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Autore: Niglia    02/10/2014    6 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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8
The Man with No Face
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There is so much comfort in the darkness.

Aveva sognato, quella notte, di essere ritornata ad Hambleton Abbey. Si era ritrovata all’improvviso nel verdeggiante giardino che circondava la proprietà, all’ombra degli ippocastani, le narici invase dal profumo dei rododendri, con il calore tiepido dei raggi del sole che invitavano ad abbandonare il riparo delle mura di casa e a trascorrere le giornate intere all’aperto. Il lungo recinto di siepi sempreverdi che correva intorno al perimetro di Hambleton riparava la veranda dal vento, ed era talmente lungo e fitto che doveva venir potato ogni giorno da una decina di instancabili giardinieri che usavano interrompere il loro lavoro e sfilarsi il cappello ogni volta che il conte passava loro accanto in silente supervisione, preceduto dai suoi cinque magnifici esemplari di Golden Retriever.
La nostalgia rese il ricordo di Hambleton ancora più dolce e straziante. Mentre passeggiava per il giardino, con la placida lentezza che è tipica del sogno, poteva sentire lo zampillo della fontana sul retro – la biblioteca dava esattamente su quel lato del parco – e l’abbaiare spensierato dei cani, e persino, se tendeva l’orecchio, il rumore attutito di tappeti che venivano sbattuti da domestici indaffarati. Uno sbuffo d’aria più prepotente di altri le avrebbe poi portato il profumo delle leccornie che la cuoca sfornava con una rapidità instancabile – crostate, pudding, creme, e ogni singolo dolciume che la fantasia umana poteva inventare – e in quei momenti sarebbe sgattaiolata nelle cucine, di nascosto, per assaggiare qualcosa con la complicità di Mrs. Lacy, che in verità attendeva il momento in cui Emma avrebbe varcato di soppiatto la soglia del mondo della servitù, come usava fare da bambina.
 Il sogno si confondeva alle memorie, ed Emma appariva e riappariva incomprensibilmente in ogni angolo di Hambleton, guidata dalla direzione che prendeva il suo subconscio. Adesso era nelle stalle, a porgere zollette di zucchero sul palmo della mano alla sua giumenta preferita, e il momento successivo si trovava in biblioteca, o nel salottino privato di lady Grantham. Là, con la coda dell’occhio, poteva quasi vedere sua madre così come amava ricordarla, intenta a leggere o rispondere alla corrispondenza, con quell’aria assorta e le labbra socchiuse a mormorare una qualche musica indistinta.
E tutte le finestre e le vetrate erano spalancate, sicché ogni stanza del castello era illuminata dai raggi del sole, e il profumo dei vasi che traboccavano fiori serpeggiava in ogni angolo, portando aria d’estate. Sembrava non esserci un solo angolo oscuro, ad Hambleton, a parte quella che era stata la camera da letto di Elizabeth e che era rimasta chiusa sin dal giorno della sua morte. Provava nostalgia anche per quella stanza, Emma, e nel sogno vi apparve al suo interno, e si ricordò di quando usava infilarvisi per dormire nel letto della sorella e sentire così meno la sua mancanza, nei primi tempi che avevano seguito la sua scomparsa.
Avrebbe tanto voluto poter aprire gli occhi e ritrovarsi a casa, nella sua camera d’infanzia, con suo padre e sua madre e sua sorella e i dolci di Mrs. Lacy e i bonari rimproveri di Mr. Logan, a organizzare feste e pic-nic nel parco e dimenticare così tutte le tragedie che si erano abbattute sulla sua famiglia…
Ma Hambleton era lontana miglia e miglia, Hambleton era in lutto, e lei non ci sarebbe tornata per chissà quanto altro tempo.


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Una pezzuola bagnata, fresca, le tamponava con delicatezza la fronte; ma, nel momento in cui diede cenno di essere sveglia, quella piacevole frescura cessò bruscamente, ed Emma avvertì nel dormiveglia un fruscio e un rumore attutito di passi che si allontanavano rapidi. Confusa e ancora stordita dal sonno, la giovane sbatté le palpebre e dischiuse gli occhi, ritrovandosi ad osservare la struttura di un baldacchino ricoperto da tendaggi scuri e rovinati: le ci volle qualche momento per realizzare di non trovarsi nella sua stanza, e quando questo pensiero prese forma nella sua mente Emma si rizzò bruscamente a sedere, spaventata.
La stanza in cui era stata trasportata nel momento in cui aveva perduto i sensi pareva qualcosa a metà tra un confuso ripostiglio e la tana di una creatura che non aveva nulla di umano, di naturale. Essa era enorme, circolare, e aveva l’aria di appartenere all’ala cinquecentesca del castello, con le nude mura in pietra grezza e l’assenza di carta da parati. La debole luce proveniente da due finestrelle poste in alto, vicino al soffitto, alla stregua di feritoie, scivolava sui spessi tappeti che ricoprivano il pavimento, sui candelabri che reggevano moccoli di vecchie candele, e su ninnoli e suppellettili di ogni forma, colore e dimensione che ingombravano ogni superficie disponibile come se ci si trovasse nel nido di una gazza ladra; ma ciò che catturò davvero la sua attenzione furono i numerosi ritratti appesi con cura alle pareti. Scivolando giù dal letto per avvicinarsi e saziare la sua curiosità, e avvolgendosi la coperta intorno al corpo poiché sentiva di avere il gelo nelle ossa, Emma vide che il soggetto ritratto non era altri che lei. E decine e decine di altre se stesse la fissavano da ogni punto delle pareti – bozze appena iniziate o disegni conclusi, a matita o a carboncino, nei quali lei sorrideva, oppure appariva seria, accigliata, distratta, o altri in cui era perfino addormentata – e lo spavento fu tale che dovette premersi le mani sulla bocca per reprimere un urlo, che si tramutò così in gemito. Qualcosa, nello sfoggio inquietante di quei dipinti, le riportò alla mente l’orrore della notte prima, e la gravità di ciò che le era successo la trafisse come un dardo.
Sì, ora rammentava: ancora non aveva deciso se si fosse trattato di un sogno o di un’allucinazione – perché pensare che fosse reale era una cosa inconcepibile – ma ciò che era certo era che qualcuno nel castello doveva esserci, qualche intruso, qualche malintenzionato che vi abitava in segreto, e che per forza di cose doveva essere il responsabile del suo recente rapimento. Qualcuno che l’aveva spiata dal momento in cui aveva varcato la soglia di Pemberley – il che spiegava anche la sensazione di disagio che aveva provato fin dall’inizio.
Cosa diavolo…
Un fruscio leggero alle sue spalle interruppe il pensiero a metà. Emma si voltò di scatto, stringendosi addosso la coperta come se quel fragile tessuto potesse proteggerla da qualsiasi cosa si fosse celata nel buio, e strinse gli occhi, trattenendo il respiro mentre faceva vagare lo sguardo su quella che apparentemente sembrava solo una stanza vuota. Ogni ombra le appariva minacciosa, e mai prima di allora aveva provato una così cieca e irrazionale paura dell’oscurità; avrebbe dato ciò che aveva di più prezioso per una sola candela accesa.
«C’è qualcuno?» Domandò, sforzandosi di non far tremare la propria voce e di assumere al contrario un tono autoritario. «So che siete qui, vi ho sentito. Mostratevi, se le vostre intenzioni sono oneste!»
Non giunse alcuna risposta, tuttavia, e il silenzio accrebbe la sua angoscia perché ormai Emma aveva capito di non essere da sola in quella stanza. Deglutì, udendo i battiti del proprio cuore rimbombarle nelle orecchie come tuoni, e indietreggiò lentamente, tornando verso quel letto che ora le sembrava l’unico angolo sicuro e adatto a fungere da rifugio.
Che cosa avrebbe potuto dire, per spingere chiunque si stesse nascondendo in quel buio a uscire fuori, a venire da lei, a spiegarle perché l’aveva portata lì? E se aveva a che fare con un pazzo, o con un criminale – si ricordava bene ciò che le aveva raccontato Sir Arthur, a proposito della tragedia che già una volta aveva avuto luogo tra quelle mura, e sinceramente pregava di non fare parte della successiva – ebbene, come ci si aspettava che reagisse? Che cosa voleva da lei, per l’amor del cielo?
Lacrime invadenti le inondarono allora gli occhi, rendendo sfuocato quel poco che vedeva dell’ambiente circostante. Non voleva piangere – non voleva mostrarsi debole – ma lo shock di ciò a cui aveva assistito la notte prima, reale o meno che fosse, unito al terrore di non sapere che cosa sarebbe stato di lei, era troppo da sopportare stoicamente e in silenzio.
E poi, proprio quando stava per perdere le speranze…
«Non dovete avere paura», mormorò all’improvviso una voce roca, priva di corpo, inciampando sulle parole come se fosse trascorso parecchio tempo dall’ultima volta in cui aveva parlato.
Emma si voltò verso il punto da cui le era parso che provenisse, ma attraverso il buio non riuscì a vedere né distinguere nulla. Rimase immobile accanto al letto, aggrappata ferocemente a una colonna del baldacchino come se ciò potesse in qualche modo servire a proteggerla. «Chi siete?» Esclamò subito; una rabbia che non credeva di poter provare la invase, rendendo la sua voce aspra e le sue parole seguenti impazienti e prive di indulgenza. «Fatemi la cortesia di farvi vedere!»
«Potreste rimpiangere questa vostra richiesta, milady», ribatté mestamente la voce, che stavolta sembrò giungere dal lato opposto della stanza come se in effetti fosse incorporea e inumana, e non costretta alle leggi della fisica di un corpo comune. Agitata Emma si voltò ancora, alla disperata ricerca della fonte di quelle parole, e fece persino qualche passo in avanti, ma i suoi movimenti non dovettero piacere alla misteriosa presenza che la fissava da chissà quale punto imprecisato.
«No, non muovetevi! Restate dove siete», sibilò infatti, perdendo per un istante la gentilezza che le era sembrato di avervi scorto. Obbedendo istintivamente per cercare di ingraziarsi chiunque egli fosse – giacché non vi era alcun dubbio che la voce fosse maschile – Emma rimase immobile, le mani leggermente sollevate con i palmi verso l’alto per dimostrare, ironia della sorte, che non aveva cattive intenzioni.
«Per favore», insisté con maggior dolcezza, decisa a venire a capo di quel mistero. «Venite sotto la luce.»
Dopo ogni sua frase seguiva un lungo silenzio, come se tutto ciò ch’ella diceva venisse accuratamente sezionato e studiato dal suo interlocutore alla ricerca di una falla, di un qualche significato nascosto, di un’incertezza che rischiasse di mettere fine a quell’eccentrica conversazione. Pareva quasi che fosse la voce ad avere paura di lei, e non il contrario – cosa parecchio assurda, se si considerava il fatto che era stata lei a venire rapita e portata in chissà quale anfratto del castello.
 «La vostra parola», replicò infine la voce, ora mortalmente seria e con un pericoloso tono di avvertimento. «Voglio la vostra parola che non cercherete di fuggire. Vi rammento che adesso potreste essere in mani ben peggiori delle mie, se ieri notte non fossi venuto in vostro soccorso.»
La giovane aggrottò la fronte, piuttosto perplessa – a che cosa si stava riferendo? Di certo ciò che lei aveva visto… che le era sembrato di aver visto… doveva essere solo un sogno, non era forse così? – ma non commentò, decidendo che ci sarebbe stato tempo in seguito per approfondire quei dettagli. Dopotutto la notte era ormai passata, poco importava in che modo, e ciò su cui doveva concentrare la sua attenzione era soltanto il momento presente. «Vi giuro che non muoverò un solo passo», lo rassicurò infine com’era ovvio, benché il suo caro istinto di sopravvivenza le avrebbe fatto sciogliere quella promessa in un battito di ciglia se la situazione si fosse dimostrata assai più pericolosa di quanto lei avesse previsto.
Dall’oscurità giunsero allora degli altri fruscii, come se il proprietario di quei sussurri le stesse girando intorno, alla stregua di un avvoltoio, forse per assicurarsi che davvero ella non avrebbe cercato di scappare; continuando a restare immobile con una forza d’animo notevole, Emma si lasciò pazientemente osservare, con la speranza forse che così facendo l’uomo le avrebbe ricambiato la cortesia. Poi, dopo un silenzio carico di aspettativa ed angoscia, i fruscii cessarono: e, quando infine osò sollevare lo sguardo dalle trame del tappeto che aveva fissato con tanta insistenza, i suoi occhi incontrarono per la prima volta quelli di colui che l’aveva rapita.
Fu incapace di soffocare il gemito spaventato che le salì in gola alla sua vista. Pur odiandosi per quella manifestazione di debolezza, Emma trattenne bruscamente il respiro e non poté fare a meno d’indietreggiare di qualche passo: davanti a lei, alto, cupo, avvolto di nero da capo a piedi, si ergeva l’uomo. Non fosse stato per l’assoluta mancanza di colore nel suo abbigliamento e per una maschera bianca che gli copriva il volto nella sua interezza lasciando intravedere solo gli occhi, sarebbe potuto sembrare un qualsiasi gentiluomo, vista l’eleganza e la cura che pareva aver investito nel suo aspetto. Eppure, il solo fatto di non riuscire a scorgere la più piccola porzione di pelle rendeva la sua persona inquietante e istintivamente pericolosa, e fu per questo motivo che Emma tacque, impaurita e sconcertata.
Occhi chiari, a quella distanza non avrebbe saputo dire se grigi o azzurri, la fissavano penetranti da sotto la maschera, omaggiandola con uno studio altrettanto minuzioso di quello che gli stava dedicando lei.
«Ebbene, milady», mormorò dopo un po’ la sua voce, leggermente attutita dalla maschera. «Potete dirvi soddisfatta adesso che mi avete visto?»
«Chi siete?» Chiese lei di rimando, cercando di venire a capo di quel mistero. Uno sconosciuto si trovava in casa sua, si permetteva di rapirla e rinchiuderla in chissà quale stanza, e si prendeva gioco di lei mostrandosi con quel ridicolo travestimento… Le sue gambe cedettero, incapaci di reggerla ancora, ed Emma si lasciò cadere sul bordo del letto. I suoi occhi non riuscivano a staccarsi dall’uomo di fronte a lei, in piedi nel piccolo cono di luce proveniente dalla piccola finestra in alto, immobile e silenzioso mentre lasciava tranquillamente che lei lo osservasse fino a memorizzarne ogni più minimo dettaglio.
«Sono il padrone del castello», fu infine la sua pacata risposta, annunciata come fosse un semplice dato di fatto impossibile da contraddire.
Quelle parole, che Emma trovò oltremodo arroganti, la riscossero dal torpore e risvegliarono in lei tutta la rabbia e l’indignazione che aveva provato al suo risveglio nel trovarsi in un letto che non era il suo. «Il padrone? Come vi permettete?» Sbottò irritata, incapace di contenersi. «Mio padre è il proprietario di Pemberley, signore. Forse avete preso questa casa a vostra dimora nel periodo in cui è rimasta disabitata, e non so che genere di pensieri possiate aver fatto, ma se volete evitare che vi faccia arrestare siete pregato di andarvene il prima possibile!»
In quel momento, fu come se tutta l’aria della stanza venisse risucchiata via per lasciare il posto a una pesante tensione che rese quasi difficile respirare. Emma vide chiaramente qualcosa cambiare nella postura dell’uomo, una certa rigidezza nelle spalle e lungo le braccia, e persino gli occhi parvero brillare di una luce estranea, aliena, infernale. E allo stesso modo lo vide lottare contro quel qualcosa che per un attimo lo aveva posseduto – egli strinse le mani a pugno con così tanta forza da far scricchiolare la pelle dei suoi guanti – e gli sfuggì addirittura un gemito che parve dolorante, prima che riuscisse a riacquisire la fredda compostezza che lo aveva caratterizzato dal primo momento.
Emma non aveva idea di che cosa fosse successo, non avrebbe neppure saputo spiegarlo, ma qualsiasi cosa fosse era di certo pericolosa e terrificante – anche lui ne sembrava scosso, d’altronde.
L’uomo prese un profondo respiro prima di rispondere, e quando lo fece a Emma parve di udire la sua voce tremare appena. «Vostro padre, signora, ha acquistato una dimora che non è mai stata in vendita», riprese, con un gelido autocontrollo che la terrorizzò più di un accesso d’ira. «Pemberley mi appartiene per diritto di nascita, e sappiate che non la cederò a nessuno finché avrò vita. Vi sono cose, tra queste mura, talmente orribili che vi farebbero perdere il senno, e che solamente io conosco e sono in grado di tenere a bada… Come peraltro dimostra la vostra disavventura della notte scorsa. O avete forse già dimenticato? No, certo che no, ma preferite credere che si sia trattato di un incubo piuttosto che accettare che ogni cosa che a cui avete assistito è stata reale come lo siete voi, e come lo sono io. Credete pure ciò che volete, ad ogni modo… non è per questo che vi ho portata qui.»
L’uomo fece un passo in avanti, e il movimento fu tanto repentino che Emma gemette, spaventata, e si spostò bruscamente al lato opposto del letto, cercando di mantenere una certa distanza tra sé e lo sconosciuto. Sorpreso a sua volta dalla reazione della giovane, e forse persino offeso da essa, egli si fermò, rimanendo immobile come fa il cacciatore per non spaventare il cerbiatto. «Vi ho già detto che non dovete avere paura di me», ripeté mestamente, con una pazienza e una strana gentilezza impossibili da spiegare.
«Come posso non avere paura», ribatté Emma, mascherando con la rabbia il proprio timore, «Se tutto ciò che so di voi è che mi avete portata contro la mia volontà in quella che suppongo essere la vostra camera? Non vi conosco, eppure voi dovete conoscere me, a giudicare dai miei ritratti che abbelliscono le pareti. Da quanto tempo abitate in questo castello, signore, e da quanto tempo mi spiate? E come se non bastasse, vi prendete gioco di me con quel ridicolo travestimento… Abbiate il coraggio di mostrarmi il vostro viso!»
«Purtroppo, milady, questo è qualcosa che non posso fare», replicò lui con il medesimo tono utilizzato in precedenza; sembrava quasi che soffrisse nell’essere costretto a contraddirla. «E vi prego di non chiedermelo più, per il mio e il vostro stesso bene.»
«Allora, vi prego, rispondete a un’altra domanda», insisté Emma, facendosi più baldanzosa man mano che vedeva che il suo misterioso ospite non sembrava volerla aggredire in alcun modo. «Perché mi avete portato qui? Siamo ancora nel castello, giusto? Ebbene, perché non vi siete limitato a riportarmi nella mia stanza?»
«Mmh. Sì, suppongo… Suppongo di dovervi una qualche spiegazione», iniziò con fare esitante, guardandosi intorno come se la risposta giacesse su un qualsiasi suppellettile. «Io… Ecco, ho ritenuto fosse più… prudente… portarvi in una parte del castello dove non avreste corso il pericolo di essere nuovamente attaccata. Siamo nell’ala Ovest, se ve lo state domandando. Qui potete considerarvi al sicuro.»
«Mi riesce difficile crederlo», replicò lei a mezza voce, senza staccare gli occhi da lui. Benché le sue parole cercassero in un certo di essere rassicuranti, il suo sforzo veniva malauguratamente reso vano da quella maschera, e dall’insistenza con cui si ostinava a tenere nascosta la sua identità.
«Non ha importanza che mi crediate o meno», ribatté l’uomo con aria improvvisamente seccata. «Quel genere di fiducia arriverà col tempo, spero.»
«Col tempo… Che cosa intendete?»
Egli raddrizzò la schiena e incrociò le braccia davanti al petto, diventando se fosse stato possibile ancora più intimidatorio. «Rimarrete qui per sette giorni», le spiegò con fermezza.
Emma aggrottò la fronte, interdetta. «E trascorsi questi sette giorni…»
«Sarete nuovamente libera di andare dove vorrete e di tornare alle vostre faccende, perché tra una settimana avrete imparato a non temermi e, mi auguro, a trovare interessante la mia compagnia. E allora tornerete di vostra volontà a trovarmi, e non ci sarà bisogno di ricorrere a questi ignobili mezzi», aggiunse più tristemente, come se non fosse del tutto certo che il suo piano avrebbe avuto un esito positivo e ne temesse, dunque, un tragico finale. «Ebbene, che cosa dite? Mi concederete questi sette giorni?»
«Io…» Mordicchiandosi le labbra e torcendosi le mani, la povera lady Moore non aveva idea di quale risposta dare. Forse, se si fosse mostrata compiacente e docile, ogni cosa si sarebbe risolta; e poi, una volta passati quei sette giorni, sarebbe potuta fuggire dal castello – avrebbe cercato un modo per portar via anche la povera miss Radcliffe, che ancora giaceva malata a letto – e andare a chiedere asilo a Sir Arthur, in attesa che Caledon o suo padre venissero a prenderla… Sì, doveva soltanto avere pazienza, essere forte; ma prima…
L’istinto ebbe la meglio sul buonsenso, e senza pensarci una seconda volta Emma sollevò una mano, intenzionata a strappare quello stupido travestimento e a fissare il volto dell’uomo una volta per tutte; era sicura che, privato della maschera, egli avrebbe perduto la sua arroganza e sarebbe stato costretto a confrontarsi con lei da pari a pari, perdendo così la capacità di ispirare quella sorta di sacro terrore. Ma purtroppo il gesto non passò inosservato ai suoi occhi attenti, ed egli reagì prontamente prima che lei potesse anche solo sfiorare con la punta delle dita la porcellana della maschera.
«Che cosa diavolo credete di fare?» Sibilò, la mano stretta ferocemente intorno al suo polso, come a voler dare maggior peso alle parole. «Ho detto che non avrete nulla da temere, milady, ma solo fintanto che lascerete questa maschera al suo posto!»
La rilasciò bruscamente, spingendola e lasciandola ricadere contro il letto. Si portò le mani al volto con un gesto meccanico e angosciato, come per accertarsi che l’inquietante oggetto fosse ancora al suo posto, e quando comprese che nulla era sfuggito al suo controllo tornò a fissare i suoi occhi furenti su di lei.
«Non mi importa della vostra risposta», ringhiò, con un lieve tremito nella voce. «Rimarrete qui perché io ho deciso così, e mi obbedirete, e mi porterete rispetto! E che Dio vi protegga se proverete ancora a toccare questa maschera.»
Quando uscì, richiuse dietro di sé la porta con un tonfo tale che fece tremare i cristalli del lampadario.


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Mrs. Duncan aveva trascorso tutta la notte insonne, girando e rigirandosi nel lettino della locanda incapace di prendere sonno. Che cosa stava accadendo a Pemberley, pensò, mentre lei era al sicuro a diversi chilometri dal maledetto maniero? Quale tragedia stava prendendo forma tra quelle mura, ora che non c’era lei a prendersi cura della nuova padrona?
La lontananza, seppur breve in termini di tempo, le diede modo di impiegare le lunghe ore insonni della notte a riflettere su tutto ciò che era accaduto negli ultimi due mesi. L’arrivo di Lady Moore, e l’improvviso via-vai di visitatori, e il castello che si risvegliava come un mostro infernale dal suo lungo letargo, pronto ancora una volta a nutrirsi di povere anime innocenti… E lei, sciocca che non era altra, che lo aveva permesso, che vi aveva acconsentito!
Si era affezionata alla ragazza, sì, come non avrebbe potuto? Era giovane, era sola, e anche se godeva della vita agiata di un’aristocratica, a lei non era sfuggita l’espressione triste perenne che ombreggiava quei suoi begli occhi ambrati, e che svaniva raramente a meno che non ci fosse nelle vicinanze quell’adorabile bestiola che si era portata appresso. Provava un misto di tenerezza e compassione per quella ragazza – benché non potesse negare che talvolta l’avesse trovata davvero irritante, con certi atteggiamenti altezzosi che sfoggiava probabilmente per fingere di essere in grado di gestire una casa e la sua servitù. Ma poteva davvero biasimarla? Aveva trascorso abbastanza tempo al servizio dei nobili per sapere quale genere di educazione ricevessero le figlie femmine, il cui unico scopo era di contrarre un matrimonio che fosse conveniente più per il nome della famiglia che non per il loro benessere; sì, aveva ricchezza e una vita comoda, ma non sarebbe mai stata padrona della sua vita, padrona di fare ciò che voleva, di prendere le sue decisioni, perché avrebbe avuto in ogni caso un uomo al suo fianco che le avrebbe prese per lei.
E in tutto questo, la povera Lady Moore non solo doveva essere all’altezza del matrimonio con quel giovane che era giunto a trovarla, qualche tempo prima, ma era anche finita nel mirino del mostro che governava il maniero di Pemberley come sovrano incontrastato. E lei, che pure si vantava di essere una buona madre e una cristiana devota, non aveva esitato a lasciarla alla mercé delle creature che infestavano il castello, preferendo fuggire come una codarda anziché dimostrare un minimo di solidarietà e aiutare la giovane.
Non sarebbe servito chissà quale sacrificio, a dire la verità: sarebbe bastato avvertire sia lei che la sua istitutrice del pericolo che correvano nell’abitare a Pemberley, invece che mantenere il silenzio per paura della reazione del mostro, e forse adesso non avrebbe trovato tanto difficile prendere sonno.
A quel punto dubitava persino dell’aiuto che le era stato promesso dalla compianta Lady Nora, di cui non aveva notizie da settimane e che non si era data pena di metterla a parte dei suoi progetti. Certo, i morti non andavano disturbati né contraddetti, ma per l’amor di Dio! Avrebbe potuto almeno avere pietà di lei, e tenerla aggiornata!
Fu la voce del signor Duncan a distrarla, riportandola alla realtà di quel tiepido lettuccio. «Basta, mia cara, non ci pensare», mormorò la sua voce impastata dal sonno, preziosa ancora nel mare in burrasca che erano i suoi pensieri. «Ormai è troppo tardi per fare qualsiasi cosa.»
E Mrs. Duncan, rotolando di fianco con un sospiro e cercando nel proprio corpo un riparo dalle sue colpe che non poteva trovare, non poté che dargli ragione.


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L’uomo mascherato l’aveva lasciata da sola – Emma non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso.
«Avrete modo di riflettere», le aveva detto prima di andarsene, come ripensandoci, con quella voce roca che faceva venire i brividi. «E di abituarvi all’idea di me. So essere molto paziente, vedete, e quando capirete che non avrete nulla da temere… da me… Allora, allora potremo riprendere il discorso.»
Non poteva rimanere con le mani in mano in attesa che l’uomo tornasse e decidesse che farne di lei; non si sarebbe arresa a quella sorte senza neppure fare un tentativo per sfuggirne. Per questo motivo mise a frutto le ore di solitudine che le erano state concesse, e mise a soqquadro l’intera stanza alla ricerca di un qualche oggetto da poter utilizzare come arma per aggredire lo sconosciuto qualora le sue intenzioni si fossero rivelate, in effetti, quelle di un mascalzone.
Inoltre, come se la natura stessa fosse giunta a darle una mano, aveva iniziato a piovere e ormai andava avanti da un bel po’, e l’acqua che scrosciava violentemente sulle mura e sui tetti creava un frastuono tale da soffocare ogni altro genere di rumore. Era il primo vero e proprio acquazzone della stagione invernale, nulla a che vedere con la pioggia sottile e quasi delicata che era caduta nelle settimane precedenti, e mai come allora Emma fu grata del suo arrivo: il trambusto dell’acqua che scorreva con la violenza di una cascata giù nelle grondaie in rame avrebbe coperto quei rumori che avrebbero potuto denunciare le sue intenzioni all’uomo misterioso, permettendole di coglierlo di sorpresa e di assegnare un esito felice al suo piccolo piano.
Così, quando la porta si riaprì e la sagoma del suo carceriere si stagliò sull’uscio, oscurando la debole luce proveniente dal corridoio, Emma cercò di scivolare il più silenziosamente possibile verso di lui, le mani strette intorno al ferro gelido del candelabro con la furia cieca della disperazione.
Accadde tutto in meno di un attimo: probabilmente intuendo che c’era qualcosa che non andava nell’aria – non avrebbe saputo spiegare in altro modo la prontezza dei suoi riflessi – l’uomo si voltò rapido verso di lei e con una presa salda e decisa le imprigionò i polsi, torcendoglieli con forza in modo da farle aprire le mani e abbandonare la presa sull’arma improvvisata. Il pesante oggetto cadde per terra con un clangore metallico, rotolando lontano dalle due figure; Emma si lasciò sfuggire un urlo soffocato di dolore e un singulto che era preludio di un pianto, ma egli non se ne curò, strattonandola con rabbia e spingendola violentemente contro il muro. L’essere sbattuta con tanta forza contro la durezza della parete le strappò l’aria dai polmoni, ed Emma boccheggiò senza fiato, terrorizzata fin dentro le ossa.
Testardamente, tuttavia, cercò ancora di divincolarsi dalla stretta e sollevò un piede nel vano tentativo di colpirlo, ma le gambe le tremavano e l’uomo riuscì facilmente a scansarsi, per poi infilare a sua volta una gamba tra le sue e bloccarle ogni genere di movimento futuro. Emma s’irrigidì a quell’indecente vicinanza, ma soffocò le urla che minacciavano di scapparle dalla bocca; qualcosa le diceva che gridare a quel punto sarebbe stato inutile, e avrebbe al contrario ravvivato ulteriormente l’ira dello sconosciuto.
«Ora, milady», sibilò quindi quell’oscura voce ansimante, orribilmente vicina al suo viso. «Che cosa credevate di fare?»
«Lasciatemi», riuscì a sussurrare, deglutendo a fatica. «Vi prego, lasciatemi…»
«E perché mai dovrei farlo, mh? Se non sbaglio avete appena cercato di uccidermi!» Le rinfacciò l’uomo con un tono vibrante che andava ben oltre la semplice definizione di rabbia, incastrandola tra il proprio corpo e il muro e sollevandole le braccia sopra la testa tenendogliele ferme con un’unica mano, qualora le fosse venuto in mente di tentare di aggredirlo una seconda volta. «E guardatemi, quando vi parlo! Come, siete così coraggiosa da tentare di assalirmi ma non lo siete abbastanza da tenere gli occhi aperti in mia presenza?»
Benché l’istinto le suggerisse caldamente il contrario, Emma si ritrovò a socchiudere le palpebre e a posare lo sguardo sulla maschera bianca sospesa a poche spanne dalla sua faccia, con gli unici buchi degli occhi a donare un briciolo di umanità a quello che altrimenti sarebbe sembrato una sorta di calco funebre. Quegli occhi lucidi bruciavano di follia e collera e c’era una luce, in essi, talmente maligna che le fece domandare se per caso non si stesse trovando al cospetto del diavolo. Neri come pece e altrettanto densi, i suoi occhi non avevano nulla di umano o gentile; parevano finestre affacciate su un abisso di oscurità.
Che strano, un pensiero la colpì all’improvviso, unico barlume di lucidità in mezzo alla confusione che aveva in testa. Avrebbe giurato… ma con il buio forse aveva visto male… che i suoi occhi fossero chiari?
«Ora», riprese lui, con quella voce bassa e raschiante. «Vi prego di non fare nient’altro di sciocco, milady. Sono venuto qui armato delle migliori intenzioni, vedete, ma come proseguirà la mia linea di condotta dipenderà interamente dal vostro comportamento.» Tacque, per fare in modo che le sue parole penetrassero a fondo nella testa della giovane, e poi riprese, con un tono assai più minaccioso. «Dovete capire, mia cara, che qui non siamo nel vostro mondo, dove basta una vostra parola o un vostro gesto per farvi obbedire da tutti; siete nel mio dominio… Qui le uniche leggi sono le mie, l’unico giudice sono io, l’unico sovrano e l’unico boia!» Aggiunse alzando pericolosamente il tono, chinandosi per torreggiare con la sua figura cupa e possente su di lei. «Farete bene a ricordarlo prima di cercare di aggredirmi una seconda volta.»
«Se voi non mi aveste rapita», ribatté lei a mezza voce, con un notevole sangue freddo. «Io non vi avrei aggredito.»
I lineamenti gelidi e immobili della maschera parevano prendersi gioco di lei, mentre essa celava come un prezioso tesoro le espressioni del suo proprietario. Le sue dita lunghe e sottili si strinsero attorno al suo collo, premendo leggermente in modo che lei comprendesse chi aveva il comando; non pareva volerle fare del male, non subito perlomeno, eppure non poté fare a meno di rabbrividire. Quella vicinanza era sconveniente sotto ogni punto di vista, e servì solo a rammentarle il fatto di essere completamente alla mercé di un folle che non aveva ancora chiarito ciò che aveva intenzione di fare con lei.
«Siete insolente», mormorò derisorio, piegando appena il capo di lato come per meglio osservarla. «Ma so che in realtà siete pietrificata dal terrore. Sento il battito del vostro cuore proprio qui», continuò, premendo con delicatezza il pollice nell’incavo della giugulare, rendendole difficile respirare. «Sembra il frullio delle ali di un uccellino in trappola… Non trovate?»
Poiché Emma non rispondeva, limitandosi a fissarlo con gli occhi sgranati, egli continuò imperterrito. «Ho cercato di essere gentile, con voi, e mi avete ripagato con questa reazione. Vi ho aperto la mia casa, siete stata libera di andare e venire a vostro piacimento, ho persino sorvolato sul vostro ficcanasare e sugli avvertimenti che avete tanto bellamente ignorato… E ora, secondo voi, non mi merito neanche un briciolo di gratitudine?»
«Gratitudine?» Lo interruppe finalmente lei, deglutendo a fatica. «Gratitudine… siete un pazzo! Quanto credete che ci vorrà prima che qualcuno si accorge della vostra presenza e della mia scomparsa? I domestici andranno ad avvisare la polizia, e mio padre… mio padre e il mio fidanzato staranno di certo per arrivare al castello!»
La breve e secca risata che provenne da sotto la maschera mise a tacere le sue deboli minacce. «Mia cara… Se sono pazzo, è soltanto perché ho trascorso troppo tempo da solo. Ma d’altronde cosa potete saperne, voi, di solitudine», sospirò amaramente. Le sue mani infine allentarono la loro stretta ed Emma venne liberata, non prima ch’egli avesse sfiorato con un’ultima carezza la pelle nuda del suo collo e la curva morbida dei suoi polsi. Indietreggiò di qualche passo, abbastanza da continuare a tenerla in suo potere e allo stesso tempo da lasciarle l’illusione della libertà. Rimasero immobili e in silenzio, respirando affannosamente, incapaci di distogliere lo sguardo e osservare altro che non fosse la persona di fronte a sé.
«Non vi chiedo molto», riprese l’uomo dopo la breve pausa, abbassando il tono come se ciò avesse potuto placare l’ira della giovane. «Come vi ho già detto, desidero soltanto la vostra compagnia. E se voi sarete gentile e paziente, come sospetto sia la vostra natura, non avrete di che temere: non alzerò un dito su di voi, a meno che non lo desideriate», il debole sorriso fu quasi palpabile nella sua voce. «Ma voi dovete promettere, e badate che le promesse sono una faccenda seria in questo castello!, che non alzerete un dito contro di me e che non cercherete di scappare. Finché mi tratterete con gentilezza, avrete gentilezza in cambio. Avete compreso?»
Emma si ostinò a tacere, ma non c’era molto altro che potesse fare per sfuggire intera a quella situazione; così si limitò ad annuire lentamente, piuttosto scioccata e con la mente ancora più confusa di prima. Per quanto tempo quel miserabile aveva intenzione di tenerla prigioniera tra quelle mura, in modo da soddisfare il suo desiderio di “compagnia”? E che cosa si aspettava da lei, esattamente? Non erano domande che avrebbe potuto fargli, purtroppo, anche perché nulla le assicurava ch’egli avrebbe risposto con sincerità. Per cui decise per il momento di assecondarlo, e di attenersi alle sue regole: era l’unico modo per essere al sicuro, a quanto pareva.
«Non so neanche il vostro nome», mormorò incerta, senza osare distogliere lo sguardo da lui.
Egli non rispose subito, forse valutando la necessità di metterla a parte di quel dettaglio; finché con uno strano verso gutturale che pareva una sorta di ghigno, disse: «Adam.» Il suo tono era forse troppo ironico, ma lei non vi diede peso, troppo scioccata nell’udire quel nome che aveva letto solo una volta, settimane prima, su una vecchia lapide ingrigita. «Potete chiamarmi Adam.»
Non le diede il tempo di fare altre domande; se ne andò in fretta, richiudendo la porta e facendo ruotare con studiata cura la chiave nella serratura, per tre volte, di modo che lei comprendesse che non sarebbe stato per niente facile fuggire.
Emma rimase nuovamente da sola, con l’ululare brusco del vento come unica compagnia.


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Huntly Street, Inverness
Venerdì 21 ottobre.
Mia carissima Emma,
Vi scrivo come promesso appena sono giunto a destinazione, con la speranza che la mia lettera trovi voi e la povera miss Radcliffe in salute. Ah, la chiassosa e invadente presenza dei miei colleghi di studio già mi fa rimpiangere l’atmosfera familiare di Pemberley Manor che ho lasciato alle spalle, nonché la dolce compagnia della sua padrona di casa… Il ricordo della mia breve visita mi ha accompagnato durante tutto il viaggio in treno, mia cara.
E ora, lasciate che vi distragga ancora un poco dagli studi – sono certo che miss Radcliffe non me ne vorrà. La pensione dove siamo alloggiati è al limitare del paese, circondata più dalla campagna che da altri cenni di attività umana, e gli unici rumori che ci svegliano al mattino e ci cullano il sonno la notte sono quelli degli animali che pascolano nelle vicinanze, placidi e senza alcuna preoccupazione al mondo. La finestra della mia stanza si affaccia esattamente sul fiume Ness, e gode di una visuale meravigliosa degna della più strabiliante opera d’arte. L’edificio è piuttosto antico, risalente probabilmente all’epoca giacobita, in legno e pietra, massiccio e in qualche modo primitivo: credetemi se vi dico che mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, nel momento in cui ho varcato la soglia. Mrs. Baird, la signora che lo gestisce, in un primo momento non aveva l’aria di apprezzare fino in fondo questa vivace comitiva di inglesi che hanno praticamente assalito la sua casa, ma ci sono bastati pochi giorni per conquistarla; adesso chiacchiera con noi volentieri, dopo cena, quando ci ritroviamo nel salottino davanti al fuoco, e da quando sono qui sono venuto a conoscenza di parecchie leggende scozzesi che sono certo adorerete.
Secondo Mrs. Baird, abbiamo scelto un ottimo periodo per la nostra scampagnata. A quanto pare, fra qualche giorno – per l’esattezza tra il 31 ottobre e il 1° novembre – gli abitanti di Inverness saranno tutti presi a festeggiare Samhain, una festività pagana che coincide con l’antico capodanno celtico e il cambio delle stagioni. Persino il reverendo parteciperà ai festeggiamenti, ci pensate? È una ricorrenza talmente radicata nelle tradizioni di questi luoghi, che persino i cristiani più ferventi si sentono a loro agio nel celebrarla. Ho come l’impressione che Mrs. Baird non ci abbia raccontato proprio tutto, e la colpa è da attribuire ai miei amici che, assai poco sensibilmente, si sono presi gioco di queste antiche usanze. Se me lo permetterete, mia cara, un giorno vorrei tornare qui insieme a voi – sono certo che sareste una compagna d’avventure assai più gradevole.
Un’altra storia – questa ve la devo proprio raccontare – mi ha colpito particolarmente per la sua ferocia, se così posso definirla. Come di certo sapete capita, talvolta, che nelle famiglie si abbatta la disgrazia della nascita di un figlio deforme, mostruoso nel corpo e malaticcio, che ha la sventura di sopravvivere al parto; ebbene, in questi luoghi la gente chiama questi bambini changeling, in quanto la leggenda narra che siano state le fate maligne a rubarli ai genitori e a sostituirli con uno dei loro. Mrs. Baird racconta, con una noncuranza disarmante, che questi bimbi vengono portati in cima a delle colline magiche e lasciati là al sorgere della notte, con dei fiori e una ciotola di latte per ingraziarsi la benevolenza del Wee Folk, e con la speranza che questi, mossi a pietà dal gesto, si portino via il bambino malato e restituisca quello che era stato rubato, presumibilmente sano. Inutile dire che ciò non avviene, in quanto la povera creatura muore durante la notte… Riuscite a immaginare una simile crudeltà, Emma, soltanto per giustificare e porre rimedio alla nascita di un figlio che non ha atteso le aspettative della sua famiglia?
Mrs. Baird dice che noi Sassenachs – significa “stranieri” – non possiamo comprendere l’importanza di queste tradizioni pastorali, e che neanche impegnandoci potremmo cogliere il valore che esse hanno radicato negli animi dell’intera popolazione. Per quanto mi riguarda, preferisco essere definito un ignorante straniero se l’alternativa è accettare così passivamente certe credenze: ritengo impossibile, all’alba di questo nuovo secolo, cullarsi ancora in simili superstizioni medievali!
Ah, sono costretto ad interrompere così questa lettera – Murray, vi ricordate di lui, non è vero? Lo avete conosciuto al ballo di lady Schonberg, il giovanotto alto, con capelli biondi e lentiggini e l’audacia di rubarvi un ballo proprio sotto al mio naso – ebbene, mi chiama per la cena; credo che il programma per la serata sia di mangiare fuori, in qualche altro locale tipico del luogo.
Raccontatemi di voi, mia cara Emma, rendete meno cupe le mie serate dandomi l’opportunità di leggere e rileggere le vostre splendide lettere. Come procede la vostra vita a Pemberley? Miss Radcliffe si è ripresa? Avete più avuto visite dal vostro interessante vicino di casa? Sapervi tutta sola in quell’immenso maniero mi rende nervoso e infelice, giacché preferirei essere mille volte al vostro fianco piuttosto che a miglia di distanza. Spero umilmente, dunque, che la mia lettera possa esservi di compagnia; e nell’attesa di ricevere vostre notizie, vi lascio a malincuore.
Con tutto il mio affetto, sempre vostro,
Caledon T. Hardy


Adam strappò ferocemente la lettera in tanti minuscoli pezzettini, gettandoli poi nel fuoco del camino senza alcun riguardo. La sua ospite non avrebbe mai letto quelle parole, per banali che fossero – non tollerava che qualcun altro le rivolgesse delle frasi tanto intime e affettuose, soprattutto se quel qualcuno altri non era che il patetico dandy che le aveva fatto visita, qualche settimana prima. Se non avesse avuto sue notizie, se avesse pensato di essere stata abbandonata dai suoi cari… ah, avrebbe potuto pensarci anche prima! Allora sarebbe stata di certo più bendisposta nei suoi confronti, più sensibile alle sue richieste, meno altera.
L’uomo mascherato sbuffò, ripensando alla sciocca lettera. “Sapervi tutta sola in quell’immenso maniero…” Ah! Non poteva sbagliarsi più di così! La fanciulla era tutto fuorché sola, e ci avrebbe pensato lui a tenerle compagnia – non aveva certo bisogno delle parole vuote di un giovanotto lontano. E poi, che irritazione tutto quel vago discorso sui changeling e sulle leggende scozzesi… Che cosa poteva saperne, un aristocratico viziato come lui, di superstizioni e maledizioni? E come osava prendersene gioco?
Se avesse saputo… Se avesse anche solo lontanamente immaginato…
D’istinto sollevò una mano e fece per portarsela al viso, ma le sue dita sfiorarono soltanto la gelida e sottile porcellana della maschera. Era talmente abituato ad indossarla, ormai – salvo quando era sotto il controllo dell’altro, allora non aveva alcun controllo né potere sulla propria volontà – che non la toglieva neppure nella solitudine; soltanto quando dormiva, e il buio lo circondava come un confortante bozzolo, osava privarsene. Lui stesso era arrivato a temere ciò che vi celava, e a rifuggire ogni superficie riflettente – si era sbarazzato con immensa soddisfazione di ogni singolo specchio presente all’interno del maniero, pur di non capitare anche solo per sbaglio davanti a uno di essi. Ma se non riusciva a tollerare il proprio aspetto, come poteva sperare che lei… No, era meglio non pensarci.
Raddrizzò le spalle, fissando con insistenza gli ultimi frammenti della lettera che si attorcigliavano e si annerivano con deboli crepitii, morbidamente divorati dalle fiamme. I suoi occhi parvero di brace, nel riflettere la luce calda del fuoco: demoniaci, si sarebbero quasi potuti definire.
Lady Emma avrebbe fatto meglio a iniziare a credere alle storie dei fantasmi, perché ci era finita dentro.









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Angolo Autrice.
E come vi avevo promesso, ecco a voi - finalmente, dopo secoli di attesa - il caro vecchio Adam! Dunque, che ne pensate? E' come vi aspettavate? Ho soddisfatto le vostre aspettative o - mannaggia! - le ho deluse? Fatemi sapere, muoio letteralmente dalla curiosità di sapere che cosa avete da dire al riguardo. *__*
Non mi dilungherò oltre in quisquilie: mi limito a ringraziare chi sta continuando a leggere, chi ha appena iniziato e chi ha recensito lo scorso capitolo (un grazie particolare dunque a dachedas, Jolly J e NinaTheGirlWithTheHat). Grazie, grazie, grazie mille per il vostro apprezzatissimo sostegno! Non so come farei senza di voi :')
Come al solito, per domande, curiosità o altro potete trovarmi su facebook. :)
Ci si legge al prossimo capitolo, speriamo che non sia fra troppo tempo! *Incrociamo le dita*
Un bacio e un abbraccio, sempre la vostra affezionata e grata
Niglia.


   
 
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