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Autore: JadesRainbows    04/10/2014    3 recensioni
I suoi occhi sono chiusi con forza. Non vuole vedere, non vuole aprirli e ritrovarsi di nuovo lì, immerso nell’incubo che lo sta divorando. Non vuole aprire gli occhi e vedere tutto finire in quel modo. Non vuole. Se aprisse gli occhi, quell’immagine travolgerebbe irrimediabilmente la sua precaria stabilità, marchierebbe a fuoco il corso dei suoi ricordi.
È la partita della sua vita.
Non vuole vedere. Non ci riesce.
Codardo.
(Possibile OOC)
Genere: Angst, Introspettivo, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Dagli spalti si solleva stupore. Parole sussurrate aleggiano nella tesa quiete. Un ronzante mormorio proviene dal pubblico, rimane sospeso nell’aria. Gli spettatori confabulano tra loro col sangue congelato nelle vene.
«È caduto. »
«Non si rialza…»
La partita è ferma. I bisbigli si fanno più tenui. La palla cade e il suono è quasi assordante quando squarcia quel mezzo silenzio. Quel suono riempie l’intero palazzetto, rimbomba fino a quando i rimbalzi della palla si smorzano; la sfera tricolore rotola solitaria a lato del campo.
Undici giocatori ansimano. Piccole lucide perle di sudore vengono attratte dalla forza di gravità verso il pavimento. I volti comunicano stupore.
Il dodicesimo è a terra e non si alza. I suoi occhi sono chiusi con forza. Non vuole vedere, non vuole aprirli e ritrovarsi di nuovo lì, immerso nell’incubo che lo sta divorando. Non vuole aprire gli occhi e vedere tutto finire in quel modo. Non vuole. Se aprisse gli occhi, quell’immagine travolgerebbe irrimediabilmente la sua precaria stabilità, marchierebbe a fuoco il corso dei suoi ricordi.
Non ha gridato, non vuole piangere. Tiene gli occhi prepotentemente chiusi.
Codardo.
Non vuole vedere, ma può sentire. E sente tutto, ascolta tutto. Il pubblico confabula. La palla è caduta. Sente un paio di ginocchia scontrarsi con il PVC del pavimento nel rumore felpato creato dalle ginocchiere che attutiscono la caduta.
L’asso non ha colpito la palla. Non ha sentito quel suono così familiare e soave per le sue orecchie. Il suono di quando la mano dell’asso colpisce il pallone, producendo quel rumore aspro, seguito a ruota da quello della palla che impatta contro un paio di avambracci ben tesi, o contro il pavimento, o contro un muro solido.
Non può vederlo, ma è sicuro che quelle ginocchia siano dell’asso che conosce così bene.
Resta immoto in quella sua posizione, seduto a terra con il ginocchio stretto fra le mani, gli occhi chiusi con decisione e i denti stretti al limite del possibile.
È ancora immobile in quella realtà amara dalla quale cerca con disperazione di estraniarsi, che sta tenendo a distanza soltanto col fragile spessore della sua palpebra, il quale lo protegge e lo avvolge in un buio rassicurante.
Vorrebbe scappare e perdersi in quel buio per sempre -non vuole accettare una fine simile- ma le forti luci bianche al di sopra del campo, che fendono con spregiudicata dolcezza i pochi millimetri delle palpebre, lo tengono irrimediabilmente incollato a quell’orribile incubo.
«Chiamate i medici! » grida, proprio il suo fidato asso, il quale ora gli posa una mano sulla spalla destra. E quella mano è come uno schiaffo in faccia. Gli impedisce di restare in quell’utopico e instabile stato di semi-coscienza, a metà fra la realtà e i suoi pensieri.
E intanto aspetta. È a terra, seduto e sofferente, ma sente di stare ancora cadendo. Si trova in un vortice privo di colori, inevitabilmente risucchiato verso il basso dalla gravità. Aspetta la vera caduta. Il violento impatto con la concretezza che gli si presenterà davanti una volta riaperti gli occhi. Sa che quel buio non lo proteggerà per sempre.
Nuove suole stridono sul pavimento. Devono essere i medici, armati di barella, che corrono verso di lui per portarlo via.
Rimane disperatamente aggrappato a quell’improbabile stato di finta inconsapevolezza per gli ultimi istanti; e si prepara.
Quella mano tiepida è ancora lì, sembra non volerlo abbandonare.
Vorrebbe stringerla, ma è troppo occupato a tenersi saldamente il ginocchio destro, come se così facendo il dolore potesse alleviarsi, e rimane attaccato con accanimento a quell’angosciosa e flebile speranza che sia un male temporaneo.
I medici sono vicini e lui sa che è ora di smettere di essere un codardo.
Apre gli occhi e la luce fa male. Tutto sembra più chiaro del normale e gli occhi bruciano, inondati da quello spavaldo contrasto fra azzurro e viola. Lo infastidisce quello spesso velo di lacrime che non ha tardato a manifestarsi. Ed è incazzato nero. Chiunque può riempirlo di belle parole come “nella pallavolo non si vince e non si perde da soli. È per questo che in campo si è in sei”. Lui sa che quel ventiquattro sotto il nome della squadra avversaria è colpa sua. Sa che la sua squadra contava su di lui per quell’ultimo punto. Sa che l’asso aspettava l’alzata della vittoria.
E invece è successo tutto proprio nel momento meno opportuno. Per colpa sua, la squadra dovrà andare ai vantaggi senza di lui.
Alza lo sguardo e cerca gli occhi del suo asso. Li trova. Sono lì che aspettano solo una sua occhiata.
Nemmeno lui comprende dove riesca a trovare la forza, ma sorride diretto al ragazzo in ginocchio davanti a lui, mentre una lacrima scivola veloce lungo la sua guancia, miscelandosi al sudore.
«Perdonami, Iwa-chan. » sussurra così piano da essere appena udibile perfino in quell’angoscioso silenzio.
Si stanno ancora guardando negli occhi e il pollice di Hajime asciuga fugacemente quell’unica lacrima.
«Non piangere qui. Non sul campo. » bisbiglia con un’espressione seria e pacata.
La barella bianca, fatta semplicemente di stoffa e due stecche, si posa accanto a lui. E gli fa schifo non poter uscire dal campo sulle sue gambe. Gli fa male. Blocca per un pugno di attimi il respiro nel suo petto.
Con frustrazione scruta di sottecchi la sua metà di campo. Le divise bianche, la ginocchiera ortopedica bianca, la barella bianca, le linee bianche, le luci bianche. Odia il bianco.
È proprio Hajime, il suo asso, ad aiutarlo ad adagiarsi sulla sterile stoffa della barella.
Tooru chiude gli occhi di nuovo, per non farsi più del male, dopo aver visto come ultima cosa il volto serio e il numero quattro sulla maglia del vicecapitano.
“Un ragazzo che non può essere spezzato.” pensa, Oikawa. E forse, per ora, ha ragione.
Ma Hajime non sa più come si combatte quando vede il castano uscire per sempre dal campo e nemmeno camminando sulle sue gambe. Non era così che voleva finisse.
Perde sé stesso per un momento, poi però si ricorda che il titolo di vice gli appartiene e che ora il condottiero è lui. Ma può un condottiero portare una squadra alla vittoria se non è capace di lottare?
Non è da solo e lo sa, ma non può farci nulla se non riesce ad accantonare il senso di solitudine che lo avvolge quando il suo capitano abbandona il campo in quel modo.

La finale del torneo primaverile.
Aoba Johsai contro Shiratorizawa.
Era la sua battaglia, lo scontro che aspettava da tempo. Ed era anche l’ultimo. Era Oikawa che sentiva la competizione più di chiunque altro, contro il suo rivale storico, Ushijima Wakatoshi. Il miglior asso contro il miglior alzatore.
Hajime lo sapeva che il ginocchio di Tooru non stava per nulla migliorando, ma non poteva impedirgli di giocare quella partita. Non gliel’avrebbe mai perdonato.
Era andato tutto bene e Iwaizumi aveva già tirato un sospiro di sollievo.
Erano giunti al match point e Oikawa stava a meraviglia.
Aveva effettuato il salto con eleganza, aveva alzato le braccia in modo fluido. Era un gesto che poteva riprodurre all’infinito senza variare mai di una virgola.
Era già pronto a servire una di quelle sue alzate che hanno del meraviglioso, quelle che riescono a far spiccare lo schiacciatore e tirare fuori il meglio delle sue capacità.
E l’alzata preferita di Hajime era stata effettuata.
Ma Tooru non era atterrato con la solita grazia e maestria che aveva acquisito grazie a tutti quegli anni di pallavolo. Tooru era caduto pesantemente sul PVC e l’io interiore di Iwaizumi era andato in panico, crollato, spezzato, come se fosse lui ad essere caduto. La palla aveva già toccato terra ancora prima che l’asso potesse accorgersene.
E se ne assumeva la colpa. Era frustrato e arrabbiato.

Dopo aver ricacciato indietro le lacrime che minacciano di uscire dai suoi occhi, si gira verso il resto della squadra. Il sostituto di Oikawa è già entrato.
Li guarda tutti uno per uno, in silenzio. Poi urla: «Vinciamo! » e gli altri cinque rispondono in coro al loro vicecapitano.
Hajime vorrebbe smettere di pensare a tutte quelle considerazioni, probabilità e opzioni che gli stanno affollando la mente, ora. È sul campo e quello che è fuori non lo riguarda più. Sa che tocca a lui segnare quei due punti decisivi. Non può permettersi di perdere così. Ma gli sembra che con Oikawa sia uscita dal campo anche una parte di lui. E non riesce a non pensarci.
Gli lancia un’occhiata e lo vede, a terra, ora seduto sulla barella, vicino alla loro panchina, con i due medici che gli armeggiano attorno alla gamba destra.

Tooru riapre gli occhi al grido di Iwaizumi e sposta lo sguardo su di lui.
Si stanno guardando, ora, il capitano e il suo vice. Il numero uno alza un pollice con un sorriso sul volto, mentre una lacrima silenziosa scivola fuori dall’angolo del suo occhio e gocciola da sotto il suo mento, finendo dritta sopra il numero sulla maglia.
Non piangere. Non ora. Non qui.
Sospira e chiude gli occhi di nuovo, cercando di inghiottire quel nodo che gli blocca il respiro in gola.
Il suono della palla che ricomincia a volare da una parte all’altra della rete gli riempie le orecchie, mentre il pubblico ancora tace.
Con timidezza, i tifosi ricominciano a cantare qualche coro, aumentando progressivamente d’intensità.
“Basta non pensarci.” dice interiormente a sé stesso. E si sente quasi tranquillo, perché crede nei suoi compagni.
La palla viene schiacciata a terra dopo qualche minuto di ripetitivi passaggi. Oikawa spera che sia un punto per loro. Non riesce ad estraniarsi da ciò che sta succedendo sul campo, anche se lo percepisce con uno solo dei suoi cinque sensi.
Fisicamente è lontano dalla sua posizione abituale, sotto rete, ma con il cuore e l’anima è ancora là. L’alzatore non può essere allontanato dal posto che gli spetta.
Fra uno scambio e l’altro, Tooru perde il conto delle schiacciate che sente andare a segno sul pavimento delineato di bianco.
Sente l’ansia che lo pervade lentamente a ogni tocco. Tutte le volte che la palla si scontra con gli arti dei giocatori, la sua inquietudine sale.
Quando finalmente, dopo la straziante e buia attesa, sente il fischio dell’arbitro, apre gli occhi ancora, agitato.
 
Shiratorizawa: trentasei.
Aoba Johsai: trentaquattro.








Buongiorno fandom!
 
Non ho occupato l'intera mattinata a scrivere una fic angst su Oikawa invece che seguire le lezioni.
no, per nulla.
lo giuro.
...
l'angst per il Seijo,
il Seijo per l'angst~
*si defenestra*
No vbb, accantoniamo il quando e pensiamo al resto, tipo a quanto poco mi convinca questa fanfiction. Ew. Ci vomito sopra, eppure se la leggo quasi piango. (La chiamavano coerenza).
E poi Iwa-chan prcs bby che non ce la fa senza Culokawa, io non--
Ah, ho tipo avuto 985765 problemi esistenziali. Per esempio ero indecisa sull’happy ending o il bad ending. Ora il mio babuz mi odierà per la fine che gli ho fatto fare e per quanto l’ho fatto soffrire. Perché magari alcuni di voi non lo sanno, ma la ginocchiera bianca di Oikawa in realtà è una ginocchiera ortopedica, non da pallavolo, come quella nera. E l’ho anche fatto perdere alla finalissima della winter cup con il suo rivale giurato dall’infanzia. Ultima partita della sua vita da liceale finita così. Argh. Non odiatemi troppo, pls. Lo sapete che amo alla follia i bad ending.
Poi vbb, mi faceva cagare la fic ma ero troppo orgogliosa per farmela betare, quindi prendetevela così com’è.
Concludo questo sclero dato che credo di avervi rotto abbastanza già con la fic in sé.
(Il titolo, sì, è il titolo di una canzone bellabellissima che ascoltavo mentre scrivevo).
 
See you next time!                                                                                       
-Lady Blue


 
  
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