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Autore: were_all_dead_now    01/10/2014    4 recensioni
Quando vai a scuola, nessuno ti insegna a vivere.
Io avrei saputo risolvere un logaritmo in pochi secondi, ma avevo paura di chiudere gli occhi e restare da solo con me stesso.
[...]
Mi chiamo Frank. Questa è la mia storia.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Ray Toro | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono stata velocissima, grazie, lo so! No, comunque... ecco il primo capitolo. Lo so che è molto descrittivo e (forse) ai limiti del noioso, però che dire, mi serviva un capitolo d'entrata. Eccolo. Anche lunghissimo, per giunta (perdonatemi).
Per essere coerente, ho messo da parte l'originalità e, guardaguarda, si parla anche di Gerard.
Ora, parlando più seriamente, vorrei chiedervi di farmi sapere cosa non vi piace del capitolo, ed intendo letteralmente. Se vi è piaciuto tutto e volete recensire lo stesso, mi va più che bene, però mi sarebbe molto utile del feedback negativo, nel caso in cui ci fosse. Questo è tuttissimo. Un saluto, Claud.



CAPITOLO PRIMO - PARTE PRIMA 


 
I don't know where you're going, but do you got room for one more troubled soul?  (Alone together)



Quando conobbi Gerard avevo appena varcato la soglia dei miei 17 anni. Lui, invece, era uno di quelli che un’età non l’hanno mai avuta.
Lo capivi da come la sua fronte non si piegava in rughe ma i suoi occhi avevano già vissuto una vita intera. Da come le mani erano di un bianco candido, e morbide, ma quando sfioravano o maneggiavano un oggetto lo facevano con una precisione che puoi ottenere solo dall’esperienza. Se la vita non mi avesse ben piantato i piedi per terra, avrei creduto che Gerard fosse una specie di vampiro nel suo millesimo anno di età. Ma per fortuna (dicono) crescendo accumuli concretezza e oggettività. Io mi rifiuto di credere che possedere la consapevolezza che la nostra realtà sia l’unica esistente, e che le cose non vanno mai oltre ciò che sembrano, sia una fortuna.
 

In realtà io e Gerard ci incontrammo per pura coincidenza.
Quella mattina avrei dovuto essere seduto all'ultimo banco sulla sinistra della terza fila, ma certe mattine non hai proprio voglia di stare seduto in terza fila.
O in qualsiasi altra.
A Newark era tutto a grandezza d'uomo, e in 7 minuti a piedi arrivai con facilità al parchetto a metà strada tra scuola e casa, tenendo conto del poco tempo che avevo per fumare una sigaretta sulla mia panchina preferita.
Il parco non era particolarmente grande, però poteva dare l'impressione di esserlo perché si snodava soprattutto in lunghezza, e su tutto il perimetro del marciapiedi avevano deciso di piantare degli alberi alti parecchi metri.
Questa disposizione faceva sì che il vialetto in ciottoli che tagliava verticalmente il prato fosse separato dai parchi che invece stavano ai lati di esso.
 
La mia panchina era in una zona totalmente in disuso. Per gli altri era un posto di merda, ma ogni mattina quel pezzettino di paradiso ombreggiato mi appariva come una visione. Mi sedevo sul metallo arrugginito e di un verde scrostato e fumavo la prima sigaretta della giornata. A quell’ora generalmente non passava quasi nessuno di lì, ma in ogni caso e io e la mia posizione strategica facevamo in modo di non doverci imbattere in nessuno scocciatore.
 
A dire la verità ho mentito quando ho detto che il mio iPod passava solo i Misfits. Ascoltavo il rock e i suoi sottogeneri, andando anche oltre i piccoli confini del Jersey.
Quindi la mattina aspiravo il fumo su una panchina che si trovava in tutto un altro universo, mentre le cuffiette vibravano per il volume troppo alto del suono, e mi sentivo bene.
Mi sentivo come se quei dieci minuti fossero tutto ciò che di valore avessi.
Mi sentivo come se quella fosse la mia piccola rivincita nei confronti della vita.
 
Una mattina ci fu qualcosa di diverso.

Non so esattamente da cosa scaturisse, quali meccanismi del mondo fossero andati in altro modo rispetto alla quotidianità di praticamente sempre. Non so se un autobus avesse investito un cane e deviato la sua rotta; non so se quella mattina il negozio di caffè all’angolo fosse rimasto chiuso e avesse ceduto tutti i suoi clienti al bar che si trovava dall’altro lato del parco. Il motivo del cambiamento mi è ancora oggi sconosciuto, ma non gli effetti che quel cambiamento portò.
 

Arrivai al parco esattamente sei minuti dopo essere partito da casa, e nemmeno un minuto dopo potevo già vedere la spalliera della mia panchina che mi dava il buongiorno attraverso un cespuglio quasi del tutto appassito.
Quando mi sedetti e incrociai le gambe sul metallo umido, avevo già il pacchetto di sigarette e l’accendino in mano. Sapevo di non avere molto tempo, ma probabilmente influirono in buona parte anche l’abitudine e l’assuefazione da nicotina.
Non facevo mai molto, mentre stavo lì. A volte mi ritrovavo a fissare il vuoto, con la testa che si muoveva leggermente a ritmo di musica, ma di solito stavo in silenzio e aspiravo.
Passai buona parte della mia adolescenza ad aspirare. Ad assorbire.
Attivamente il fumo, passivamente tutta la merda che mi propinava la società, la scuola, chi credeva di potermi convincere che non sarei andato molto avanti, nella maniera in cui ero fatto.
Non smisi mai di essere in quella maniera.
 
In ogni caso quella mattina fu decisamente più movimentata del solito.
Dopo nemmeno due minuti sentii dei passi che scricchiolavano sulle foglie autunnali e non ebbi nemmeno il tempo di riprendermi dallo shock che qualcuno fosse al parco - ma soprattutto che qualcuno fosse proprio in quella zona del parco - che un ragazzo si sedette accanto a me, gettandosi quasi di peso.
Non potete capire quanto questa cosa mi turbò l’animo.
Legalmente non potevo reclamare alcun diritto sulla panchina, sarebbe stato da matti anche solo pensarlo; ma con gli anni inizi a maturare un certo senso di appartenenza ai luoghi, alle cose, e di rimando pretendi che quelle cose ti appartengano. Oggi so bene che nella vita non funziona così, che raramente puoi possedere ciò da cui sei posseduto. Che tu lo sia volontariamente o meno.
Però al tempo provai uno sconcerto inspiegabile.
Mi voltai verso quel ragazzo con l’espressione di chi ha appena ricevuto l’affronto più grande: era la mia panchina, in quella zona del parco che era per tutti la peggiore, e che la rendeva automaticamente ancora più “mia”, e soprattutto erano le 7:43 di mattina. Nessuno poteva sedersi accanto a me, sulla scrostatura arrugginita del verde, nei minuti della mia rivincita sulla vita, e pensare che io avrei semplicemente lasciato che accadesse.
 
“Ehi senti, me lo presti l’accendino?”
 
Lo fissai con la bocca leggermente aperta, osservandolo per la prima volta dopo svariati secondi in cui lo guardai solamente. La cosa che risaltava maggiormente era il contrasto tra bianco e nero, che sembravano gli unici colori di tutta la sua persona. Bianca, per meglio dire pallida, era la pelle del viso e quella delle mani, le sole parti visibili. Nero era praticamente tutto il resto.
Gli scarponcini con la punta consumata (che a rigor del vero si consumavano diventando marroncini), i jeans scuri che sembravano effettivamente dipinti a trama sulla sua pelle per quanto attillati, la maglia e la giacca di vestito che, invece, erano proprio nere. Nessun blu notte, cobalto, marrone scuro, verde petrolio profondo.
Nero.
Ma la parte migliore erano senza dubbio i capelli. L’unica certezza è che fossero lunghi. Il resto era lasciato al caso. Non avevano un taglio, una forma, una direzione; era evidente l’assenza di ogni tentativo nel sistemarli o acconciarli. Io pensai subito che, nella sfortuna, se avessi mai dovuto scegliere un compagno di panchina, mi sarebbe piaciuto averne uno con i capelli che non avevano nessun senso.
 
Lo guardai negli occhi, mi persi nel loro colore, e, come se destato da uno schiocco di dita, non mi importava più che la panchina si scrostasse per colpa del culo di qualcun altro.
Il ragazzo mi fissò per tutta la durata delle mie osservazioni e delle conseguenti riflessioni. Però non fiatò, e gliene fui grato. Non sembrò nemmeno assumere un’altra espressione rispetto a quella iniziale. Era come se la sua domanda fosse in realtà retorica, come se sapesse che io, l’accendino, alla fine gliel’avrei passato comunque.
Lo sfilai dalla tasca e lo poggiai sul palmo aperto della sua mano.
 
 
Fumammo insieme nel totale silenzio. Non era il silenzio di un appartamento sul traffico, e nemmeno quello di una classe durante un test. Era un silenzio vuoto. Nessun rumore di sottofondo, né in lontananza né nelle vicinanze. A volte si sentiva come soffiavamo via il fumo che ci scivolava via dalle labbra, ma quello, per me, era compreso nel silenzio. Perché nessuno dei due sembrava prestare attenzione ad altro se non alla persona al proprio fianco.
Per questo motivo mi resi conto che fino ad allora non avevo mai vissuto dei minuti che fossero durati così a lungo quanto quelli che avevo condiviso con quello sconosciuto. Fu come leggere un capitolo di storia senza farci realmente caso e poi trovarsi a sottolineare una riga che ti sembra invece la più importante del mondo.
Non so, è un po’ una similitudine del cazzo.
Mi sentii come uno che ascolta una canzone per la prima volta e lo capisce già dai primi quindici secondi che è destinata a diventare la sua preferita.
Io ebbi bisogno di diciassette anni per capire che non avevo ancora realmente iniziato a vivere la mia vita.
E lo capii proprio in quei secondi di silenzio.
 
“Non dovresti essere a scuola?”
“Sì.”
“E quando?”
 
Mi voltai a prendere il telefono dallo zaino e diedi un’occhiata all’orario.
 
“Dieci minuti fa.”
Lui rise, sbuffando dell’aria dal naso e alzando leggermente gli angoli della bocca.
Poi divenne gradualmente serio e si voltò verso di me. Io mi voltai immediatamente verso lui.
Fece un piccolo cenno col capo e si alzò dalla panchina. Mosse alcuni passi, ma io non dubitai nemmeno per una frazione di secondo che se ne sarebbe andato. Non so il perché, semplicemente ne ero certo. Fu come per la domanda retorica sull’accendino.
Poi tornò a guardarmi e mi sorrise, scostando leggermente le braccia dai fianchi e girando i palmi delle mani. Alzò anche le spalle con l’espressione di chi ha appena constatato un’ovvietà.
 
“Che fai? Non vieni?”
 
Ancorai lo zaino a una spalla e mi alzai di scatto.
Quella era decisamente una mattina in cui l’ultimo posto sulla sinistra della terza fila poteva passare in secondo piano. Perché io avevo smesso di attuare la mia rivincita sulla vita, e avevo iniziato a viverla.
 
 ~
 
Camminammo un po’ come avevamo fumato: in silenzio e con il peso della presenza dell’altro che gravava su ognuno dei nostri passi. Eppure era una sensazione tutt’altro che sgradevole.
C’era, nell’aria, quella totale assenza di imbarazzo che può esistere solo tra amici di vecchia data.
Più o meno era così che il mio corpo percepiva quel ragazzo. Era il più familiare tra gli sconosciuti.
 
Lui mi propose un caffè da Eder’s.
 
Il bar era di proprietà di un signore tedesco, conoscente di mia madre, che si era trasferito in America durante il periodo della guerra.
Spesso mi era capitato di essere con lei quando i due indugiavano a parlare un po’ più del solito, e in questo modo mi ero potuto fare un’idea più o meno vaga della sua storia e di quella della sua famiglia. Il nome di battesimo era Ernst, ma io ero così abituato a chiamarlo Signor Eder che nelle mie fantasie di bambino mi convinsi che anche la madre non lo chiamò mai con altro nome.
Mi convinsi anche che, un nome con così tante consonanti, non era di certo fatto per essere pronunciato.
Mr. Eder, però, la madre dovette abbandonarla quando decise di spostare la propria vita nei grandi e liberi Stati Uniti d’America. O almeno, dovevano essere decisamente grandi e liberi nella sua immaginazione, perché affittò un piccolo appartamento su un altrettanto piccolo locale e vi si trasferì trascinando con sé l’intera famiglia.
Quando da bambino ripensavo alla sua vita, mi rendeva felice sapere che la caffetteria fu un’attività che andò sempre discretamente bene, almeno tanto da poter compensare la delusione che doveva aver provato quando, per la prima volta, realizzò che l’America non era poi molto simile allo stato grandioso che aveva sempre immaginato nelle sue fantasie da immigrato.
 
Ma ognuno di noi ha delle fantasie.
Io, al tempo, mi limitavo a quelle bambinesche in cui la mamma di Mr. Eder si rifiutava di chiamarlo per nome di battesimo. Mr. Eder, a sua volta, si illudeva di poter raggiungere quell’ideale di vita perfettamente equilibrata che inseguiva da sempre.
Non so chi, tra noi due, rimase più deluso nel sapere che la realtà era ben lontana dai nostri sogni.
 
 
Accettai il caffè da Eder’s, ma solo a condizione di prendere il tavolo all’angolo che rimaneva nascosto dalla scala che portava al soppalco con i tavoli da pranzo.
 
“Il proprietario è un amico di famiglia. Non voglio che mi veda quando marino scuola.”
 
Il ragazzo rise soffiando arietta dal naso, come notai era solito fare praticamente ogni volta che aprivo bocca. Non penso che la cosa mi infastidisse più di tanto. Devo ammettere che mi incuriosiva dannatamente.
 
Ci sedemmo nel tavolo che poteva essere considerato un po’ la mia panchina nascosta all’interno di Eder’s. Lui ordinò un caffèlatte, e poi si voltò verso di me quando fu il mio turno di prenotare, e mi fissò mentre chiedevo alla cameriera di poter gentilmente avere una cioccolata calda fondente.
Quando la ragazza si allontanò dal tavolo, lui aveva ancora gli occhi puntati sul mio viso e io decisi che avrei giocato al suo gioco, e lo fissai a mia volta.
La scena, vista dall’esterno, doveva sembrare estremamente intrigante. Ma d’altra parte nessuno avrebbe potuto vederci alle otto di mattina, nel tavolo più remoto di una caffetteria non frequentatissima di Newark, mentre il resto della città era a lavoro.
E anche se avessimo avuto un pubblico di spettatori, né io né lui l’avremmo mai notato, visto il modo in cui sembravamo intenti a contare ogni pagliuzza e sfumatura che contrastasse con il colore dei nostri occhi.
I suoi erano di un verde caldo, che sembrava un po’ anche un marroncino con piccole zone color miele. In effetti non erano facili da definire. Sarà che ci affogavi dentro quando li osservavi per più di due secondi e risultava difficile concentrarsi sul loro colore.
Ma io mi presi il mio tempo, perché lui sembrava determinato a prendersi il suo.
E alla fine riuscii a risalirne a galla.
 
 
All’improvviso il ragazzo di fronte a me spostò i gomiti dal tavolo e raddrizzò la schiena, poggiandosi contro lo schienale della poltroncina a muro su cui eravamo seduti.
Qualche minuto dopo arrivò la cameriera con le nostre ordinazioni, e a quel punto non ne potevo più del silenzio. Volevo parargli, fargli mille domande. Sapere come mai conoscesse Eder’s anche se prima di allora non l’avessi mai visto a Newark; sapere come fosse arrivato in quello squallore che era il parchetto a Est e, soprattutto, come cazzo avesse scoperto la mia panchina; sapere anche il suo nome, magari.
Ma c’era una sola domanda che nessuno mi avrebbe dissuaso dal porgli. Perché bloccava tutte le altre e anche il flusso dei miei pensieri. Era un dubbio fastidioso come una spina, e dovevo liberarmene.
 
“Come mai hai voluto che ti prestassi l’accendino se ne avevi uno nel pacchetto di sigarette?”



~

(Feedback, vi prego. Siete bellissimi, ciao.)

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