N.d.T.
Metto
delle note qui per spiegare il senso di questo
capitolo. È molto corto e come traduttrice mi sono posta il
problema se
unificarlo o meno con quello precedente o a quello successivo, e sono
arrivata
alla conclusione che deve rimanere un capitolo singolo (come ha deciso
l'autrice daltronde), perché qui succede la
svolta che darà un senso a tutta la storia e ai capitoli che
seguiranno.
La
composizione grafica del capitolo, tra la prima parte e la
seconda, sottolinea ancora di più questa transizione.
Passiamo infatti dal POV di
Jensen che è stato prevalente per i primi tre capitoli, a
quello di Jared
che ci accompagnerà da qui in avanti.
Dato che però non sono così cattiva e che il
quinto capitolo è già stato tradotto,
vi avviso che lo pubblicherò nel fine settimana in modo da
far passare meno
tempo tra questo (che è quasi un’intramuscolare) e
il capitolo ben più succoso
che seguirà.
Portate
pazienza, dovrete aspettare pochissimo ;)
Buona
lettura!
Capitolo IV- the
shift
Lo
squillo del cellulare fece spaventare Jensen così tanto
che diede un calcio al tavolino di fronte a sé, causando la
caduta di un
vecchio vaso che andò in frantumi. I cani piagnucolarono
dall’angolo in cui
erano rannicchiati, guardandolo con sospetto, ma senza avvicinarsi.
Sapeva
che erano spaventati, sapeva che potevano percepire
che era… sbagliato.
Il
cellulare squillò di nuovo e finalmente Jensen lo
afferrò, rispondendo senza nemmeno controllare il numero di
chi lo stesse chiamando.
“Hey,
vuoi che porti a casa da mangiare? Stavo pensando a
del cinese.” Disse Jared senza preamboli. Non usavano
presentazioni fin dalla
seconda stagione.
“Io…”
“O
thailandese... andrebbe bene anche quello. Qualsiasi
cosa. Sono solo maledettamente affamato. Ho dovuto lavorare tutto il
dannato
giorno, mentre qualche altro attore (di cui non farò il
nome) ha il suo culo
sul divano e ha iniziato il weekend in anticipo.”
“Uhm,
io non…” Jensen non poté impedire
all’incertezza di
trasparire dalla sua voce. Jared se ne accorse immediatamente.
“Jensen,
cosa c’è che non va?”
L’altro
deglutì pesantemente, sforzandosi di respirare.
“Niente, io non… non mi sento molto bene,
amico.”
Jared
sussultò all’altro capo della linea.
“Gesù, sembri
messo male. È qualcosa… hai bisogno di chiamare
il 911?”
C’era
una lieve traccia di panico nella sua voce e Jensen si
sentì malissimo per questo, per averlo messo in quella
situazione. I suoi
pensieri stavano correndo come se stessero per afferrare qualcosa, ma
ogni
volta che chiudeva gli occhi e cercava di focalizzarla, ne
usciva… a mani
vuote.
Solo,
con questa sensazione inafferrabile, quella maledetta…
sensazione sconosciuta, sempre più grande, che gli toglieva
l’aria dai polmoni
e rendeva le sue ginocchia più deboli.
C’era
qualcosa di sbagliato in lui. Qualcosa di peggio che
non gli incubi e i mal di testa. Aveva la sensazione che la sua mente
stesse
avendo un attacco di rabbia contro di lui, combattendo il suo stesso
corpo.
“Jensen?
Jensen!” Senti gridare Jared, quasi un urlo, e si
rese conto che doveva essersi perso nella sua testa.
“Sono
qui.” Gracchiò e si sentì pronto per
scoppiare in
lacrime. Lo spaventava. Lo spaventava così tanto non sapere
cosa ci fosse che
non andava in lui. “Sono ancora qui.”
“Ok,
amico, prenderò la scorciatoia, ok? Sono ad un minuto
da lì, sto arrivando, d’accordo?” Disse
Jared velocemente, le sue parole
cadevano le une sulle altre. “Sarò lì
il più presto possibile, Jensen, mi
senti? Solo resta dove sei, ok? Jensen, non ti muovere!”
****
Jared
chiuse la
comunicazione e fermò la macchina di fronte alla sua casa.
Una
volta dentro,
lasciò che la porta si chiudesse alle sue spalle con un
tonfo e la prima cosa
che notò fu il silenzio che aleggiava nell’aria,
come una spessa coperta che
copriva i muri, i mobili e il pavimento, riecheggiando nelle sue
orecchie. La
casa era buia ad eccezione della luce dell’ingresso che aveva
appena acceso,
nessun segno della presenza di qualcuno, anche se sapeva che Jensen non
poteva
essere troppo lontano.
Sentì
i peli su braccia
e collo rizzarsi – l’istinto forse, o la paura che
lo stava prendendo a calci.
Se
prima aveva sentito
l’urgenza e il desiderio di raggiungere Jensen il
più in fretta possibile, ora
era esitante e cauto.
Fece
alcuni timidi
passi in avanti, abbastanza per raggiungere la porta del soggiorno, da
dove avrebbe
potuto scrutare all’interno, una volta che i suoi occhi si
fossero adattati
alla fioca luce che si diffondeva oltre l’ingresso della
stanza.
Harley
e Sadie furono
immediatamente al suo fianco, correndo fuori dall’ombra, le
unghie delle loro
zampe picchiettarono sul pavimento di legno duro.
Il
cuore di Jared si
fece più veloce.
I
suoi cani erano
silenziosi, le loro code rimanevano basse, dei piagnucolii scappavano
dalle
loro gole.
Raramente
Jared aveva
visto i suoi piccoli così confusi e spaventati, la loro
paura non faceva che
fomentare la sua.
Accarezzò
distrattamente la testa di Sadie, emettendo dei piccoli suoni per
calmarli. I
suoi occhi cercavano di guardare nel buio. Trovarono una figura seduta
sul
divano, la siluette di Jensen era quasi invisibile da dove si trovava
Jared, ma
era abbastanza famigliare da essere notata.
Fece
ancora qualche
passo e fu avvolto dall’oscurità della stanza. I
suoi cani divennero sempre più
nervosi dietro di lui. Li udì uggiolare, rannicchiati
insieme nella sicurezza
della luce del corridoio.
Il
sangue gli risalì
alle orecchie; i suoi occhi non lasciarono mai l’uomo di
fronte a sé. Lo stava
guardando ora, i loro sguardi erano inchiodati uno all’altro.
Jared
non riusciva a
respirare.
Oh, Dio.
Oh, Dio.
“Dean?” Il
nome cadde fuori dalle sue
labbra pesante e sconosciuto. L’aveva detto innumerevoli
volte negli ultimi
anni: infastidito, con scherno, arrabbiato, disperato, ma mai, nemmeno
una
volta, gli aveva fatto così male. Aveva suscitato qualcosa
dentro di lui in
modo così potente che le sue mani avevano preso a tremare.
“Dimmelo
tu.” Rispose
l’altro uomo, la sua voce appena quel poco più
bassa, quel poco più ruvida. E Jared
seppe con chi stava parlando.