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Autore: PapySanzo89    07/10/2014    6 recensioni
John cammina non prestando attenzione, finché il suo orecchio cattura qualche nota.
Genere: Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO SECONDO
 
 
 
 
Londra è fredda quel giorno, più del solito. Il vento batte contro le finestre e le fa tremare, le nuvole ricoprono il cielo e annunciano una pioggia torrenziale che, John sa, non tarderà ad arrivare; nelle strade la gente corre a ripararsi nelle case e i poveri indomiti che restano lì fuori all’aperto sono i clochard che non hanno dove andare.
 
John è a casa, in piedi di fronte alla finestra che vibra su cui poggia una mano per attutire il suono, sentendola poi gelarsi pian piano contro il vetro freddo.
Lungo tutta la via la luce è saltata e ora la sera sembra più buia che mai, fortunatamente il suo turno all’ambulatorio è finito parecchie ore prima e lui è riuscito a tornare a casa senza morire assiderato nel tentativo.
 
Nel suo piccolo monolocale regna il silenzio. Dalla strada non arrivano suoni, a parte il vento che fischia impetuoso, e lui non ha voglia di guardare la televisione ma quel silenzio così assoluto gli incute quasi timore.
 
Gli ricorda delle notti in Afghanistan, del silenzio obbligatorio dopo una determinata ora perché bisognava assolutamente dormire, dei commilitoni che invece si ritrovavano fuori dalle tende –coperti da pesanti strati di vestiti siccome la notte nel deserto può essere mortale quanto il sole di giorno- perché di dormire proprio non avevano intenzione per la paura di venire attaccati nel sonno.
Il silenzio è una delle poche cose che davvero odia, ma ora che ne è attorniato non riesce a fare nulla per toglierselo di dosso.
 
Basterebbe accendere la radio, fare qualche passo nella stanza per ricordarsi che sì, i rumori esistono. Non gli servirebbe far altro che un respiro più pesante o un colpo di tosse, ma il silenzio lo paralizza ed è una cosa che odia, quasi più degli incubi sulla guerra.
E purtroppo sa che il suo inconscio non glieli risparmierà quella notte.
 
John continua a rimanere davanti la finestra e continua a tenere la mano sul vetro tremolante, sentendo gli spifferi provenire dall’intelaiatura in legno, vecchia probabilmente quanto l’intera Londra.
 
Uno scricchiolio arriva dal piano di sopra e John sposta l’attenzione sul soffitto, riuscendo finalmente ad uscire da quel limbo di pensieri. I passi al piano di sopra si moltiplicano e John capisce che il suo vicino è tornato.
 
Sospira finalmente, e si sposta dalla finestra, addentrandosi –per modo di dire- nella cucina, dove si prepara una tazza di tè e le sue orecchie ringraziano il suono dell’acqua che bolle e la fiamma che sfrigola viva.
 
Appoggia le mani sul piano cottura e quella sinistra si va a scontrare con l’IPod che John ha dimenticato di aver lasciato lì.
Nemmeno lo guarda mentre stringe le dita attorno alla plastica scura, volta il viso solo quando –senza nemmeno volere- lo accende e una luce azzurrognola lo avvisa dell’ultima canzone che è stata riprodotta.
John alza le sopracciglia.
 
Il giorno in cui l’ha preso se l’è messo in tasca e poi lo ha appoggiato sul bancone senza nemmeno aprirlo, farlo gli era sembrata quasi un’invasione della privacy.
 
Forse è stato un pensiero stupido da fare ma a tutt’ora, quando legge l’ultimo brano suonato, gli sembra quasi di star un po’ guardando dentro a quel ragazzo. Un po’ come se aprisse la porta della sua camera e si mettesse a curiosare tra le sue cose senza permesso.
Sorride comunque nel leggere il titolo del brano e pensa che è l’ultima canzone che il ragazzo ha suonato quando si sono visti.
No, non il ragazzo: Sherlock.
 
Si rigira un po’ l’IPod tra le mani e pensa proprio a lui, a quegli occhi azzurri come il cielo d’agosto e le labbra piene che s’incurvano gentilmente in un tenero sorriso dopo essere state imbronciate.
Ormai sono tre settimane che non lo vede, Natale è passato, e una parte di lui non desidera altro che vederlo, scambiare ancora qualche parola, magari bersi un caffè in santa pace senza che nessuno li interrompa o glielo porti via di corsa senza nemmeno riuscire a salutarlo.
 
John spegne l’IPod e se lo mette nella tasca dei pantaloni del pigiama, prendendo poi la sua tazza di tè e decidendo di andare a leggere a letto, troppo stanco di tutti quegli spifferi e quelle finestre tremanti.
 
***
 
John è stato perfino troppo clemente col suo infimo inconscio.
 
Si sveglia sudato e tremante nel letto e il libro con cui si è addormentato cade a terra, sospinto dal movimento repentino delle coperte.
 
Lo stomaco gli si è chiuso ma sente lo stesso l’urgenza di vomitare, però rimane lì, fermo sul letto a prendere profondi respiri e a tentare di calmarsi, col sudore freddo che gli scende lungo la schiena e gli costella le tempie e la fronte.
 
Appoggia la testa sulle ginocchia e si calma, buttando l’aria dentro e fuori ogni tre secondi come gli hanno insegnato per gli attacchi di panico. Poi si getta a peso morto all’indietro e il suo corpo cade sul materasso, facendolo rimbalzare a causa delle molle vecchie e logore. Dovrà assolutamente cambiarlo, pensa giusto per allontanare gli incubi che continuano ad attanagliargli la mente.
 
Fissa il buio della stanza che lo circonda e poi chiude gli occhi, incontrando solo altro buio e non volendoci avere più niente a che fare. Volta di poco il capo e va a vedere l’orologio che gli indica che mancano poco più di dieci minuti alle quattro di mattina.
Sbuffa stanco e si chiede che diavolo potrebbe fare alle quattro di mattina perché ormai sa che non riuscirà più a dormire. Maledice se stesso e tutti i suoi problemi.
 
Si stropiccia la faccia e poi tenta di voltarsi su un fianco, ma qualcosa gli urta la coscia e lui si ricorda –imprecando perché, cavolo!, avrebbe potuto romperlo- di avere l’IPod in tasca.
 
Lo tira fuori e di nuovo la lucetta azzurra fa capolino ma questa volta, nota John, la canzone è cambiata e lui si chiede quanto diavolo si sia agitato nel sonno.
La musica è partita da quasi due minuti ma ovviamente, senza cuffie, non produce alcun suono. E John si manda al diavolo e pensa che quello sia semplicemente un segno del destino e che, privacy o meno, una canzone non avrebbe potuto far altro che fargli bene e gli avrebbe chiesto scusa quando lo avrebbe rivisto.
 
Si alza e, al buio, cerca con mano pesante le cuffie che sa di aver appoggiato lì da qualche parte sulla scrivania e quando le trova si affretta ad agganciarle all’IPod e a tornare a letto, facendo ripartire la musica, qualunque essa sia, da capo.
 
Non fa nemmeno in tempo a mettersi sotto le coperte che qualcosa gli dice che forse quella non è la canzone più adatta a lui al momento, sembra qualcosa di tetro e non gli sembra sia il caso, ma poi la musica sale e riconosce che quello è proprio il violino di Sherlock, non ha dubbi a riguardo –non sa come, ma è sicuro che quel suono possa essere solo del suo violino e che quel tocco possa darlo solo la sua mano- e sembra essere arrabbiato. Sente la mano affondare violentemente sulle corde con l’archetto e qualcosa dentro di sé si sente arrabbiata come lui.
 
Passano interminabili secondi di altri strumenti di cui a John non frega assolutamente nulla e aspetta solo che torni il violino e gli infonda quel senso di incazzatura che lui vuole solo riuscire a buttare fuori in qualche modo. Quando il violino riparte la sua mano si muove con esso e inizia a fare strani volteggi in aria seguendo la melodia e iniziando a sentirsi più rilassato e più capito, un qualcosa che gli sembra assolutamente assurdo e impossibile, e invece eccolo lì, mentre fa ripartire la musica da capo senza aspettare di sentire il brano seguente e rimanendo su quello per almeno altre tre volte, mentre la mano pian piano si adagia sul materasso e lui riesce a calmarsi e rilassarsi e, addirittura, ad addormentarsi.
 
***
 
L’IPod si è completamente scaricato e le cuffiette si sono attorcigliate in un groviglio che John, appena sveglio, non ha alcuna voglia di districare, così le stacca e le poggia in malo modo sul comodino, stropicciandosi gli occhi per il sonno.
 
È presto, ma stranamente si sente riposato lo stesso e comunque deve alzarsi per il turno in ambulatorio, quindi scalcia via le coperte –rabbrividendo un po’ per il freddo- e si avvia verso il bagno, dandosi una sciacquata veloce in faccia giusto per svegliarsi del tutto.
 
Non sa che altre canzoni ha sentito quella notte, ma sa solo che i suoi nervi sono calmi e rilassati e che poi ha dormito come un pupo. Quasi quasi quell’IPod se lo tiene.
Sorride al pensiero mentre cerca un cavo USB per poter collegare l’IPod al computer e poi va dritto a farsi un caffè, accendendo la televisione per i fatti di cronaca lasciandola al volume più basso possibile.
 
Si prepara due toast e guarda se sul cellulare abbia ricevuto qualche chiamata o qualche messaggio, trovandone solo uno di Harry (alla fine l’ha contattata), decide di risponderle dopo e si mette seduto a tavola a far colazione.
 
Il telegiornale lo informa di pettegolezzi riguardanti il principe Harry di cui non gli può interessare di meno (dei pettegolezzi, non del principe Harry) e poi passa ai fatti di cronaca.
C’è stato un incidente a Piccadilly, la villetta di un ricco imprenditore è stata svaligiata durante la notte mentre il proprietario era in vacanza con la famiglia, Sherlock si trova su una scena del crimine e…
 
John quasi si soffoca col toast quando vede Sherlock alla Tv –vicino all’uomo dai capelli brizzolati che ha visto l’altra volta- mentre una donna cerca di allontanare le telecamere e di oscurare l’obbiettivo, ma quello è proprio Sherlock e John non ha minimamente dubbi, non potrebbe non riconoscerlo.
 
Gli occhi si abbassano automaticamente sulla scritta bianca su sfondo rosso dove sta scorrendo il luogo dell’omicidio. E John non ha nemmeno bisogno di pensare, prende il giubbotto ed esce di corsa da casa, chiamando Sarah e dicendole che non si sente bene e non sarebbe potuto andare a lavorare. Del resto è la prima assenza in più di tre mesi in cui non ha fatto altro che fare straordinari.
 
Non si è nemmeno accorto di essersi dimenticato IPod e bastone nell’appartamento.

***
 
La folla riunita gli fa capire prima del previsto dove sia stato commesso l’omicidio e non deve farsi tutta la via avanti e indietro per trovare chi sta cercando.
Si avvicina al nastro adesivo della polizia e questa volta si fa largo a spintoni contro le persone che non lo vogliono lasciar passare e si ferma a cercare con gli occhi Sherlock, pregando non c’entri niente con tutta quella situazione.
 
I capelli neri, la carnagione chiara e il cappotto scuro sono abbastanza evidenti nel giardino di una casa di periferia e John se lo ritrova davanti, a pochi metri di distanza, tranquillo, con le mani dietro la schiena che sta parlando –piuttosto animatamente- con l’uomo dell’altra volta. John lo guarda e, nonostante lo scenario non sia proprio dei più rosei, sorride nel vederlo. Fortunatamente sembra non aver nulla a che fare con quella brutta storia.
 
Ha le guance rosse per il freddo, sta molto probabilmente sbraitando qualcosa contro l’uomo dai capelli argentati che lo guarda e scuote la testa rassegnato che infine lo afferra per un braccio e lo porta lontano dagli sguardi delle telecamere che lo stanno riprendendo.
 
Sherlock ha l’espressione di un bambino arrabbiato, ma gli occhi gli brillano e si muove sul posto come se fosse di casa, non si fa problemi a parlare con gli agenti di polizia né a circolare per tutto il giardino, evidentemente cercando delle prove. John non capisce cosa ci faccia quel ragazzo lì, non capisce come mai possa passare oltre il nastro della polizia, ma capisce che è tutto a posto e adesso non riesce a fare altro che guardarlo.
 
Sherlock probabilmente sente di essere osservato perché si volta proprio nella sua direzione e lo guarda per diversi secondi.
L’espressione imbronciata cambia e diventa inizialmente sorpresa, poi il viso si distende, le sopracciglia si sollevano e la bocca ne segue l’esempio prendendo la forma di quel suo caratteristico sorriso mezzo storto. Dimostra stranamente qualche anno di meno.
John alza la mano in cenno di saluto e Sherlock alza timidamente la mano in risposta, evitando di farsi troppo notare dagli altri. Alla fine si volta verso l’uomo dai capelli brizzolati -quello che deve essere evidentemente un poliziotto- e dopo avergli fatto un cenno si allontana a grandi passi per avvicinarsi a John.
 
«Inizio a credere che tu mi stia seguendo.» esordisce Sherlock e John fa un sorriso sghembo, mentre la folla attorno a loro si agita e chiede informazioni all’altro. Sherlock non li degna di alcuna attenzione e rimane a fissare John con le mani dietro la schiena e l’aria di un uomo vissuto, John non sa perché ma a quell’aria spavalda non crede poi così tanto.
 
«Oggi potresti aver ragione.» gli risponde semplicemente e vede che l’altro è rimasto un po’ spiazzato, lo guarda con aria interrogativa e poi rivolge lo sguardo a terra, tossendo visibilmente in imbarazzo.
 
«Sembra qualcosa d’interessante.» dice guardando oltre la spalla di Sherlock che si volta nuovamente per dare un’occhiata a tutta la scena e si accorge solo in quel momento che Lestrade gli sta facendo segno di avvicinarsi. Evidentemente qualcosa gli sfugge, come al solito.
«Hai da fare subito dopo di qui?» gli chiede John -distogliendo evidentemente Sherlock dai propri pensieri- perché non ha alcuna intenzione di perdere un’occasione del genere.
Sherlock si volta verso di lui e sembra quasi sorpreso dalla domanda.
«Io… no, credo di non avere niente da fare.»
 
«Mi tieni compagnia per quel famoso caffè allora? Certo, se non ci metti una vita a finire qui.» John dice quelle parole ma in testa sua pensa che aspetterebbe volentieri anche una vita se poi potessero parlare liberamente.
 
Il volto di Sherlock si illumina in un bel sorriso e John pensa che sì, evidentemente anche lui ha voglia di bersi quel famoso caffè.
 
«Non dovrei metterci molto, dammi dieci minuti, forse un quarto d’ora.» John annuisce e a quello Sherlock si allontana, tornando dall’uomo coi capelli brizzolati che gli porge un fascicolo.
 
Sherlock resta fermo qualche secondo a leggere e ogni tanto gli lancia qualche occhiata a cui John risponde con un’alzata di sopracciglia piuttosto eloquente e allora Sherlock si volta nuovamente verso il fascicolo, per poi restituirlo al poliziotto e sondare nuovamente il terreno.
John non ha idea di cosa stia facendo, ma trova sia affascinante guardarlo.
 
Poi d’un tratto Sherlock si allontana ed entra in casa, lanciandogli un semplice sguardo che può voler dir tutto e niente, e John si ritrova a fissare la porta che si chiude alle spalle e poi l’uomo dai capelli brizzolati gli sta parlando.
 
«Ispettore Gregory Lestrade.»
 
Il cuore di John salta qualche battito per la sorpresa, e infine si volta a guardare l’uomo che gli è a qualche metro di distanza: non si è nemmeno accorto si fosse avvicinato, troppo preso ad osservare Sherlock.
 
Si schiarisce la gola e raddrizza la schiena, sorridendo allo sguardo gentile della persona che ha di fronte.
«John Watson.» dice semplicemente, non sapendo che altro fare se non prendere la mano che l’altro ha allungato e stringerla.
 
«Mi scusi se mi permetto, ma vede, Sherlock è qui per darci una mano e da quando è arrivato lei non ha fatto altro che balbettare e voltarsi a fissarla, quindi vorrei chiederle se potrebbe aspettarlo magari da qualche altra parte prima che mi faccia incriminare un innocente.» il tono è leggero e  amichevole, John trova un sorriso sincero sul viso dell’ispettore e alla fine rilassa le spalle, sorridendogli di rimando.
 
«Non è il tipo da balbettare, immagino.» dice John, perché vuole sapere più cose possibili su quel ragazzo e, in fin dei conti, è una cosa abbastanza evidente.
 
«Direi proprio di no, non credevo nemmeno una cosa simile fosse possibile.» poi l’ispettore si volta a guardarlo meglio, inarcando un sopracciglio, probabilmente sorpreso dall’affermazione che ha fatto John. «Credevo foste amici.» calca leggermente sull’ultima parola -e John non è sicuro se l’abbia fatto con intenzione o meno- e sa perfettamente cosa stia tentando di sottintendere e sghignazza della cosa.
 
«Ci siamo visti due volte e avremo parlato al massimo dieci minuti.» evita di dirgli che l’ultima volta è stata proprio colpa sua il fatto che è riuscito a parlargli così poco siccome l’ha trascinato via, ma ora almeno può quasi capire il perché.
 
L’ispettore lo guarda con aria scettica e poi sorride con espressione confusa. «Beh, buona fortuna con Sherlock Holmes allora. Gliene servirà parecchia.» e detto questo si volta e si allontana ma John lo richiama urlando il suo nome.
 
«Sarò in quel bar all’angolo, gli dica di raggiungermi lì per favore!»
L’ispettore annuisce e John si allontana dalla folla che si accalca ancora e sembra che niente e nessuno riesca ad allontanarla.
 
***
 
John è immerso nei suoi pensieri quando la sedia si scosta e Sherlock Holmes (ora che sa anche il cognome lo ripete a mente e gli sembra che sia semplicemente perfetto) gli si siede di fronte, togliendosi sciarpa e cappotto.
 
«Hai fatto in fretta.» gli dice mentre si accomoda e gli occhi dell’altro non si scostano dai suoi. Sono intensi i suoi occhi, nota John. Sono di un azzurro pungente che ricordano il cielo cristallino di alta montagna e sembrano scavargli dentro come nessuno è mai riuscito a fare. Li trova straordinari e non vede perché dovrebbe interrompere uno spettacolo simile distogliendo lui per primo i propri.
 
«Una cosa piuttosto banale e sembra che tutti qui siano un branco di idioti, non è stato nulla di eclatante.» risponde con aria saccente e l’espressione particolarmente annoiata. Sotto sotto si vede che è una specie di farsa, ma John si ritrova a sorridere come un ebete del suo modo di fare.
 
Sta per dirgli qualcosa quando la cameriera si avvicina per prendere l’ordine di Sherlock. Lui è già stato servito con un caffè nero che gli sta riscaldando le mani grazie al bicchiere bollente, probabilmente il caffè si raffredderà prima che lo possa bere ma al momento non ha importanza, al massimo ne ordinerà un altro.
 
«Quindi sei un investigatore? Un poliziotto? E io che ti ho dato i miei averi.» scherza John, ridendo dello sguardo adesso sdegnato dell’altro. È incredibile come quel ragazzo riesca ad esprimere così tanto con una sola lieve alzata di sopracciglio.
 
Sherlock si toglie i guanti appena la sua ordinazione arriva e anche lui le passa sopra la ceramica della tazza, rabbrividendo un poco.
 
«Sono un consulente investigativo.» gli dice, guardandolo nuovamente negli occhi dopo aver preso un sorso di caffè. John a quell’affermazione storce la bocca e continua a fissarlo, chiedendo silenziosamente spiegazioni. Sherlock alza gli occhi al cielo ed è pronto ad una tiritera che non finirà mai. «Aiuto la polizia quando brancola nel buio, ovvero sempre. Ho aperto un blog negli ultimi tempi e finalmente la polizia ha capito di dover dare retta a me. C’è voluto più del previsto, sono quasi sei anni che mi spingo per entrare nel giro, ma alla fine ce l’ho fatta. Comunque come ho detto sono degli idioti, o mi avrebbero dato retta molto prima.» prende un altro sorso di caffè e rabbrividisce di nuovo. Gli piace la sensazione di venir scaldato, del caffè che gli scende lungo la gola e va a riportargli un po’ di calore nel corpo esposto ad intemperie per ore, ovviamente nessuno lo sa, del resto lui non è il tipo da queste cose.
 
John lo osserva e Sherlock vede il dubbio nei suoi occhi. C’è abituato ormai, gli ci sono voluti anni per poter mettere bocca negli affari della polizia, anni di duro lavoro e di prove consegnate prima che la polizia avesse solo il tempo di guardarsi intorno, anni di sbeffeggiamenti e di porte chiuse in faccia perché era solo un ragazzino e cosa ne poteva sapere lui? Quindi non è per nulla strana l’espressione di John in questo momento, forse dovrebbe dargli qualche dimostrazione, dovrebbe dedurre qualcosa su di lui e spiattellargli tutta la verità in faccia come fa di solito, anche se di solito questa cosa non piace molto alla gente.
 
Una parte di lui non lo vuole fare perché se questa cosa non piace in generale perché dovrebbe piacere a John? Però quella stessa parte si chiede che cos’abbia di così importante questo medico militare che lo fissa stranito per farlo titubare. Non ha mai avuto un dubbio nella sua vita e non gli sembra il caso di iniziare.
 
Inizia a parlare senza nemmeno accorgersene. Butta fuori informazioni, frasi lunghissime e senza nemmeno una pausa perché teme che se si fermerà non riprenderà più a parlare. Butta fuori tutto ciò che sa e vede l’espressione dell’altro diventare mesta, poi sorpresa, poi incredula ma lui non si ferma e continua a parlare. Parla della guerra, dell’assenza di amici o famiglia, di disturbo psicosomatico e alla fine stringe talmente tanto la tazza da farsi venire le nocche bianche ma nemmeno se ne accorge.
 
John lo guarda a bocca aperta e Sherlock pensa a quale reazione sia la più probabile ora. Solitamente viene preso a male parole, qualcuno lo ha addirittura preso a pugni una volta, adesso quindi –per logica deduzione- si aspetta che John lo insulti, si alzi e se ne vada.
Ma John non fa nulla di tutto ciò.
 
«Fantastico.» si limita a dire all’inizio e Sherlock non è così sicuro di aver capito bene. «Cioè, fantastico. Sì, un tantinello troppo personale e non pensavo di essere così leggibile ma… fantastico.» ripete di nuovo, evidentemente a corto di parole.
 
Sherlock sente qualcosa che assomiglia tanto al calore che gli dona il caffè quando -nelle fredde giornate invernali- lo scalda salirgli all’altezza del cuore, ma questa volta il calore è più simile ad un vero e proprio incendio.
 
Resta per qualche istante in silenzio e poi si schiarisce la gola, giocherellando con la tazza ormai vuota per metà.
Non lo dà troppo a vedere ma internamente sta sorridendo, e pure tanto.
 
Ma John non si ferma con le domande, vuole sapere come mai si trovasse a suonare più di una volta in mezzo alla strada, di che caso si stesse occupando, di cosa abbia fatto fino a quel momento e tante altre domande che Sherlock non si è mai sentito porgere in ventisei anni di vita. Nessuno, a parte i suoi genitori e suo fratello, si è mai interessato così tanto a lui.
E allora parla, gli racconta di aver iniziato l’università ma di aver mollato a qualche esame dalla fine perché per quello che voleva fare lui l’università non gli serviva a niente, in più conosceva certe materie molto più approfonditamente di certi suoi insegnanti. Gli racconta di come vive ora, gli racconta del caso grazie al quale loro sono riusciti ad incontrarsi e John ascolta e ascolta e ascolta talmente tanto e tanto a lungo che ormai sono entrambi alla terza tazza di caffè e a Sherlock pare di avere il cuore leggero, gli sembra di essere in una strana bolla che non fa passare né il tempo né le parole della gente, lasciando entrambi in una specie di atmosfera intima e calda che non ha mai provato con nessuno.
 
E per qualche secondo resta quasi spiazzato dalla cosa, ma alla fine contrattacca e chiede a John tutto quello che non può dedurre e John gioca con lui, gli dà degli indizi dai quali deve capire da solo la risposta, sfida il suo acume in modi talmente scontati e quasi patetici che Sherlock trova assolutamente adorabili.
 
Dal caffè passano al tè e ad un certo punto John ordina da mangiare per entrambi (anche se Sherlock ha risposto di non aver fame) ed improvvisamente il prendersi un caffè è diventato un pranzare insieme ma John non ha nulla da fare nel pomeriggio e Sherlock pare del suo stesso avviso, così continuano ad occupare quel tavolino con vista sulla strada affollata parlando.
 
***
 
La cameriera si avvicina loro e fa un piccolo colpo di tosse per richiamare la loro attenzione. John si volta a guardarla stranito mentre Sherlock le rivolge uno sguardo infastidito per l’interruzione.
 
«Scusate il disturbo ma staremmo chiudendo e…» la cameriera sembra in difficoltà, probabilmente non è sua abitudine allontanare i clienti dal locale.
 
John si volta a guardare fuori dalla finestra e nota che il sole è tramontato da un pezzo e che solo i lampioni e i negozietti che lasciano le vetrine con le luci accese rischiarano le strade altrimenti buie. Il vento si è alzato nuovamente e i passanti alzano i baveri dei cappotti, sembra anche che verrà a piovere, le nuvole scure non promettono nulla di buono.
 
John si sorprende di aver passato un’intera giornata in un bar e non essersene nemmeno reso conto, se anche Sherlock è sorpreso della stessa cosa non lo dà a vedere.
 
Entrambi si alzano e Sherlock prende sciarpa e cappotto e li indossa con qualcosa che John potrebbe solo definire altezzosità ma che gli piace da morire, si dirige alla cassa per pagare ma la cameriera ha evidentemente già fatto la chiusura.
John la guarda stranito e sta per dire qualcosa quando la ragazza lo precede. «È già tutto pagato.» dice semplicemente e si addentra nello sgabuzzino per prendere scopa e paletta.
John si volta verso Sherlock e lo guarda divertito.
 
«Beh, come hai detto tu, mi hai dato i tuoi risparmi quando ci siamo visti e mi hai anche offerto un caffè, dovevo pur sdebitarmi.»
 
«Un caffè e qualche sterlina non sono paragonabili a un pranzo e qualcosa come otto litri di caffè. A testa.»
 
Sherlock gli passa accanto e lui finisce con l’osservarlo: è come se quel ragazzo fosse una sottospecie di calamita e lui non riuscisse a togliergli gli occhi di dosso.
 
«Tutto questo dipende dai punti di vista.» si limita a rispondere aprendo la porta a vetri del bar e uscendo, aspettando che John lo raggiunga. John ringrazia e saluta la cameriera rimasta sola, poi si avvia.
 
È solo quando mette piede fuori dal locale e sente qualche canzoncina arrivare dal fondo della strada che si ricorda una cosa.
 
«Dannazione, non ho il tuo IPod con me! L’ho lasciato a casa.» dice mentre si passa una mano sulla faccia e si dà mentalmente dello stupido. Sapeva l’avrebbe visto, avrebbe anche potuto ricordarselo. Storce la bocca e lo guarda. «Mi sa che mi toccherà ridartelo la prossima volta che ci vediamo.» e nel dirlo le sue labbra di aprono in un sorriso che Sherlock non riesce a far altro che imitare.
 
«Mi sembra un ottimo compromesso.» si limita a dire con le mani dietro la schiena.
 
Restano in silenzio a guardarsi per qualche istante, poi un tuono spezza quella specie di armonia che si è creata tra loro e John sospira, guardando il cielo.
 
«Questa volta sarai tu a dovermi trovare però.»
 
Sherlock volta la testa a guardarlo e pare sorpreso dall’affermazione. John all’inizio gli mostra solo il profilo, gli occhi del blu più bello che abbia mai visto rivolti al cielo coperto, poi si volta verso di lui e lo osserva di rimando.
 
«Ti ho sempre trovato io, adesso, mio caro consulente, siccome questo pare essere proprio il tuo lavoro, pretendo di essere trovato. E se succederà credo proprio che questo potrà essere chiamato destino.» evita di continuare la frase come vorrebbe, ma ci sarebbero tante cose da dire e ognuna con un significato diverso dall’altro. Comunque, decide lì in quel momento, se sarà destino lo sarà per sempre.
 
La pioggia inizia a cadere copiosa e distorce i contorni dei palazzi affianco facendo uno strano gioco di luci ed ombre con i lampioni, mentre il vento fa rabbrividire entrambi per la differenza di temperatura che c’era tra dentro e fuori il locale.
Sherlock lo fissa per qualche istante, rimanendo in silenzio, poi gli si forma un ghigno in viso, qualcosa che assomiglia molto a uno sguardo di sfida, qualcosa di intimidatorio.
 
«Allora sta pur certo che ti troverò John Watson. E non sarà destino, sarò io ad averlo fatto.»
 
John si domanda per qualche istante come Sherlock sappia il suo cognome, poi si ricorda di Lestrade e quella domanda cade nel dimenticatoio, non è una cosa che gli interessa più di tanto. Si sorridono per l’ultima volta poi ognuno prende la propria strada, correndo tra la pioggia scrosciante udendo solo i rumori dei tuoni e le strade rischiarate a giorno dai fulmini. Non si sono nemmeno salutati perché che bisogno c’è di salutarsi quando entrambi sanno che si rivedranno a breve?
John adesso sa che tornerà all’appartamento e ascolterà a tutto volume le note del violino di Sherlock e Sherlock sa che andrà a casa, si farà una doccia e poi si asciugherà i capelli davanti al caminetto guardando il nome di John scritto con l’indelebile sul bicchiere che non ha intenzione di buttare.
 
 
 
 
 
 
 
NOTE:
La canzone del giorno è questa (lei è tipo bravissima ma possibilmente non guardatevi il video perché è orrendo XD), enjoy:
The Devil’s Trill  
Poi giusto un due paroline, tendenzialmente il prossimo capitolo sarà l’ultimo a meno che non mi vengano in mente altre idee, incrocio le dita che la storia comunque vi stia piacendo –soprattutto perché mi rilassa tantissimo scriverla e sono contenta <3
Punto secondo, come ho detto in Ermetanzo lunedì parto per il Giappone quindi per un mesetto non farò aggiornamenti (piango) perché non avrò proprio il tempo materiale per scrivere ma soprattutto non mi porto dietro il computer perché solo quello pesa tipo 8 chili XD ma spero mi verrà ispirazione per qualche nuova storia tra vari templi :3
Per il resto spero il capitolo vi sia piaciuto e se non aggiorno con nient’altro non si sa mai nella vita ci sentiamo tra un mese *_*
   
 
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