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Autore: PapySanzo89    26/09/2014    7 recensioni
John cammina non prestando attenzione, finché il suo orecchio cattura qualche nota.
Genere: Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO PRIMO

 

 

Londra quest’oggi è bianca. Bianca come la neve che ne ricopre le strade e la leggera nebbiolina che porta con sé umidità e fa dolere la spalla di John. Ma va tutto bene, perché le luci natalizie rischiarano il cielo tinto di rosso del pomeriggio e regalano giochi di luci e ombre contro le vetrine dei negozi e la neve sui tetti. Il sole sta calando e l’aria fredda inizia ad infiltrarsi dentro ai giubbotti e ai cappotti invernali, facendo venir voglia di entrare a riscaldarsi le ossa in una qualsiasi caffetteria, ma a Natale mancano pochissimi giorni e tutti sono troppo indaffarati ad entrare ed uscire dai negozi con nuovi acquisti piuttosto che notare il freddo che ricopre la città.

 

John ha finito il turno all’ambulatorio e si affretta a tornare a casa. Non ha persone a cui fare regali per Natale, lui. Sua sorella non la sente da quando è tornato –e non crede sappia nemmeno che ha rimesso piede in Patria- e i suoi genitori ormai sono venuti a mancare da qualche anno; di amici invece, al momento, non ne ha.

 

John prende un profondo respiro e l’aria fredda gli entra dentro, passando per la gola e arrivando dritta ai polmoni, gelandolo. Gli piace la sensazione, ha patito talmente tanto caldo e per talmente tanto tempo che un po’ di freddo non lo spaventa.

 

Due ragazzini gli passano accanto, ridendo tra loro e correndo a guardare le vetrine dei negozi di giocattoli e John si ferma a osservarli.

Gli vengono d’improvviso in mente i Natali passati con sua sorella, da bambini, mano nella mano a gironzolare per le strade semi deserte della campagna mentre i loro genitori li guardavano e scattavano foto che sono andate perse nel tempo.

Nonostante siano ricordi talmente lontani da fargli quasi pensare che appartengano a un’altra persona, questi riescono a scaldare il cuore a John e a fargli pensare che, forse, mandare un messaggio a Harry non sia poi una così brutta idea.

 

I due ragazzini si spostano dalla vetrina e corrono via, trasportati lontano dalla musica natalizia dei negozi e John li guarda correre, stringendo inconsapevolmente il manico del bastone tra le dita.

Fa un altro respiro e, d’improvviso, sente qualcosa riempirgli il petto. È come un’improvvisa voglia di vivere, qualcosa di gioioso e infantile che gli riscalda i polmoni.

 

Decide di cambiare direzione, non vuole più tornare a casa, preferisce invece fare una lunga camminata per la città e riscoprire vie vecchie e nuove.

 

Si massaggia le mani infreddolite e se le scalda portandole alla bocca, soffiandoci sopra fiato caldo. Il profumo di caffè invade la via che sta percorrendo e nota uno Starbucks da cui la gente entra ed esce in continuazione, lasciando uscire un leggero tepore dal locale.

 

Cammina osservando le vetrine con sguardo nuovo, osserva i giocattoli che non comprerà per nessuno e i maglioni con le più improbabili stampe natalizie che, ammette solo a se stesso, a lui piacciono molto. È sempre stato il più affezionato al Natale, in tutta la sua famiglia, quasi gli dispiace che la magia sia scomparsa un po’.

 

Nota i Babbo Natale in giro per città che chiedono un aiuto anche questo inverno per i meno fortunati di noi e John gli lascia quello che può, ora che ha un lavoro e se lo può permettere. Il Babbo Natale (che, a giudicare dal viso semi nascosto dalla barba e dalla parrucca, non deve avere più di vent’anni) lo ringrazia e suona la campana che tiene in mano, augurandogli buon Natale. John sorride e ritorna a camminare.

 

È la folla a destare la sua curiosità prima di tutto: un ammasso di gente raggruppata sulla piazzola davanti a una Steak House. John si avvicina incuriosito dai visi sorridenti di quelli che non potrebbe far altro che definire spettatori e poi la sente, chiara e cristallina come la prima volta. Non crede di potersi sbagliare sul suono di quella musica.

 

Stringe il bastone e, senza nemmeno accorgersene, fa una piccola corsetta fino a lì, dove il suono di un violino che non potrebbe mai dimenticare si fa strada nelle sue orecchie, nella sua mente, nelle sue cellule.

 

Si avvicina alla folla e chiede permesso, chiede di poter passare e le persone perlopiù si spostano, mentre altre non accennano a muovere un muscolo, ma ora John è abbastanza vicino da poterlo vedere e sì, è proprio lui, il suo violinista in completo.

 

Questa volta si è portato dietro un accompagnamento e dall’IPod ai suoi piedi escono suoni di tamburi, flauti, pianoforti e John ride, ride perché è Natale e quel ragazzo sta suonando una musica che non riesce a far altro che ricordargli i campi verdi della Scozia in pieno luglio, le colline assolate e le scogliere rocciose che mostrano sempre sulle cartoline, il sole che sorge e ti riscalda, calmo e quieto finché non ti accorgi troppo tardi che stai sudando ed è il caso di levarti la giacca che ti sei portato dietro per sicurezza. Quel ragazzo suona e a lui vengono in mente le sue radici [1] e i suoi viaggi in Scozia con la famiglia, quand’era ancora un bambino e riesce anche a fargli tornare in mente il freddo pungente che si provava alla sera, quando il sole calava, e non c’entra nulla che lì –a Londra- faccia freddo, perché non è lo stesso freddo a cui John pensa.

 

Il ragazzo suona sempre con gli occhi chiusi, come se guardare il mondo che lo circonda potesse in qualche modo farlo deconcentrare e così John ne approfitta per ammirarlo meglio, sforzandosi di guardare tra le persone che ha davanti.

 

Il viso è assorto, le labbra sono piegate in un sorriso appena accennato e le sopracciglia denotano vera concentrazione, i capelli ricci sembrano leggermente sudati e John pensa che congelerà se non ha davvero altro da mettersi addosso a parte la giacca del completo e una sciarpa che, ora nota, è ripiegata ed appoggiata accuratamente nel porta violino.

Poi la sua attenzione viene catturata dal collo bianco e longilineo e dal violino a cui è appoggiato, risalendo lungo il legno scuro e arrivando alla mano che lo stringe e alla mano che, con gesti rapidi, regge l’archetto e lo muove creando quella musica che a John entra nel cuore.

 

Poi la mano arresta il movimento sulle corde e il ragazzo apre gli occhi portandoli sulla folla, non vedendolo, e fa un piccolo sorriso iniziando a fare qualche passo mentre si sgranchisce la mano che tiene l’archetto e lascia che la musica dell’IPod prosegua da sola, lasciando solo i tamburi a suonare per diversi secondi.

 

John è in attesa. Non può definirsi in altro modo. È in attesa di vedere se proseguirà o se lo spettacolo è finito e gli sembra che anche gli altri spettatori stiano fremendo per l’aspettativa, questa volta attendendo in un silenzio che sembra quasi religioso.

 

Poi il ragazzo imbraccia di nuovo il violino e le ultime note escono come una cascata e la gente si ritrova ad applaudire ancora prima che l’esecuzione possa essere finita, mentre John prega che facciano un attimo di silenzio per poter sentire fino alla fine quell’interpretazione straordinaria. E, quando finisce, John è ricolmo di gioia.

E ha un’idea.

 

 

Sherlock attende che la folla se ne vada –dopo avergli lanciato qualche monetina- e nel mentre mette via con cura il proprio violino e spegne l’IPod, staccando le casse portatili. Non sente più la punta delle dita e teme che i guanti non gli saranno di qualche utilità adesso. Tenta di scaldarsele come può, soffiandoci sopra e massaggiandosele, e nel frattempo si allaccia la sciarpa al collo. Tutto lo sforzo che ha fatto fin ora non è valso a niente e adesso dovrà tornare di corsa a casa, prima di prendersi una polmonite per essersi scordato il cappotto. Certo, se non gli avessero telefonato e detto che era una questione di vita o di morte magari se lo sarebbe anche ricordato, prima di prendere il violino e piombare in strada fermando il primo taxi.

 

Si infila i guanti e come temeva la sensazione non è delle migliori, gli servirebbe davvero qualcosa di caldo per…

 

“Caffè?”

 

Sherlock, ancora piegato sulle ginocchia per chiudere il porta violino, alza la testa e la prima cosa che incontra è un contenitore bello fumante della Starbucks, poi una mano abbronzata, dalle unghie curate e dalle dita un po’ tozze con dei piccoli calli che gli fanno capire il lavoro dell’uomo davanti a sé, risale poi lungo la manica del cappotto verde scuro e va ad incontrare delle labbra incurvate in un sorriso sincero e degli occhi blu come il mare d’inverno.

 

L’uomo, forse vedendolo non rispondere, fa un piccolo colpo di tosse e sembra quasi imbarazzato, così ritrae di poco la mano che gli sta offrendo il caffè.

 

“Probabilmente non ti ricorderai nemmeno di me, sono passati quasi due mesi ma…”

“No, mi ricordo di te!” Sputa subito fuori Sherlock e prende il bicchiere bollente prima che l’altro possa decidere di aver avuto una pessima idea. L’uomo sembra sorpreso (e che questo sia dovuto al fatto che si ricordi di lui o alla sua voce, non lo saprebbe dire) ma il suo sorriso ricompare nuovamente su quelle labbra fini e Sherlock gli sorride di rimando.

 

Come avrebbe potuto dimenticarsi di lui? Gli ha fatto uno dei più bei complimenti che abbia mai sentito in vita sua. E questo non riguarda solo il fatto che lui sia un vanesio irreprensibile, è che l’espressione che quell’uomo gli ha fatto quel giorno –di pura gioia- lo ha accompagnato per tutto il resto della giornata, facendolo sentire apprezzato. Sa, perché ne è consapevole –tutti i geni conoscono i propri limiti-, che è bravo in ciò che fa, ma quell’uomo lo ha fatto sentire importante per qualcuno. Davvero importante per qualcuno.

 

“Grazie.” Dice infine, abbassando gli occhi, scaldandosi le mani sul bicchiere di polistirolo, lasciando entrare il calore attraverso i guanti ghiacciati. È stato un gesto molto carino da fare, almeno può ammetterlo a se stesso.

 

“L’ho preso nero, non sapendo cosa preferissi, ma mi sono munito di bustine di zucchero e mi hanno gentilmente regalato un po’ di panna.”

 

Sherlock chiude la custodia del violino con un gesto secco e si alza, sovrastando di parecchi centimetri l’uomo davanti a sé che non sembra minimamente impressionato.

 

“Nero, due di zucchero. Hai fatto un’ottima scelta a non prendere altro.”

 

Sherlock finalmente prende un sorso del caffè e per un attimo prova un brivido caldo lungo tutta la schiena. Finalmente qualcosa che riesce a scaldarlo come si deve, più del cappotto e più dei complimenti. Il caffè scende lungo la gola e gli arriva nello stomaco e Sherlock si sente improvvisamente bene.

 

“Splendido.” Si lascia sfuggire e l’uomo davanti a sé ride sommessamente.

Sherlock adesso sente ancora un pochino più caldo.

 

 

John guarda il violinista e, da così vicino, immagina possa avere venticinque anni o qualcosa in più. Non sa cosa sia questa sensazione di familiarità, non ci ha mai parlato prima, non sa nemmeno come si chiama, figuriamoci provare qualcosa del genere, eppure è questo ciò che sente.

 

“Sei stato straordinario. Davvero fantastico.” Gli dice, giusto per parlare un altro po’ perché quella voce baritonale, in un corpo così esile, lo ha sorpreso parecchio e per un attimo si è chiesto come mai non accompagnasse il violino con la propria voce piuttosto che con l’IPod, ma poi si è reso conto che forse non è il caso di chiederglielo.

 

Vede le guance del ragazzo diventare di un rosa più acceso e si domanda se sia per il complimento o per il caffè.

 

“Grazie, io…”

 

“Sherlock!” un uomo dai capelli brizzolati interrompe quello che il ragazzo stava per dire e corre nella loro direzione, afferrando il violinista per il braccio. “Muoviti! Dobbiamo andare!”

 

E poi è tutto un susseguirsi di istanti e immagini, il ragazzo si scusa con lui e lo ringrazia ancora, l’uomo dai capelli argentati gli intima di muoversi, John rimane fermo con il caffè in mano senza sapere cosa dire o cosa fare e, d’improvviso, il violinista –Sherlock- è già lontano, oltre la folla.

 

John non sa bene cosa sia successo e gli dispiace di essere stato privato della compagnia dell’altro, soprattutto dopo che ha trovato il fegato di avvicinarglisi in quella maniera.

Però doveva essere qualcosa d’importante se è fuggito via in quel modo, dimenticandosi perfino l’IPod. John lo nota solo ora e si china a prenderlo, aiutandosi col bastone. È un semplice IPod nero, dal modello sembra avere almeno un paio d’anni, e lui non sa cosa fare. Se lo lascia lì sicuramente qualcuno se lo prenderà, ma non può nemmeno aspettare che l’altro torni a riprenderselo, se mai lo farà.

Storce le labbra e decide di tenerlo: se sarà fortunato lo incontrerà un’altra volta. E dentro di sé spera ardentemente di essere così fortunato.

 

Comunque adesso sa qualcosa in più. Sa il suo nome: Sherlock.

E non sa perché, ma gli viene da ridere. Una persona così particolare non poteva di certo avere un nome banale come il suo. Quel nome gli calza a pennello.

 

 

 

Sherlock si getta a peso morto sul divano del 221B di Baker Street e respira a pieni polmoni, dopo una corsa fatta a perdifiato.

L’aria in casa è fredda, tutto lì dentro è freddo, non ci mette piede da quella mattina e ovviamente nessuno si è premurato di accendere il caminetto. Di sicuro non può pretendere che lo faccia la signora Hudson, è stato lui il primo a dirle di non toccare niente.

 

Ma la cosa che davvero lo fa imbestialire è che tutta quella messinscena non è servita a nulla, tutte quelle ore di appostamento al freddo e al gelo sono state semplicemente buttate ed ora dovranno ricominciare tutto da capo.

 

Poi però gli viene in mente una cosa e allunga la mano per afferrare la custodia del violino e trarla a sé, aprendola con un singolo gesto.

Dentro, mezzo spiegazzato a causa della corsa e della custodia troppo piccola, c’è il bicchiere di Starbucks che quell’uomo gli ha regato quel pomeriggio.

Non ha avuto il coraggio di buttarlo via e l’ha conservato, in uno strano gesto di sentimentalismo che non gli appartiene.

 

Con mano delicata prende il bicchiere e tenta di ridargli la forma originale, girandoselo tra le mani, finché non nota una scritta fatta velocemente con indelebile nero e rovinatasi a causa delle gocce di caffè finiteci sopra ma ancora leggibile: John.

 

Sherlock si alza di scatto a sedere sul divano e rimane a fissare il bicchiere con espressione stupita.

John. È quello il suo nome? Deve avergli dato per sbaglio il suo bicchiere o forse lo ha fatto con intenzione? Ma in quel caso –immagina- avrebbe aggiunto qualcos’altro oltre il nome. Il cognome magari, o il numero di telefono. No, dev’essere stato uno semplice scambio di bicchieri, probabilmente aveva preso due caffè neri e non si era fatto problemi riguardo al quale dargli.

 

Quindi il suo nome è John.

John. John, John, John.

 

Sherlock non sa perché ma si ritrova a sorridere e a pensare che quell’uomo, così poco comune, decisamente tutto fuorché banale, ha il nome che forse meno gli si addice. Eppure, in una strana incongruenza di pensiero, lo trova perfetto.

 

Si alza, Sherlock, e va ad appoggiare il bicchiere col nome di John sulla mensola del camino per tenerlo in bella vista.

Qualcosa gli dice che lo rivedrà e che, soprattutto, gli restituirà l’IPod che si è dimenticato.

 

 

 

 

 

 

 

Note:

[1] John Watson ha origini scozzesi. XD

Questa volta la musica, come ben intenso (spero) non è un assolo di violino ma un accompagnamento, eccola: Flag in the Ground Personalmente la amo, e per fortuna ho trovato la base. XD

   
 
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