso di buttarsi a capofitto nella misteriosa tana della Belva, e
l’esperienza del poliziotto, che ben sapeva quanto fosse stupido entrare in tre
in un edificio dove altri tre, poco prima, avevano fatto una brutta fine.
Tomoki non fece nemmeno in tempo a
formulare un’altra frase quando due auto arrivarono alle loro spalle, allo
stesso momento, occupando una la corsia destra e una la sinistra. I primi
rinforzi.
«Aspetta qualche istante», disse
Rizzo. Non si era mai girato. Continuava a fissare l’oscurità delle finestre
dell’acquario. Ma Tomoki camminava in avanti e indietro, angosciato come non
mai. In bocca l’ennesima sigaretta spiegazzata. Si girò: altre sirene, altre
auto. Erano una decina: giungevano a velocità spedita verso di loro, e, quando
arrivarono all’altezza dello spiazzo, qualcuna sgommò e virò violentemente
derapando per parcheggiare.
«Ora ci siamo tutti». Rizzo
guardava sempre avanti. Ma questa volta mosse il collo su sé stesso provocando
un rumore secco, come se alcune ossa si fossero scheggiate, e iniziò a camminare
verso il cancello. Lento come l’ineluttabile. Lento come la morte.
«Ma deficiente!», lo rincorse
Auricchio, «dove chezzo vei?».
Rizzo continuò a camminare. Era di
fronte all’inferriata che delineava l’area del parcheggio interno. Con calma
serafica, impugnò con le manone che parevano badili due sbarre, e, come se si
trattasse di due bastoncini di liquirizia, li divelse, creandovi un varco.
«Di qua», sospirò, né per fatica,
né per stanchezza. Poi, stringendosi in dentro la pancia fu il primo a entrare.
Dopo di lui, decine e decine di
poliziotti penetrarono oltre la recinzione. Le sirene spiegate, i lampeggianti,
e un poliziotto giapponese che faceva funzionare a meraviglia il suo
altoparlante lanciando minacce generiche ai criminali parevano i prodromi per
l’operazione di polizia del secolo. Mancava solo, in sottofondo, la cavalcata
delle valchirie di Wagner e un pizzico di napalm nell’aria.
Pareva un Panzer. Disarmato, a
testa alta, camminava senza temere pistolettate, accoltellate o esplosioni. I poliziotti
che lo seguivano, invece, si agitavano, facevano segni strani con le mani,
incitavano chi avevano dietro a seguirlo, ad andare più piano o a fermarsi,
come gli omini di uno scadente numero della serie di Call of Duty. Ma davanti a
loro non c’era nessuno.
Si stavano preparando ad attaccare
dopo l’allarme? Il timore cresceva. Rizzo però era sereno, e camminava a testa
alta, petto in fuori, come il contadino che passeggiava tra i suoi campi in una
bella giornata di primavera, pregustandosi la marcia trionfale che vi avrebbe
fatto, da lì a pochi mesi, in estate, in occasione del raccolto.
Iniziò improvvisamente. Una porta
laterale, di quelle con il maniglione antipanico, si spalancò proprio di fronte
al corteo di forze dell’ordine. Ne uscirono, di corsa, con la faccia impaurita,
cinque ragazzini giapponesi dalle creste variopinte, dagli anelli al naso,
vestiti come i drogati di Trainspotting.
Per qualche eterno secondo nemmeno si accorsero della marmaglia governativa
che avevano alle spalle: guardarono subito, nell’oscurità, in direzione del
mare. Era nero come il cemento fresco. Ma i poliziotti erano troppi, e troppi
vicini perché non si accorgessero subito della loro presenza.
«Oh cazzo!!!». Gridò uno. E
iniziarono a correre come manco Pantani sul Mortirolo. Furono immediatamente
presi e acciuffati. Rizzo si girò verso il portone con il maniglione
antipanico, che nel frattempo si era riadagiato bloccandosi. Bastò una manata
perché le porte si riaprissero di scatto.
«Di qua», continuò, serafico. Era
il primo ad entrare. Alzò gli occhi. Non era solo. Erano una ventina. Non era
razzista, ma gli parevano tutti uguali: stessi capelli biondi, stessi piercing,
stessa aria strafottente con la bocca prominente e una smorfia all’altezza del
naso. Lo circondarono, lanciandogli insulti incomprensibili. Si trovavano nella
caffetteria nord dell’acquario. Alcuni tavoli, un lungo bancone di servizio, un
grande specchio e tanta, tanta polvere.
Satoshi Fujii, 19 anni, bulletto di
periferia da poco assoldato nella banda di Kenzo, piantonato in ospedale, poche
settimane dopo racconterà a un incredulo pubblico ministero che il commissario
dell’antidroga italiano Rizzo, soprannominato dai media “Piedone”, aveva
sorriso, prima di iniziare. Era un dettaglio trascurabile, ma trovò comunque
spazio nella relazione iniziale del maxi-processo che ne seguì. Sorrideva. Un
uomo che, per la scienza moderna, sarebbe dovuto morire due ore prima, ora
sorrideva di fronte a venti teppisti giapponesi armati di coltelli, catene e
katane.
Un ghigno feroce. Poi l’oscurità.
«Rizzo, porca puttena, questa porta
s’era incastreta. Dove sei?». Trenta secondi dopo Auricchio e i suoi riuscirono
a spalancare la porta di sicurezza che si era chiusa inavvertitamente alle
spalle del grosso commissario barbuto. Era lì, al centro della stanza, viso in
basso. Per tutta la caffetteria, sparsi come fiori a un matrimonio, giacevano
ragazzini giapponesi nelle posizioni più strane. Parevano degli steli
attorcigliati attaccati a dei petali gialli rappresentati dai loro capelli
biondi spettinati. Alcuni dormivano tra i rimasugli di alcuni tavoli di legno,
per terra, un altro era incastrato nel vetro anti-starnuto del bancone, un
altro ancora penzolava dal lampadario come un buffo addobbo.
Rizzo fissava per terra, come un
bambino che aveva fatto una marachella. Ma le decine di poliziotti italiani e
giapponesi lo fissavano come dei pulcini di una squadra dell’oratorio
fisserebbero Leo Messi.
Auricchio lo squadrò, intimorito. Poi si
fece coraggio: «Chezzo ci fei qui fermo? Andiemo, c’è una chezzo di Belva da
catturere». Rizzo, goffamente, iniziò a camminare verso il corridoio. Auricchio
lo guardò di nuovo per alcuni secondi, con lo stesso fremito d’orgoglio con cui
John Hammond guardò le sue creature in quell’estate del 1993. Con un bestione
del genere – ne era sicuro – di Belve ne avrebbe catturato anche dieci.