8
The Man
with No Face
There is so much comfort in the darkness.
Aveva
sognato, quella notte, di essere ritornata ad Hambleton Abbey. Si era
ritrovata
all’improvviso nel verdeggiante giardino che circondava la
proprietà, all’ombra
degli ippocastani, le narici invase dal profumo dei rododendri, con il
calore
tiepido dei raggi del sole che invitavano ad abbandonare il riparo
delle mura
di casa e a trascorrere le giornate intere all’aperto. Il
lungo recinto di
siepi sempreverdi che correva intorno al perimetro di Hambleton
riparava la
veranda dal vento, ed era talmente lungo e fitto che doveva venir
potato ogni
giorno da una decina di instancabili giardinieri che usavano
interrompere il
loro lavoro e sfilarsi il cappello ogni volta che il conte passava loro
accanto
in silente supervisione, preceduto dai suoi cinque magnifici esemplari
di
Golden Retriever.
La
nostalgia rese il ricordo di Hambleton ancora più dolce e
straziante. Mentre
passeggiava per il giardino, con la placida lentezza che è
tipica del sogno,
poteva sentire lo zampillo della fontana sul retro – la
biblioteca dava
esattamente su quel lato del parco – e l’abbaiare
spensierato dei cani, e
persino, se tendeva l’orecchio, il rumore attutito di tappeti
che venivano
sbattuti da domestici indaffarati. Uno sbuffo d’aria
più prepotente di altri le
avrebbe poi portato il profumo delle leccornie che la cuoca sfornava
con una
rapidità instancabile – crostate, pudding, creme,
e ogni singolo dolciume che
la fantasia umana poteva inventare – e in quei momenti
sarebbe sgattaiolata
nelle cucine, di nascosto, per assaggiare qualcosa con la
complicità di Mrs.
Lacy, che in verità attendeva il momento in cui Emma avrebbe
varcato di
soppiatto la soglia del mondo della servitù, come usava fare
da bambina.
Il sogno si confondeva alle memorie, ed Emma
appariva e riappariva incomprensibilmente in ogni angolo di Hambleton,
guidata
dalla direzione che prendeva il suo subconscio. Adesso era nelle
stalle, a
porgere zollette di zucchero sul palmo della mano alla sua giumenta
preferita,
e il momento successivo si trovava in biblioteca, o nel salottino
privato di
lady Grantham. Là, con la coda dell’occhio, poteva
quasi vedere sua madre così
come amava ricordarla, intenta a leggere o rispondere alla
corrispondenza, con
quell’aria assorta e le labbra socchiuse a mormorare una
qualche musica
indistinta.
E
tutte le finestre e le vetrate erano spalancate, sicché ogni
stanza del
castello era illuminata dai raggi del sole, e il profumo dei vasi che
traboccavano fiori serpeggiava in ogni angolo, portando aria
d’estate. Sembrava
non esserci un solo angolo oscuro, ad Hambleton, a parte quella che era
stata
la camera da letto di Elizabeth e che era rimasta chiusa sin dal giorno
della
sua morte. Provava nostalgia anche per quella stanza, Emma, e nel sogno
vi
apparve al suo interno, e si ricordò di quando usava
infilarvisi per dormire
nel letto della sorella e sentire così meno la sua mancanza,
nei primi tempi
che avevano seguito la sua scomparsa.
Avrebbe
tanto voluto poter aprire gli occhi e ritrovarsi a casa, nella sua
camera
d’infanzia, con suo padre e sua madre e sua sorella e i dolci
di Mrs. Lacy e i
bonari rimproveri di Mr. Logan, a organizzare feste e pic-nic nel parco
e
dimenticare così tutte le tragedie che si erano abbattute
sulla sua famiglia…
Ma
Hambleton era lontana miglia e miglia, Hambleton era in lutto, e lei
non ci
sarebbe tornata per chissà quanto altro tempo.
Una
pezzuola bagnata, fresca, le tamponava con delicatezza la fronte; ma,
nel
momento in cui diede cenno di essere sveglia, quella piacevole frescura
cessò
bruscamente, ed Emma avvertì nel dormiveglia un fruscio e un
rumore attutito di
passi che si allontanavano rapidi. Confusa e ancora stordita dal sonno,
la
giovane sbatté le palpebre e dischiuse gli occhi,
ritrovandosi ad osservare la
struttura di un baldacchino ricoperto da tendaggi scuri e rovinati: le
ci volle
qualche momento per realizzare di non trovarsi nella sua stanza, e
quando
questo pensiero prese forma nella sua mente Emma si rizzò
bruscamente a sedere,
spaventata.
La
stanza in cui era stata trasportata nel momento in cui aveva perduto i
sensi
pareva qualcosa a metà tra un confuso ripostiglio e la tana
di una creatura che
non aveva nulla di umano, di naturale. Essa era enorme, circolare, e
aveva
l’aria di appartenere all’ala cinquecentesca del
castello, con le nude mura in
pietra grezza e l’assenza di carta da parati. La debole luce
proveniente da due
finestrelle poste in alto, vicino al soffitto, alla stregua di
feritoie,
scivolava sui spessi tappeti che ricoprivano il pavimento, sui
candelabri che
reggevano moccoli di vecchie candele, e su ninnoli e suppellettili di
ogni
forma, colore e dimensione che ingombravano ogni superficie disponibile
come se
ci si trovasse nel nido di una gazza ladra; ma ciò che
catturò davvero la sua
attenzione furono i numerosi ritratti appesi con cura alle pareti.
Scivolando
giù dal letto per avvicinarsi e saziare la sua
curiosità, e avvolgendosi la
coperta intorno al corpo poiché sentiva di avere il gelo
nelle ossa, Emma vide
che il soggetto ritratto non era altri che lei. E decine e decine di
altre se
stesse la fissavano da ogni punto delle pareti – bozze appena
iniziate o
disegni conclusi, a matita o a carboncino, nei quali lei sorrideva,
oppure
appariva seria, accigliata, distratta, o altri in cui era perfino
addormentata
– e lo spavento fu tale che dovette premersi le mani sulla
bocca per reprimere
un urlo, che si tramutò così in gemito. Qualcosa,
nello sfoggio inquietante di
quei dipinti, le riportò alla mente l’orrore della
notte prima, e la gravità di
ciò che le era successo la trafisse come un dardo.
Sì,
ora rammentava: ancora non aveva deciso se si fosse trattato di un
sogno o di
un’allucinazione – perché pensare che
fosse reale era una cosa inconcepibile – ma
ciò che era certo era che qualcuno nel castello doveva
esserci, qualche
intruso, qualche malintenzionato che vi abitava in segreto, e che per
forza di
cose doveva essere il responsabile del suo recente rapimento. Qualcuno
che l’aveva
spiata dal momento in cui aveva varcato la soglia di Pemberley
– il che
spiegava anche la sensazione di disagio che aveva provato fin
dall’inizio.
Cosa diavolo…
Un
fruscio leggero alle sue spalle interruppe il pensiero a
metà. Emma si voltò di
scatto, stringendosi addosso la coperta come se quel fragile tessuto
potesse
proteggerla da qualsiasi cosa si fosse celata nel buio, e strinse gli
occhi,
trattenendo il respiro mentre faceva vagare lo sguardo su quella che
apparentemente sembrava solo una stanza vuota. Ogni ombra le appariva
minacciosa, e mai prima di allora aveva provato una così
cieca e irrazionale
paura dell’oscurità; avrebbe dato ciò
che aveva di più prezioso per una sola
candela accesa.
«C’è
qualcuno?» Domandò, sforzandosi di non far tremare
la propria voce e di
assumere al contrario un tono autoritario. «So che siete qui,
vi ho sentito. Mostratevi,
se le vostre intenzioni sono oneste!»
Non
giunse alcuna risposta, tuttavia, e il silenzio accrebbe la sua
angoscia perché
ormai Emma aveva capito di non essere da sola in quella stanza.
Deglutì, udendo
i battiti del proprio cuore rimbombarle nelle orecchie come tuoni, e
indietreggiò lentamente, tornando verso quel letto che ora
le sembrava l’unico
angolo sicuro e adatto a fungere da rifugio.
Che
cosa avrebbe potuto dire, per spingere chiunque si stesse nascondendo
in quel
buio a uscire fuori, a venire da lei, a spiegarle perché
l’aveva portata lì? E se
aveva a che fare con un pazzo, o con un criminale – si
ricordava bene ciò che
le aveva raccontato Sir Arthur, a proposito della tragedia che
già una volta
aveva avuto luogo tra quelle mura, e sinceramente pregava di non fare
parte
della successiva – ebbene, come ci si aspettava che reagisse?
Che cosa voleva
da lei, per l’amor del cielo?
Lacrime
invadenti le inondarono allora gli occhi, rendendo sfuocato quel poco
che
vedeva dell’ambiente circostante. Non voleva piangere
– non voleva mostrarsi debole –
ma lo shock di ciò a cui aveva
assistito la notte prima, reale o meno che fosse, unito al terrore di
non
sapere che cosa sarebbe stato di lei, era troppo da sopportare
stoicamente e in
silenzio.
E
poi, proprio quando stava per perdere le speranze…
«Non
dovete avere paura», mormorò
all’improvviso una voce roca, priva di corpo,
inciampando sulle parole come se fosse trascorso parecchio tempo
dall’ultima
volta in cui aveva parlato.
Emma
si voltò verso il punto da cui le era parso che provenisse,
ma attraverso il
buio non riuscì a vedere né distinguere nulla.
Rimase immobile accanto al letto,
aggrappata ferocemente a una colonna del baldacchino come se
ciò potesse in
qualche modo servire a proteggerla. «Chi siete?»
Esclamò subito; una rabbia che
non credeva di poter provare la invase, rendendo la sua voce aspra e le
sue
parole seguenti impazienti e prive di indulgenza. «Fatemi la
cortesia di farvi
vedere!»
«Potreste
rimpiangere questa vostra richiesta, milady»,
ribatté mestamente la voce, che
stavolta sembrò giungere dal lato opposto della stanza come
se in effetti fosse
incorporea e inumana, e non costretta alle leggi della fisica di un
corpo
comune. Agitata Emma si voltò ancora, alla disperata ricerca
della fonte di quelle
parole, e fece persino qualche passo in avanti, ma i suoi movimenti non
dovettero piacere alla misteriosa presenza che la fissava da
chissà quale punto
imprecisato.
«No,
non muovetevi! Restate dove siete», sibilò
infatti, perdendo per un istante la
gentilezza che le era sembrato di avervi scorto. Obbedendo
istintivamente per
cercare di ingraziarsi chiunque egli fosse –
giacché non vi era alcun dubbio
che la voce fosse maschile – Emma rimase immobile, le mani
leggermente
sollevate con i palmi verso l’alto per dimostrare, ironia
della sorte, che non
aveva cattive intenzioni.
«Per
favore», insisté con maggior dolcezza, decisa a
venire a capo di quel mistero.
«Venite sotto la luce.»
Dopo
ogni sua frase seguiva un lungo silenzio, come se tutto ciò
ch’ella diceva
venisse accuratamente sezionato e studiato dal suo interlocutore alla
ricerca
di una falla, di un qualche significato nascosto, di
un’incertezza che
rischiasse di mettere fine a quell’eccentrica conversazione.
Pareva quasi che
fosse la voce ad avere paura di lei, e non il contrario –
cosa parecchio
assurda, se si considerava il fatto che era stata lei a venire rapita e
portata
in chissà quale anfratto del castello.
«La vostra parola», replicò
infine la voce,
ora mortalmente seria e con un pericoloso tono di avvertimento.
«Voglio la
vostra parola che non cercherete di fuggire. Vi rammento che adesso
potreste
essere in mani ben peggiori delle mie, se ieri notte non fossi venuto
in vostro
soccorso.»
La
giovane aggrottò la fronte, piuttosto perplessa – a
che cosa si stava riferendo? Di certo ciò che lei aveva
visto… che le
era sembrato di aver visto… doveva essere solo un sogno, non
era forse così?
– ma non commentò, decidendo che ci sarebbe stato
tempo in seguito per
approfondire quei dettagli. Dopotutto la notte era ormai passata, poco
importava in che modo, e ciò su cui doveva concentrare la
sua attenzione era
soltanto il momento presente. «Vi giuro che non
muoverò un solo passo», lo
rassicurò infine com’era ovvio, benché
il suo caro istinto di sopravvivenza le
avrebbe fatto sciogliere quella promessa in un battito di ciglia se la
situazione si fosse dimostrata assai più pericolosa di
quanto lei avesse previsto.
Dall’oscurità
giunsero allora degli altri fruscii, come se il proprietario di quei
sussurri
le stesse girando intorno, alla stregua di un avvoltoio, forse per
assicurarsi
che davvero ella non avrebbe cercato di scappare; continuando a restare
immobile con una forza d’animo notevole, Emma si
lasciò pazientemente osservare,
con la speranza forse che così facendo l’uomo le
avrebbe ricambiato la
cortesia. Poi, dopo un silenzio carico di aspettativa ed angoscia, i
fruscii
cessarono: e, quando infine osò sollevare lo sguardo dalle
trame del tappeto
che aveva fissato con tanta insistenza, i suoi occhi incontrarono per
la prima
volta quelli di colui che l’aveva rapita.
Fu
incapace di soffocare il gemito spaventato che le salì in
gola alla sua vista. Pur
odiandosi per quella manifestazione di debolezza, Emma trattenne
bruscamente il
respiro e non poté fare a meno d’indietreggiare di
qualche passo: davanti a
lei, alto, cupo, avvolto di nero da capo a piedi, si ergeva
l’uomo. Non fosse
stato per l’assoluta mancanza di colore nel suo abbigliamento
e per una
maschera bianca che gli copriva il volto nella sua interezza lasciando
intravedere solo gli occhi, sarebbe potuto sembrare un qualsiasi
gentiluomo,
vista l’eleganza e la cura che pareva aver investito nel suo
aspetto. Eppure,
il solo fatto di non riuscire a scorgere la più piccola
porzione di pelle
rendeva la sua persona inquietante e istintivamente pericolosa, e fu
per questo
motivo che Emma tacque, impaurita e sconcertata.
Occhi
chiari, a quella distanza non avrebbe saputo dire se grigi o azzurri,
la
fissavano penetranti da sotto la maschera, omaggiandola con uno studio
altrettanto minuzioso di quello che gli stava dedicando lei.
«Ebbene,
milady», mormorò dopo un po’ la sua
voce, leggermente attutita dalla maschera. «Potete
dirvi soddisfatta adesso che mi avete visto?»
«Chi
siete?» Chiese lei di rimando, cercando di venire a capo di
quel mistero. Uno
sconosciuto si trovava in casa sua, si permetteva di rapirla e
rinchiuderla in
chissà quale stanza, e si prendeva gioco di lei mostrandosi
con quel ridicolo
travestimento… Le sue gambe cedettero, incapaci di reggerla
ancora, ed Emma si
lasciò cadere sul bordo del letto. I suoi occhi non
riuscivano a staccarsi
dall’uomo di fronte a lei, in piedi nel piccolo cono di luce
proveniente dalla
piccola finestra in alto, immobile e silenzioso mentre lasciava
tranquillamente
che lei lo osservasse fino a memorizzarne ogni più minimo
dettaglio.
«Sono
il padrone del castello», fu infine la sua pacata risposta,
annunciata come
fosse un semplice dato di fatto impossibile da contraddire.
Quelle
parole, che Emma trovò oltremodo arroganti, la riscossero
dal torpore e
risvegliarono in lei tutta la rabbia e l’indignazione che
aveva provato al suo
risveglio nel trovarsi in un letto che non era il suo. «Il
padrone? Come vi
permettete?» Sbottò irritata, incapace di
contenersi. «Mio padre è il
proprietario di Pemberley, signore. Forse avete preso questa casa a
vostra
dimora nel periodo in cui è rimasta disabitata, e non so che
genere di pensieri
possiate aver fatto, ma se volete evitare che vi faccia arrestare siete
pregato
di andarvene il prima possibile!»
In
quel momento, fu come se tutta l’aria della stanza venisse
risucchiata via per
lasciare il posto a una pesante tensione che rese quasi difficile
respirare.
Emma vide chiaramente qualcosa cambiare
nella postura dell’uomo, una certa rigidezza nelle spalle e
lungo le braccia, e
persino gli occhi parvero brillare di una luce estranea, aliena,
infernale. E
allo stesso modo lo vide lottare contro quel qualcosa che per un attimo
lo
aveva posseduto – egli strinse le mani a pugno con
così tanta forza da far
scricchiolare la pelle dei suoi guanti – e gli
sfuggì addirittura un gemito che
parve dolorante, prima che riuscisse a riacquisire la fredda
compostezza che lo
aveva caratterizzato dal primo momento.
Emma
non aveva idea di che cosa fosse successo, non avrebbe neppure saputo
spiegarlo, ma qualsiasi cosa fosse era di certo pericolosa e
terrificante –
anche lui ne sembrava scosso, d’altronde.
L’uomo
prese un profondo respiro prima di rispondere, e quando lo fece a Emma
parve di
udire la sua voce tremare appena. «Vostro padre, signora,
ha acquistato una dimora che non è mai stata in
vendita»,
riprese, con un gelido autocontrollo che la terrorizzò
più di un accesso d’ira.
«Pemberley mi appartiene per diritto di nascita, e sappiate
che non la cederò a
nessuno finché avrò vita. Vi sono cose, tra
queste mura, talmente orribili che
vi farebbero perdere il senno, e che solamente io conosco e sono in
grado di
tenere a bada… Come peraltro dimostra la vostra disavventura
della notte
scorsa. O avete forse già dimenticato? No, certo che no, ma
preferite credere
che si sia trattato di un incubo piuttosto che accettare che ogni cosa
che a
cui avete assistito è stata reale come lo siete voi, e come
lo sono io. Credete
pure ciò che volete, ad ogni modo… non
è per questo che vi ho portata qui.»
L’uomo
fece un passo in avanti, e il movimento fu tanto repentino che Emma
gemette,
spaventata, e si spostò bruscamente al lato opposto del
letto, cercando di
mantenere una certa distanza tra sé e lo sconosciuto.
Sorpreso a sua volta
dalla reazione della giovane, e forse persino offeso da essa, egli si
fermò,
rimanendo immobile come fa il cacciatore per non spaventare il
cerbiatto. «Vi
ho già detto che non dovete avere paura di me»,
ripeté mestamente, con una
pazienza e una strana gentilezza impossibili da spiegare.
«Come
posso non avere paura», ribatté Emma, mascherando
con la rabbia il proprio
timore, «Se tutto ciò che so di voi è
che mi avete portata contro la mia
volontà in quella che suppongo essere la vostra camera? Non
vi conosco, eppure
voi dovete conoscere me, a giudicare dai miei ritratti che abbelliscono
le
pareti. Da quanto tempo abitate in questo castello, signore, e da
quanto tempo
mi spiate? E come se non bastasse, vi prendete gioco di me con quel
ridicolo
travestimento… Abbiate il coraggio di mostrarmi il vostro
viso!»
«Purtroppo,
milady, questo è qualcosa che non posso fare»,
replicò lui con il medesimo tono
utilizzato in precedenza; sembrava quasi che soffrisse
nell’essere costretto a
contraddirla. «E vi prego di non chiedermelo più,
per il mio e il vostro stesso
bene.»
«Allora,
vi prego, rispondete a un’altra domanda»,
insisté Emma, facendosi più
baldanzosa man mano che vedeva che il suo misterioso ospite non
sembrava
volerla aggredire in alcun modo. «Perché mi avete
portato qui? Siamo ancora nel
castello, giusto? Ebbene, perché non vi siete limitato a
riportarmi nella mia
stanza?»
«Mmh.
Sì, suppongo… Suppongo di dovervi una qualche
spiegazione», iniziò con fare
esitante, guardandosi intorno come se la risposta giacesse su un
qualsiasi
suppellettile. «Io… Ecco, ho ritenuto fosse
più… prudente… portarvi in una
parte del castello dove non avreste corso il pericolo di essere
nuovamente
attaccata. Siamo nell’ala Ovest, se ve lo state domandando.
Qui potete
considerarvi al sicuro.»
«Mi
riesce difficile crederlo», replicò lei a mezza
voce, senza staccare gli occhi
da lui. Benché le sue parole cercassero in un certo di
essere rassicuranti, il
suo sforzo veniva malauguratamente reso vano da quella maschera, e
dall’insistenza con cui si ostinava a tenere nascosta la sua
identità.
«Non
ha importanza che mi crediate o meno», ribatté
l’uomo con aria improvvisamente
seccata. «Quel genere di fiducia arriverà col
tempo, spero.»
«Col
tempo… Che cosa intendete?»
Egli
raddrizzò la schiena e incrociò le braccia
davanti al petto, diventando se fosse
stato possibile ancora più intimidatorio.
«Rimarrete qui per sette giorni», le
spiegò con fermezza.
Emma
aggrottò la fronte, interdetta. «E trascorsi
questi sette giorni…»
«Sarete
nuovamente libera di andare dove vorrete e di tornare alle vostre
faccende, perché
tra una settimana avrete imparato a non temermi e, mi auguro, a trovare
interessante la mia compagnia. E allora tornerete di vostra
volontà a trovarmi,
e non ci sarà bisogno di ricorrere a questi ignobili
mezzi», aggiunse più
tristemente, come se non fosse del tutto certo che il suo piano avrebbe
avuto
un esito positivo e ne temesse, dunque, un tragico finale.
«Ebbene, che cosa
dite? Mi concederete questi sette giorni?»
«Io…»
Mordicchiandosi le labbra e torcendosi le mani, la povera lady Moore
non aveva
idea di quale risposta dare. Forse, se si fosse mostrata compiacente e
docile,
ogni cosa si sarebbe risolta; e poi, una volta passati quei sette
giorni,
sarebbe potuta fuggire dal castello – avrebbe cercato un modo
per portar via
anche la povera miss Radcliffe, che ancora giaceva malata a letto
– e andare a
chiedere asilo a Sir Arthur, in attesa che Caledon o suo padre
venissero a
prenderla… Sì, doveva soltanto avere pazienza,
essere forte; ma prima…
L’istinto
ebbe la meglio sul buonsenso, e senza pensarci una seconda volta Emma
sollevò
una mano, intenzionata a strappare quello stupido travestimento e a
fissare il
volto dell’uomo una volta per tutte; era sicura che, privato
della maschera,
egli avrebbe perduto la sua arroganza e sarebbe stato costretto a
confrontarsi
con lei da pari a pari, perdendo così la capacità
di ispirare quella sorta di
sacro terrore. Ma purtroppo il gesto non passò inosservato
ai suoi occhi
attenti, ed egli reagì prontamente prima che lei potesse
anche solo sfiorare
con la punta delle dita la porcellana della maschera.
«Che
cosa diavolo credete di fare?» Sibilò, la mano
stretta ferocemente intorno al
suo polso, come a voler dare maggior peso alle parole. «Ho
detto che non avrete
nulla da temere, milady, ma solo fintanto che lascerete questa maschera
al suo
posto!»
La
rilasciò bruscamente, spingendola e lasciandola ricadere
contro il letto. Si portò
le mani al volto con un gesto meccanico e angosciato, come per
accertarsi che l’inquietante
oggetto fosse ancora al suo posto, e quando comprese che nulla era
sfuggito al
suo controllo tornò a fissare i suoi occhi furenti su di lei.
«Non
mi importa della vostra risposta», ringhiò, con un
lieve tremito nella voce. «Rimarrete
qui perché io ho deciso così, e mi obbedirete, e
mi porterete rispetto! E che
Dio vi protegga se proverete ancora a toccare questa
maschera.»
Quando
uscì, richiuse dietro di sé la porta con un tonfo
tale che fece tremare i
cristalli del lampadario.
Mrs.
Duncan aveva trascorso tutta la notte insonne, girando e rigirandosi
nel
lettino della locanda incapace di prendere sonno. Che cosa stava
accadendo a
Pemberley, pensò, mentre lei era al sicuro a diversi
chilometri dal maledetto
maniero? Quale tragedia stava prendendo forma tra quelle mura, ora che
non
c’era lei a prendersi cura della nuova padrona?
La
lontananza, seppur breve in termini di tempo, le diede modo di
impiegare le
lunghe ore insonni della notte a riflettere su tutto ciò che
era accaduto negli
ultimi due mesi. L’arrivo di Lady Moore, e
l’improvviso via-vai di visitatori,
e il castello che si risvegliava come un mostro infernale dal suo lungo
letargo, pronto ancora una volta a nutrirsi di povere anime
innocenti… E lei,
sciocca che non era altra, che lo aveva permesso, che vi aveva
acconsentito!
Si
era affezionata alla ragazza, sì, come non avrebbe potuto?
Era giovane, era
sola, e anche se godeva della vita agiata di
un’aristocratica, a lei non era
sfuggita l’espressione triste perenne che ombreggiava quei
suoi begli occhi
ambrati, e che svaniva raramente a meno che non ci fosse nelle
vicinanze
quell’adorabile bestiola che si era portata appresso. Provava
un misto di
tenerezza e compassione per quella ragazza –
benché non potesse negare che
talvolta l’avesse trovata davvero irritante, con certi
atteggiamenti altezzosi
che sfoggiava probabilmente per fingere di essere in grado di gestire
una casa
e la sua servitù. Ma poteva davvero biasimarla? Aveva
trascorso abbastanza
tempo al servizio dei nobili per sapere quale genere di educazione
ricevessero
le figlie femmine, il cui unico scopo era di contrarre un matrimonio
che fosse
conveniente più per il nome della famiglia che non per il
loro benessere; sì,
aveva ricchezza e una vita comoda, ma non sarebbe mai stata padrona
della sua
vita, padrona di fare ciò che voleva, di prendere le sue
decisioni, perché
avrebbe avuto in ogni caso un uomo al suo fianco che le avrebbe prese
per lei.
E
in tutto questo, la povera Lady Moore non solo doveva essere
all’altezza del
matrimonio con quel giovane che era giunto a trovarla, qualche tempo
prima, ma
era anche finita nel mirino del mostro che governava il maniero di
Pemberley
come sovrano incontrastato. E lei, che pure si vantava di essere una
buona
madre e una cristiana devota, non aveva esitato a lasciarla alla
mercé delle
creature che infestavano il castello, preferendo fuggire come una
codarda
anziché dimostrare un minimo di solidarietà e
aiutare la giovane.
Non
sarebbe servito chissà quale sacrificio, a dire la
verità: sarebbe bastato
avvertire sia lei che la sua istitutrice del pericolo che correvano
nell’abitare a Pemberley, invece che mantenere il silenzio
per paura della
reazione del mostro, e forse adesso non avrebbe trovato tanto difficile
prendere sonno.
A
quel punto dubitava persino dell’aiuto che le era stato
promesso dalla
compianta Lady Nora, di cui non aveva notizie da settimane e che non si
era
data pena di metterla a parte dei suoi progetti. Certo, i morti non
andavano
disturbati né contraddetti, ma per l’amor di Dio!
Avrebbe potuto almeno avere
pietà di lei, e tenerla aggiornata!
Fu
la voce del signor Duncan a distrarla, riportandola alla
realtà di quel tiepido
lettuccio. «Basta, mia cara, non ci pensare»,
mormorò la sua voce impastata dal
sonno, preziosa ancora nel mare in burrasca che erano i suoi pensieri.
«Ormai è
troppo tardi per fare qualsiasi cosa.»
E
Mrs. Duncan, rotolando di fianco con un sospiro e cercando nel proprio
corpo un
riparo dalle sue colpe che non poteva trovare, non poté che
dargli ragione.
L’uomo
mascherato l’aveva lasciata da sola – Emma non
aveva idea di quanto tempo fosse
trascorso.
«Avrete
modo di riflettere», le aveva detto prima di andarsene, come
ripensandoci, con
quella voce roca che faceva venire i brividi. «E di abituarvi
all’idea di me.
So essere molto paziente, vedete, e quando capirete che non avrete
nulla da
temere… da me… Allora, allora
potremo
riprendere il discorso.»
Non
poteva rimanere con le mani in mano in attesa che l’uomo
tornasse e decidesse
che farne di lei; non si sarebbe arresa a quella sorte senza neppure
fare un
tentativo per sfuggirne. Per questo motivo mise a frutto le ore di
solitudine
che le erano state concesse, e mise a soqquadro l’intera
stanza alla ricerca di
un qualche oggetto da poter utilizzare come arma per aggredire lo
sconosciuto
qualora le sue intenzioni si fossero rivelate, in effetti, quelle di un
mascalzone.
Inoltre,
come se la natura stessa fosse giunta a darle una mano, aveva iniziato
a
piovere e ormai andava avanti da un bel po’, e
l’acqua che scrosciava
violentemente sulle mura e sui tetti creava un frastuono tale da
soffocare ogni
altro genere di rumore. Era il primo vero e proprio acquazzone della
stagione
invernale, nulla a che vedere con la pioggia sottile e quasi delicata
che era
caduta nelle settimane precedenti, e mai come allora Emma fu grata del
suo
arrivo: il trambusto dell’acqua che scorreva con la violenza
di una cascata giù
nelle grondaie in rame avrebbe coperto quei rumori che avrebbero potuto
denunciare le sue intenzioni all’uomo misterioso,
permettendole di coglierlo di
sorpresa e di assegnare un esito felice al suo piccolo piano.
Così,
quando la porta si riaprì e la sagoma del suo carceriere si
stagliò sull’uscio,
oscurando la debole luce proveniente dal corridoio, Emma
cercò di scivolare il
più silenziosamente possibile verso di lui, le mani strette
intorno al ferro
gelido del candelabro con la furia cieca della disperazione.
Accadde
tutto in meno di un attimo: probabilmente intuendo che c’era
qualcosa che non
andava nell’aria – non avrebbe saputo spiegare in
altro modo la prontezza dei
suoi riflessi – l’uomo si voltò rapido
verso di lei e con una presa salda e
decisa le imprigionò i polsi, torcendoglieli con forza in
modo da farle aprire
le mani e abbandonare la presa sull’arma improvvisata. Il
pesante oggetto cadde
per terra con un clangore metallico, rotolando lontano dalle due
figure; Emma
si lasciò sfuggire un urlo soffocato di dolore e un singulto
che era preludio
di un pianto, ma egli non se ne curò, strattonandola con
rabbia e spingendola
violentemente contro il muro. L’essere sbattuta con tanta
forza contro la
durezza della parete le strappò l’aria dai
polmoni, ed Emma boccheggiò senza
fiato, terrorizzata fin dentro le ossa.
Testardamente,
tuttavia, cercò ancora di divincolarsi dalla stretta e
sollevò un piede nel
vano tentativo di colpirlo, ma le gambe le tremavano e l’uomo
riuscì facilmente
a scansarsi, per poi infilare a sua volta una gamba tra le sue e
bloccarle ogni
genere di movimento futuro. Emma s’irrigidì a
quell’indecente vicinanza, ma
soffocò le urla che minacciavano di scapparle dalla bocca;
qualcosa le diceva
che gridare a quel punto sarebbe stato inutile, e avrebbe al contrario
ravvivato ulteriormente l’ira dello sconosciuto.
«Ora,
milady», sibilò quindi quell’oscura voce
ansimante, orribilmente vicina al suo
viso. «Che cosa credevate di fare?»
«Lasciatemi»,
riuscì a sussurrare, deglutendo a fatica. «Vi
prego, lasciatemi…»
«E
perché mai dovrei farlo, mh? Se non sbaglio avete appena
cercato di uccidermi!»
Le rinfacciò l’uomo con un tono vibrante che
andava ben oltre la semplice
definizione di rabbia, incastrandola tra il proprio corpo e il muro e
sollevandole le braccia sopra la testa tenendogliele ferme con
un’unica mano,
qualora le fosse venuto in mente di tentare di aggredirlo una seconda
volta. «E
guardatemi, quando vi parlo! Come, siete così coraggiosa da
tentare di
assalirmi ma non lo siete abbastanza da tenere gli occhi aperti in mia
presenza?»
Benché
l’istinto le suggerisse caldamente il contrario, Emma si
ritrovò a socchiudere
le palpebre e a posare lo sguardo sulla maschera bianca sospesa a poche
spanne
dalla sua faccia, con gli unici buchi degli occhi a donare un briciolo
di
umanità a quello che altrimenti sarebbe sembrato una sorta
di calco funebre.
Quegli occhi lucidi bruciavano di follia e collera e c’era
una luce, in essi,
talmente maligna che le fece domandare se per caso non si stesse
trovando al
cospetto del diavolo. Neri come pece e altrettanto densi, i suoi occhi
non
avevano nulla di umano o gentile; parevano finestre affacciate su un
abisso di oscurità.
Che strano, un pensiero la colpì
all’improvviso, unico barlume di lucidità in mezzo
alla confusione che aveva in
testa. Avrebbe giurato… ma con il buio
forse aveva visto male… che i suoi occhi fossero chiari?
«Ora»,
riprese lui, con quella voce bassa e raschiante. «Vi prego di
non fare nient’altro
di sciocco, milady. Sono venuto qui armato delle migliori intenzioni,
vedete, ma
come proseguirà la mia linea di condotta
dipenderà interamente dal vostro
comportamento.» Tacque, per fare in modo che le sue parole
penetrassero a fondo
nella testa della giovane, e poi riprese, con un tono assai
più minaccioso. «Dovete
capire, mia cara, che qui non siamo nel vostro mondo, dove basta una
vostra
parola o un vostro gesto per farvi obbedire da tutti; siete nel mio
dominio… Qui
le uniche leggi sono le mie, l’unico giudice sono io,
l’unico sovrano e l’unico
boia!» Aggiunse alzando pericolosamente il tono, chinandosi
per torreggiare con
la sua figura cupa e possente su di lei. «Farete bene a
ricordarlo prima di cercare
di aggredirmi una seconda volta.»
«Se
voi non mi aveste rapita», ribatté lei a mezza
voce, con un notevole sangue
freddo. «Io non vi avrei aggredito.»
I
lineamenti gelidi e immobili della maschera parevano prendersi gioco di
lei,
mentre essa celava come un prezioso tesoro le espressioni del suo
proprietario.
Le sue dita lunghe e sottili si strinsero attorno al suo collo,
premendo
leggermente in modo che lei comprendesse chi aveva il comando; non
pareva
volerle fare del male, non subito perlomeno, eppure non poté
fare a meno di
rabbrividire. Quella vicinanza era sconveniente sotto ogni punto di
vista, e servì
solo a rammentarle il fatto di essere completamente alla
mercé di un folle che
non aveva ancora chiarito ciò che aveva intenzione di fare
con lei.
«Siete
insolente», mormorò derisorio, piegando appena il
capo di lato come per meglio
osservarla. «Ma so che in realtà siete
pietrificata dal terrore. Sento il
battito del vostro cuore proprio qui», continuò,
premendo con delicatezza il
pollice nell’incavo della giugulare, rendendole difficile
respirare. «Sembra il
frullio delle ali di un uccellino in trappola… Non
trovate?»
Poiché
Emma non rispondeva, limitandosi a fissarlo con gli occhi sgranati,
egli
continuò imperterrito. «Ho cercato di essere
gentile, con voi, e mi avete
ripagato con questa reazione. Vi ho aperto la mia casa, siete stata
libera di
andare e venire a vostro piacimento, ho persino sorvolato sul vostro
ficcanasare e sugli avvertimenti che avete tanto bellamente
ignorato… E ora,
secondo voi, non mi merito neanche un briciolo di
gratitudine?»
«Gratitudine?»
Lo interruppe finalmente lei, deglutendo a fatica. «Gratitudine…
siete un pazzo! Quanto credete che ci vorrà prima che
qualcuno si accorge della vostra presenza e della mia scomparsa? I
domestici
andranno ad avvisare la polizia, e mio padre… mio padre e il
mio fidanzato
staranno di certo per arrivare al castello!»
La
breve e secca risata che provenne da sotto la maschera mise a tacere le
sue
deboli minacce. «Mia cara… Se sono pazzo,
è soltanto perché ho trascorso troppo
tempo da solo. Ma d’altronde cosa potete saperne, voi, di
solitudine», sospirò
amaramente. Le sue mani infine allentarono la loro stretta ed Emma
venne
liberata, non prima ch’egli avesse sfiorato con
un’ultima carezza la pelle nuda
del suo collo e la curva morbida dei suoi polsi.
Indietreggiò di qualche passo,
abbastanza da continuare a tenerla in suo potere e allo stesso tempo da
lasciarle l’illusione della libertà. Rimasero
immobili e in silenzio,
respirando affannosamente, incapaci di distogliere lo sguardo e
osservare altro
che non fosse la persona di fronte a sé.
«Non
vi chiedo molto», riprese l’uomo dopo la breve
pausa, abbassando il tono come
se ciò avesse potuto placare l’ira della giovane.
«Come vi ho già detto,
desidero soltanto la vostra compagnia. E se voi sarete gentile e
paziente, come
sospetto sia la vostra natura, non avrete di che temere: non
alzerò un dito su
di voi, a meno che non lo desideriate», il debole sorriso fu
quasi palpabile
nella sua voce. «Ma voi dovete promettere, e badate che le
promesse sono una
faccenda seria in questo castello!, che non alzerete un dito contro di
me e che
non cercherete di scappare. Finché mi tratterete con
gentilezza, avrete
gentilezza in cambio. Avete compreso?»
Emma
si ostinò a tacere, ma non c’era molto altro che
potesse fare per sfuggire intera
a quella situazione; così si limitò ad annuire
lentamente, piuttosto scioccata
e con la mente ancora più confusa di prima. Per
quanto tempo quel miserabile aveva intenzione di tenerla prigioniera
tra quelle
mura, in modo da soddisfare il suo desiderio di
“compagnia”? E che cosa si aspettava
da lei, esattamente? Non erano domande che avrebbe potuto
fargli, purtroppo,
anche perché nulla le assicurava ch’egli avrebbe
risposto con sincerità. Per cui
decise per il momento di assecondarlo, e di attenersi alle sue regole:
era l’unico
modo per essere al sicuro, a quanto pareva.
«Non
so neanche il vostro nome», mormorò incerta, senza
osare distogliere lo sguardo
da lui.
Egli
non rispose subito, forse valutando la necessità di metterla
a parte di quel
dettaglio; finché con uno strano verso gutturale che pareva
una sorta di
ghigno, disse: «Adam.» Il suo tono era forse troppo
ironico, ma lei non vi
diede peso, troppo scioccata nell’udire quel nome che aveva
letto solo una
volta, settimane prima, su una vecchia lapide ingrigita.
«Potete chiamarmi
Adam.»
Non
le diede il tempo di fare altre domande; se ne andò in
fretta, richiudendo la
porta e facendo ruotare con studiata cura la chiave nella serratura,
per tre
volte, di modo che lei comprendesse che non sarebbe stato per niente
facile
fuggire.
Emma
rimase nuovamente da sola, con l’ululare brusco del vento
come unica compagnia.
Huntly Street, Inverness
Venerdì 21 ottobre.
Mia carissima Emma,
Vi scrivo come
promesso appena sono giunto a destinazione, con la speranza che la mia
lettera
trovi voi e la povera miss Radcliffe in salute. Ah, la chiassosa e
invadente
presenza dei miei colleghi di studio già mi fa rimpiangere
l’atmosfera
familiare di Pemberley Manor che ho lasciato alle spalle,
nonché la dolce
compagnia della sua padrona di casa… Il ricordo della mia
breve visita mi ha
accompagnato durante tutto il viaggio in treno, mia cara.
E ora, lasciate che
vi distragga ancora un poco dagli studi – sono certo che miss
Radcliffe non me
ne vorrà. La pensione dove siamo alloggiati è al
limitare del paese, circondata
più dalla campagna che da altri cenni di attività
umana, e gli unici rumori che
ci svegliano al mattino e ci cullano il sonno la notte sono quelli
degli
animali che pascolano nelle vicinanze, placidi e senza alcuna
preoccupazione al
mondo. La finestra della mia stanza si affaccia esattamente sul fiume
Ness, e
gode di una visuale meravigliosa degna della più
strabiliante opera d’arte. L’edificio
è piuttosto antico, risalente probabilmente
all’epoca giacobita, in legno e
pietra, massiccio e in qualche modo primitivo: credetemi se vi dico che
mi
sembra di essere tornato indietro nel tempo, nel momento in cui ho
varcato la
soglia. Mrs. Baird, la signora che lo gestisce, in un primo momento non
aveva
l’aria di apprezzare fino in fondo questa vivace comitiva di
inglesi che hanno
praticamente assalito la sua casa, ma ci sono bastati pochi giorni per
conquistarla; adesso chiacchiera con noi volentieri, dopo cena, quando
ci
ritroviamo nel salottino davanti al fuoco, e da quando sono qui sono
venuto a
conoscenza di parecchie leggende scozzesi che sono certo adorerete.
Secondo Mrs. Baird,
abbiamo scelto un ottimo periodo per la nostra scampagnata. A quanto
pare, fra
qualche giorno – per l’esattezza tra il 31 ottobre
e il 1° novembre – gli
abitanti di Inverness saranno tutti presi a festeggiare Samhain, una
festività
pagana che coincide con l’antico capodanno celtico e il
cambio delle stagioni.
Persino il reverendo parteciperà ai festeggiamenti, ci
pensate? È una
ricorrenza talmente radicata nelle tradizioni di questi luoghi, che
persino i
cristiani più ferventi si sentono a loro agio nel
celebrarla. Ho come
l’impressione che Mrs. Baird non ci abbia raccontato proprio
tutto, e la colpa
è da attribuire ai miei amici che, assai poco sensibilmente,
si sono presi
gioco di queste antiche usanze. Se me lo permetterete, mia cara, un
giorno
vorrei tornare qui insieme a voi – sono certo che sareste una
compagna
d’avventure assai più gradevole.
Un’altra storia –
questa ve la devo proprio raccontare – mi ha colpito
particolarmente per la sua
ferocia, se così posso definirla. Come di certo sapete
capita, talvolta, che
nelle famiglie si abbatta la disgrazia della nascita di un figlio
deforme,
mostruoso nel corpo e malaticcio, che ha la sventura di sopravvivere al
parto; ebbene,
in questi luoghi la gente chiama questi bambini changeling,
in quanto la leggenda narra che siano state le fate maligne a rubarli
ai genitori e a sostituirli con uno dei loro. Mrs. Baird racconta, con
una
noncuranza disarmante, che questi bimbi vengono portati in cima a delle
colline
magiche e lasciati là al sorgere della notte, con dei fiori
e una ciotola di
latte per ingraziarsi la benevolenza del Wee Folk, e con la speranza
che
questi, mossi a pietà dal gesto, si portino via il bambino
malato e restituisca
quello che era stato rubato, presumibilmente sano. Inutile dire che
ciò non
avviene, in quanto la povera creatura muore durante la
notte… Riuscite a
immaginare una simile crudeltà, Emma, soltanto per
giustificare e porre rimedio
alla nascita di un figlio che non ha atteso le aspettative della sua
famiglia?
Mrs. Baird dice che
noi Sassenachs – significa “stranieri”
– non possiamo comprendere l’importanza
di queste tradizioni pastorali, e che neanche impegnandoci potremmo
cogliere il
valore che esse hanno radicato negli animi dell’intera
popolazione. Per quanto
mi riguarda, preferisco essere definito un ignorante straniero se
l’alternativa
è accettare così passivamente certe credenze:
ritengo impossibile, all’alba di
questo nuovo secolo, cullarsi ancora in simili superstizioni medievali!
Ah, sono costretto
ad interrompere così questa lettera – Murray, vi
ricordate di lui, non è vero?
Lo avete conosciuto al ballo di lady Schonberg, il giovanotto alto, con
capelli
biondi e lentiggini e l’audacia di rubarvi un ballo proprio
sotto al mio naso –
ebbene, mi chiama per la cena; credo che il programma per la serata sia
di
mangiare fuori, in qualche altro locale tipico del luogo.
Raccontatemi di
voi, mia cara Emma, rendete meno cupe le mie serate dandomi
l’opportunità di
leggere e rileggere le vostre splendide lettere. Come procede la vostra
vita a
Pemberley? Miss Radcliffe si è ripresa? Avete più
avuto visite dal vostro
interessante vicino di casa? Sapervi tutta sola in
quell’immenso maniero mi
rende nervoso e infelice, giacché preferirei essere mille
volte al vostro
fianco piuttosto che a miglia di distanza. Spero umilmente, dunque, che
la mia
lettera possa esservi di compagnia; e nell’attesa di ricevere
vostre notizie,
vi lascio a malincuore.
Con tutto il mio affetto,
sempre vostro,
Caledon T. Hardy
Adam
strappò ferocemente la lettera in tanti minuscoli
pezzettini, gettandoli poi
nel fuoco del camino senza alcun riguardo. La sua ospite non avrebbe
mai letto
quelle parole, per banali che fossero – non tollerava che
qualcun altro le
rivolgesse delle frasi tanto intime e affettuose, soprattutto se quel
qualcuno
altri non era che il patetico dandy che le aveva fatto visita, qualche
settimana
prima. Se non avesse avuto sue notizie, se avesse pensato di essere
stata
abbandonata dai suoi cari… ah, avrebbe potuto pensarci anche
prima! Allora
sarebbe stata di certo più bendisposta nei suoi confronti,
più sensibile alle
sue richieste, meno altera.
L’uomo
mascherato sbuffò, ripensando alla sciocca lettera.
“Sapervi tutta sola in quell’immenso
maniero…” Ah! Non poteva
sbagliarsi più di così! La fanciulla era tutto
fuorché sola, e ci avrebbe pensato
lui a tenerle compagnia – non aveva certo bisogno delle
parole vuote di un
giovanotto lontano. E poi, che irritazione tutto quel vago discorso sui
changeling e sulle leggende scozzesi…
Che cosa poteva saperne, un aristocratico viziato come lui, di
superstizioni e
maledizioni? E come osava prendersene gioco?
Se avesse saputo…
Se avesse anche solo lontanamente immaginato…
D’istinto
sollevò una mano e fece per portarsela al viso, ma le sue
dita sfiorarono
soltanto la gelida e sottile porcellana della maschera. Era talmente
abituato
ad indossarla, ormai – salvo quando era sotto il controllo
dell’altro, allora non aveva alcun
controllo
né potere sulla propria volontà – che
non la toglieva neppure nella solitudine;
soltanto quando dormiva, e il buio lo circondava come un confortante
bozzolo,
osava privarsene. Lui stesso era arrivato a temere ciò che
vi celava, e a
rifuggire ogni superficie riflettente – si era sbarazzato con
immensa
soddisfazione di ogni singolo specchio presente all’interno
del maniero, pur di
non capitare anche solo per sbaglio davanti a uno di essi. Ma se non
riusciva a
tollerare il proprio aspetto, come poteva sperare che lei… No,
era meglio non pensarci.
Raddrizzò
le spalle, fissando con insistenza gli ultimi frammenti della lettera
che si
attorcigliavano e si annerivano con deboli crepitii, morbidamente
divorati
dalle fiamme. I suoi occhi parvero di brace, nel riflettere la luce
calda del
fuoco: demoniaci, si sarebbero quasi potuti definire.
Lady
Emma avrebbe fatto meglio a iniziare a credere alle storie dei
fantasmi, perché
ci era finita dentro.
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Angolo Autrice.
E come vi avevo promesso, ecco a voi - finalmente, dopo secoli di attesa - il caro vecchio Adam! Dunque, che ne pensate? E' come vi aspettavate? Ho soddisfatto le vostre aspettative o - mannaggia! - le ho deluse? Fatemi sapere, muoio letteralmente dalla curiosità di sapere che cosa avete da dire al riguardo. *__*
Non mi dilungherò oltre in quisquilie: mi limito a ringraziare chi sta continuando a leggere, chi ha appena iniziato e chi ha recensito lo scorso capitolo (un grazie particolare dunque a dachedas, Jolly J e NinaTheGirlWithTheHat). Grazie, grazie, grazie mille per il vostro apprezzatissimo sostegno! Non so come farei senza di voi :')
Come al solito, per domande, curiosità o altro potete trovarmi su facebook. :)
Ci si legge al prossimo capitolo, speriamo che non sia fra troppo tempo! *Incrociamo le dita*
Un bacio e un abbraccio, sempre la vostra affezionata e grata
Niglia.
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Angolo Autrice.
E come vi avevo promesso, ecco a voi - finalmente, dopo secoli di attesa - il caro vecchio Adam! Dunque, che ne pensate? E' come vi aspettavate? Ho soddisfatto le vostre aspettative o - mannaggia! - le ho deluse? Fatemi sapere, muoio letteralmente dalla curiosità di sapere che cosa avete da dire al riguardo. *__*
Non mi dilungherò oltre in quisquilie: mi limito a ringraziare chi sta continuando a leggere, chi ha appena iniziato e chi ha recensito lo scorso capitolo (un grazie particolare dunque a dachedas, Jolly J e NinaTheGirlWithTheHat). Grazie, grazie, grazie mille per il vostro apprezzatissimo sostegno! Non so come farei senza di voi :')
Come al solito, per domande, curiosità o altro potete trovarmi su facebook. :)
Ci si legge al prossimo capitolo, speriamo che non sia fra troppo tempo! *Incrociamo le dita*
Un bacio e un abbraccio, sempre la vostra affezionata e grata
Niglia.