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Autore: Andrewthelord    01/10/2014    2 recensioni
Agghiacciante cross-over tra il film “Fracchia la Belva Umana” e l’anime “Kaitou Saint Tail” (Lisa e Seya).
È arrivato in Giappone il più importante dipinto del novecento italiano, un Osvaldo Paniccia originale. Non solo Saint Tail (Seya), anche la Belva Umana (Paolo Villaggio) è sulle sue tracce. Riusciranno Asuka jr (Alan) e il Commissario Auricchio (Lino Banfi) ad impedire l’ennesimo furto? E Giandomenico Fracchia (Paolo Villaggio) verrà ancora utilizzato dal suo sosia per i suoi loschi piani?
Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una fan fiction nonsense, ma di una vera e propria storia in cui i personaggi sono loro stessi e non delle caricature.
Sono ben graditi i commenti, anche brevi!
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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51 Cinque personaggi in cerca d’epilogo – Rizzo

 

«Bbbzzz… ELVA… CONDETO… FUORI… TO… NON FERE CHE… TE. MA PORCA TROIA PERCHE’ NON MI FUNZIONA MAI NIENTE A ME? E ADESSO FUNZIONI CHE NON SERVE PIU’? MAVVEFFENCULO VE’. BEL… SEI CIR… bbzz. Bzz.. PUTTENA MALEDETTA!!!»

 

Il poliziotto pelato scagliò, rosso in viso, il microfonino a filo dell’altoparlante della macchina contro il parabrezza, scheggiandolo. Sembrava Efesto in persona, dopo una giornata in officina a forgiare le armi per tutti gli dei dell’Olimpo.

 

Asuka Tomoki e Rizzo, che erano arrivati in auto con lui, non lo guardarono nemmeno. Gli occhi fissi verso il buio del cantiere che inghiottiva l’acquario. A differenza dei loro colleghi, che una ventina di minuti prima avevano fatto la fine del topo, non avevano alcun dubbio sul fatto la Belva si nascondesse proprio lì. L’auto di Yamaguchi, infatti, era parcheggiata a pochi metri di distanza. Le quattro frecce ancor accese in attesa di un padrone che non sarebbe mai tornato a spegnerle.

 

«Io vado». Disse Tomoki.

 

«Fermo». Gli fece eco, calmo come un monaco buddista, il commissario Rizzo. Guardava in avanti, verso l’acquario.

 

«C’è mio figlio, lì!». Sbraitò sbracciandosi il detective Asuka. In lui lottavano l’istinto paterno, desideroso di buttarsi a capofitto nella misteriosa tana della Belva, e l’esperienza del poliziotto, che ben sapeva quanto fosse stupido entrare in tre in un edificio dove altri tre, poco prima, avevano fatto una brutta fine.

 

Tomoki non fece nemmeno in tempo a formulare un’altra frase quando due auto arrivarono alle loro spalle, allo stesso momento, occupando una la corsia destra e una la sinistra. I primi rinforzi.

 

«Aspetta qualche istante», disse Rizzo. Non si era mai girato. Continuava a fissare l’oscurità delle finestre dell’acquario. Ma Tomoki camminava in avanti e indietro, angosciato come non mai. In bocca l’ennesima sigaretta spiegazzata. Si girò: altre sirene, altre auto. Erano una decina: giungevano a velocità spedita verso di loro, e, quando arrivarono all’altezza dello spiazzo, qualcuna sgommò e virò violentemente derapando per parcheggiare.

 

«Ora ci siamo tutti». Rizzo guardava sempre avanti. Ma questa volta mosse il collo su sé stesso provocando un rumore secco, come se alcune ossa si fossero scheggiate, e iniziò a camminare verso il cancello. Lento come l’ineluttabile. Lento come la morte.

 

«Ma deficiente!», lo rincorse Auricchio, «dove chezzo vei?».

Rizzo continuò a camminare. Era di fronte all’inferriata che delineava l’area del parcheggio interno. Con calma serafica, impugnò con le manone che parevano badili due sbarre, e, come se si trattasse di due bastoncini di liquirizia, li divelse, creandovi un varco.

 

«Di qua», sospirò, né per fatica, né per stanchezza. Poi, stringendosi in dentro la pancia fu il primo a entrare.

 

Dopo di lui, decine e decine di poliziotti penetrarono oltre la recinzione. Le sirene spiegate, i lampeggianti, e un poliziotto giapponese che faceva funzionare a meraviglia il suo altoparlante lanciando minacce generiche ai criminali parevano i prodromi per l’operazione di polizia del secolo. Mancava solo, in sottofondo, la cavalcata delle valchirie di Wagner e un pizzico di napalm nell’aria.

 

Pareva un Panzer. Disarmato, a testa alta, camminava senza temere pistolettate, accoltellate o esplosioni. I poliziotti che lo seguivano, invece, si agitavano, facevano segni strani con le mani, incitavano chi avevano dietro a seguirlo, ad andare più piano o a fermarsi, come gli omini di uno scadente numero della serie di Call of Duty. Ma davanti a loro non c’era nessuno.

 

Si stavano preparando ad attaccare dopo l’allarme? Il timore cresceva. Rizzo però era sereno, e camminava a testa alta, petto in fuori, come il contadino che passeggiava tra i suoi campi in una bella giornata di primavera, pregustandosi la marcia trionfale che vi avrebbe fatto, da lì a pochi mesi, in estate, in occasione del raccolto.

 

Iniziò improvvisamente. Una porta laterale, di quelle con il maniglione antipanico, si spalancò proprio di fronte al corteo di forze dell’ordine. Ne uscirono, di corsa, con la faccia impaurita, cinque ragazzini giapponesi dalle creste variopinte, dagli anelli al naso, vestiti come i drogati di Trainspotting.  Per qualche eterno secondo nemmeno si accorsero della marmaglia governativa che avevano alle spalle: guardarono subito, nell’oscurità, in direzione del mare. Era nero come il cemento fresco. Ma i poliziotti erano troppi, e troppi vicini perché non si accorgessero subito della loro presenza.

 

«Oh cazzo!!!». Gridò uno. E iniziarono a correre come manco Pantani sul Mortirolo. Furono immediatamente presi e acciuffati. Rizzo si girò verso il portone con il maniglione antipanico, che nel frattempo si era riadagiato bloccandosi. Bastò una manata perché le porte si riaprissero di scatto.

 

«Di qua», continuò, serafico. Era il primo ad entrare. Alzò gli occhi. Non era solo. Erano una ventina. Non era razzista, ma gli parevano tutti uguali: stessi capelli biondi, stessi piercing, stessa aria strafottente con la bocca prominente e una smorfia all’altezza del naso. Lo circondarono, lanciandogli insulti incomprensibili. Si trovavano nella caffetteria nord dell’acquario. Alcuni tavoli, un lungo bancone di servizio, un grande specchio e tanta, tanta polvere.

 

Satoshi Fujii, 19 anni, bulletto di periferia da poco assoldato nella banda di Kenzo, piantonato in ospedale, poche settimane dopo racconterà a un incredulo pubblico ministero che il commissario dell’antidroga italiano Rizzo, soprannominato dai media “Piedone”, aveva sorriso, prima di iniziare. Era un dettaglio trascurabile, ma trovò comunque spazio nella relazione iniziale del maxi-processo che ne seguì. Sorrideva. Un uomo che, per la scienza moderna, sarebbe dovuto morire due ore prima, ora sorrideva di fronte a venti teppisti giapponesi armati di coltelli, catene e katane.

 

Un ghigno feroce. Poi l’oscurità.

 

«Rizzo, porca puttena, questa porta s’era incastreta. Dove sei?». Trenta secondi dopo Auricchio e i suoi riuscirono a spalancare la porta di sicurezza che si era chiusa inavvertitamente alle spalle del grosso commissario barbuto. Era lì, al centro della stanza, viso in basso. Per tutta la caffetteria, sparsi come fiori a un matrimonio, giacevano ragazzini giapponesi nelle posizioni più strane. Parevano degli steli attorcigliati attaccati a dei petali gialli rappresentati dai loro capelli biondi spettinati. Alcuni dormivano tra i rimasugli di alcuni tavoli di legno, per terra, un altro era incastrato nel vetro anti-starnuto del bancone, un altro ancora penzolava dal lampadario come un buffo addobbo.

 

Rizzo fissava per terra, come un bambino che aveva fatto una marachella. Ma le decine di poliziotti italiani e giapponesi lo fissavano come dei pulcini di una squadra dell’oratorio fisserebbero Leo Messi.

 

Auricchio lo squadrò, intimorito. Poi si fece coraggio: «Chezzo ci fei qui fermo? Andiemo, c’è una chezzo di Belva da catturere». Rizzo, goffamente, iniziò a camminare verso il corridoio. Auricchio lo guardò di nuovo per alcuni secondi, con lo stesso fremito d’orgoglio con cui John Hammond guardò le sue creature in quell’estate del 1993. Con un bestione del genere – ne era sicuro – di Belve ne avrebbe catturato anche dieci.

   
 
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