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Autore: ki_ra    09/10/2014    3 recensioni
In un punto imprecisato del tempo, in un luogo qualunque del mondo, due anime lontane incrociano le proprie vite.
Sangue e nome, rispettabilità e disonore, tradimento e amore li spingeranno l’una verso l’altra.
Mentre un mondo vecchio e superficiale si dibatte per continuare ad esistere, un amore nuovo nasce e sconvolge anime e cose.
Genere: Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Incubi e sogni di un prigioniero

 

La cella era angusta, appena sufficiente a contenere un tavolato di legno, assicurato alla parete con delle catene, che fungeva da giaciglio, e, nel lato opposto, un pitale di metallo scrostato.
I muri suppuravano muffa fluorescente e fetida, che trasudava dalle pietre come un’infezione della pelle.
L’aria era irrespirabile, impregnata di sudore, maleodorante come quella di una latrina pubblica, e soffocante per la canapa delle torce, inzuppata di petrolio, che bruciava, per illuminare il corridoio.
Le tempie martellavano per la stanchezza e, nella bocca arsa, il sapore acre del sangue si mescolava alla saliva. Umettò con la punta della lingua il labbro inferiore, spaccato e gonfio, che bruciò al contatto, tanto da fargli strizzare gli occhi per il dolore.
Doveva essere stato il calcio del fucile che uno dei soldati gli aveva piantato in faccia, quando aveva tentato di opporsi all’arresto. Anche i polsi gli dolevano: erano segnati da ecchimosi ardenti a causa dei vicoli troppo stretti che gli avevano imposto e che gli impedivano i movimenti delle mani.
La camicia, lacerata in più punti, era logora così come i capelli e la pelle del viso, intrisi di sudore, polvere e sangue.
La luce esterna filtrava attraverso la fitta inferriata di un finestrino posto a più di due metri dal pavimento, disegnava sulla pietra una scacchiera di ombra e luce,  troppo flebile per scandire lo scorrere del tempo.
Eìos sapeva soltanto che si era lasciato alle spalle una lunga notte tormentosa, una notte infinita, gli occhi puntati sul soffitto e un desiderio solo a rotolare nella testa: il sonno ristoratore. Aveva invocato quel sonno salvifico e pieno, maledicendo il ricordo delle notti in cui esso giungeva e perdurava sino al mattino, quando anche quello scomodo giaciglio sarebbe apparso confortevole.
Invece esso, quella notte, era arrivato improvviso, ma breve; lo aveva ingannato, per poi spegnersi e abbandonarlo, solo e dolorante, ad aspettare l’alba, come la fine di un agonia.
Strizzò gli occhi una, due, tre volte, accompagnando il gesto con profondi respiri, come in un rituale magico e propiziatorio, fino a quando, nel buio, dietro le palpebre stanche, comparve generosa e soave, la forza che il sonno mancato non gli aveva concesso.

Una nebbia, come ovatta impalpabile e bianca, addensava l’aria, circondandolo, quasi le nuvole fossero calate giù dal cielo a riempire la terra. Il cielo era terso di un azzurro pieno ed infinito, avvolgente come fosse liquido. Alla fine di un sentiero, che sembrava venire dal nulla, come un serpente tra le foglie accartocciate, v’era una porta, come di cera opaca e leggera.
La spinse, senza fatica alcuna, e oltre trovò la primavera.
Rumore di acqua sorgiva scivolava nelle orecchie, aggraziato e fresco; profumo di vento lambiva la pelle, come ali diafane di farfalle; verde di foglie e porpora di fiori si concedevano agli occhi intersecandosi, come forme molteplici di un caleidoscopio.
I piedi nudi e un abito bianco, come il velo di una vestale, era seduta sull’erba bagnata di brina. I capelli, miele colato dalle arnie, le coprivano la schiena nuda e alcune ciocche ne animavano la pelle, illuminandola con la luce di un sole morente.
- Stringimi. – gli chiese ed egli, incantato, le si fece vicino, la sollevò dalla terra e portò le mani al suo viso di latte.
Le labbra di lei giunsero al suo orecchio e la voce degli angeli gli cantò che ogni piccola paura era rimasta fuori; ogni dolore spento, confuso nell’odore della loro pelle.
Egli la strinse, forte, e la porta si richiuse silenziosa alle loro spalle, limitando il confine della nebbia fuori dal loro giardino.

Il rumore metallico delle chiavi nella serratura e il cigolio del cancello lo strapparono dal vapore del sogno che si era addensato, reale e vivido, nella sua mente.
Un soldato entrò, calciando con la punta degli stivali, le ciotole di legno che contenevano cibo e acqua. Il contenuto si riversò sul pavimento e un tozzo di pane, duro come una pietra levigata, rotolò fino alla parete opposta.
- Vedo che non hai gradito la cena. – osservò, rivolgendosi ad Eìos che giaceva immobile e supino sul tavolaccio, come se dormisse. – Il cuoco ne sarà rattristato … - lo schernì, con un risolino, mentre si portava con tutto il corpo, accanto allo scomodo giaciglio.
- Di’ al cuoco … - mormorò, Eìos, senza muovere un muscolo, neanche per sollevare le palpebre, - … che ho sentito profumi più invitanti provenire dal trogolo di un porcile! –
- Come siamo spiritosi già di primo mattino! Deduco, bastardo, che la notte trascorsa in cella ti abbia portato ristoro. – ironizzò, - Però adesso è ora di alzarti! – ordinò, battendo la punta di un randello nel palmo della mano, con un palese intento minaccioso.
Eìos non si mosse.
- Alzati! – insistette, alzando la voce e colpendo vigorosamente le assi del tavolaccio ad un palmo dal viso di lui.
Eìos strizzò impercettibilmente gli occhi, per il fragore improvviso del colpo vibrato e per lo scricchiolio del legno, ma perseverò nella sua immobilità indisponente.
- Hai visite! – continuò il soldato, cambiando tono, come se avesse deciso di adoperare con lui un’altra tattica.
Solo in quell’istante Eìos, percepì, nel buio della detenzione, uno spiraglio di salvezza e si mosse d’istinto.
Fece leva sugli addominali per tirar su il busto, indolenzito dalla durezza del legno; rimase seduto, con le ginocchia piegate, per qualche istante, così che il corpo tutto riprendesse vigore; poi poggiò a terra i piedi, facendo leva sulle cosce, si rizzò e mosse un passo al seguito del soldato che lo precedeva verso l’uscita.
- Non capita spesso che un prigioniero riceva visite … sei un uomo fortunato, bastardo! – lo punzecchiò ancora.
A quell’ennesimo insulto, la rabbia fluì rapida, attraverso il fiume in piena del suo sangue caldo, gli annebbiò la mente e lo armò di una forza improvvisa e insana. Con un movimento felino, alzò le braccia, ancora unite per i polsi dai vincoli, circondò il collo del soldato e gli serrò la gola.
- Anche tu sei un uomo fortunato, soldato. – sibilò al suo orecchio, il proprio petto aderente alla schiena dell’altro, ed il muscolo dell’avambraccio gonfio e teso, a stringergli la trachea, - Per questa volta! Ma se mi chiami ancora bastardo … giuro che ti ammazzo! – lo minacciò, con gli occhi intimidatori, puntati in quelli della seconda guardia, che era rimasta imbambolata sull’uscio della cella.
Il soldato annuì, esalò un rantolo, riempiendo i polmoni dell’aria che gli era mancata; Eìos allentò la stretta, gli liberò il collo e, scansandone il corpo, piegato in due sulle ginocchia, lo precedette verso l’uscita.
- E adesso muoviti! – gli ordinò di schiena, le spalle dritte ed il petto gonfio e rinvigorito, - Ho visite! – lo citò, ravvivandosi i capelli con una mano, mentre l’altra, vincolata, ne assecondava i movimenti.
Scesero dal torrione, nel quale era situata la sua cella, attraverso un’angusta scala a chiocciola, in fila indiana: egli al centro e le due guardie una a precederlo, l’altra a seguirlo. Lo spazio era largo appena un’ottantina di centimetri, le spalle di Eìos strisciavano lungo le pareti di pietra viva e ruvida e la pedata dei gradini era insufficiente a contenere agevolmente la pianta del piede.
Giunsero dopo tre rampe, ad un pianerottolo che conduceva, attraverso un corridoio, ad una porta chiusa.
A giudicare dalla luce che filtrava dalle feritoie nella parete, doveva essere giorno inoltrato, perché raggi di sole, forti e caldi, illuminavano a tratti il percorso, come torce naturali.
Il soldato che lo precedeva sistemò il fucile sulla spalla e spalancò la porta; l’altro con il calcio del proprio, spintonò Eìos, sbilanciandolo e costringendolo a varcare la soglia. Quando fu dentro, udì distintamente il cigolio del ferro nel chiavistello.
Una luce abbagliante inondava la stanza, ferendo i suoi occhi assuefatti alle ore di semioscurità della cella; tanto che egli li schermò, portando entrambe le mani incrociate sul viso e strizzando leggermente le palpebre.
Di fronte a lui, davanti alla finestra dai vetri sporchi di polvere e schizzi di mare, una figura immersa nella luce, gli rivolgeva le spalle. Indossava un mantello blu, come il mare di notte e un cappuccio.
Si voltò e la luce nella stanza si moltiplicò all’infinito, come in un gioco di specchi riflettenti.
Eìos rimase immobile, come se i contorni sfocati della figura che aveva dinnanzi fossero usciti dal sogno della notte precedente; come se il suo desiderio di trovarsi di fronte la sua sposa si fosse fatto carne, per accontentarlo. Poi occhi e cuore si convinsero che ella fosse vera, affidandosi al profumo di acqua e rose che diffondeva nella piccola stanza, e la mente si riebbe, destata dal sogno.
- Non dovresti essere qui. – le disse. Non avrebbe voluto che entrasse lì, in quel luogo marcio, di assassini e truffatori, di ladri e ubriaconi, quasi la purezza e il candore della sua anima potesse sporcarsi, come l’orlo delle vesti quando si cammina nel fango.
- Non dovrei? – chiese di rimando, con un tono deliziosamente malizioso.
- Non è, questo, posto per te! – insistette, smorzando l’entusiasmo che le rendeva splendente il viso. – Ma sono felice che tu sia venuta! – abbozzò il suo sorriso avvolgente che, presto, si confuse in una smorfia di dolore per il taglio sul labbro che tirava.
Ariela sorrise a sua volta, di un sorriso pieno e contagioso, e gli corse incontro in un fruscio di vesti e di respiri.
- Sono sporco … – l’avvertì, mentre i loro corpi si avvicinavano.
Ariela scosse il capo perché non le importava e posò la guancia sul petto increspato di lui, come una bimba che cerca riparo e rassicurazione.
- … e sudato … - insistette, le braccia legate tra loro, lungo il busto, ultima barriera all’incontro completo dei loro corpi.
- Stringimi. – gli sussurrò, esattamente come nel sogno, e le difese di lui caddero, come le ultime foglie sugli alberi d’autunno.
Eìos compì un passo indietro, tanto da lasciarla sbilanciata e interdetta; mantenendole lo sguardo fisso sul viso, alzò le braccia, facendo passare il capo di lei nel semicerchio tra esse e il suo petto; con gli avambracci, le sfiorò le spalle, poi le braccia, in una carezza lunga e sensuale; giunse alla vita e l’avvolse in una stretta forte e confortante.
- Ero così in pena! Tuo padre … -
- Zitta! – la interruppe, il viso tra i capelli di lei, le labbra sul collo e le braccia a serrarle il respiro, - … e stringimi! – ripeté, con la voce roca e bassa, come in una preghiera.
Ariela strinse: le braccia intorno al busto, le mani aggrappate alla stoffa della camicia, il viso sul petto in subbuglio al pari del proprio.
Rimasero così qualche istante eterno, l’una dentro l’altro, a ritemprasi dell’assenza reciproca, delle ore trascorse nella miseria della solitudine, della pena di sapersi distanti e l’uno senza la cura dell’altro.
Eìos le baciò la pelle del collo profumata, sottile come seta purissima; Ariela, con la punta del naso, frugò tra gli squarci della stoffa della camicia, a cercare la pelle, sfiorò, con le labbra schiuse, lo sterno e i fasci di muscoli tesi che irradiavano il petto, esplorandone la consistenza e la forza che tanto le erano mancate, finché non alzò il viso, implorando con gli occhi un bacio.
Eìos strinse ancora di più le braccia intorno alla vita sottile della sua donna e le riempì il viso di piccoli baci e di carezze, con le guance spinose e calde, fino a giungere alle labbra rosse e schiuse che lo attendevano.
Fu un bacio dolce e passionale insieme, di rassicurazione e di ricerca, di impazienza e appagamento, carnale come un amplesso e placido come quello degli amanti che posseggono l’eternità per baciarsi ancora.
- Dobbiamo parlare, Eìos, non abbiamo molto tempo! – si riscosse Ariela alla fine di quel viaggio l’uno dentro l’altra, colta dall’urgenza di spiegare i fatti. – Il dottor Elmisk sta cercando un buon legale che ti scagioni dal reato di cui ti accusano. Egli crede che qualcuno abbia costruito false prove col preciso intento di farti incarcerare. – gli raccontò d’un fiato.
- Un complotto? – farfugliò, torturandole il collo con le labbra. - E’ un ipotesi che io stesso avevo vagliato: la mia nave entrò nel porto senza merci illegali, dunque questa accusa non può essere che una montatura! – convenne.
- Non è tutto … Egli teme che colui che ha ordito questa trama, possegga danaro e conoscenze tali da inficiare il processo e corrompere giudici e avvocati. E, per tal motivo, ne cerca uno fuori città. – concluse.
- Nutre dei sospetti, forse? – chiese, tra un bacio sullo zigomo e uno sulla guancia.
- La signora Leria, o Miran, o entrambi … - accennò, preparandosi a rivelare ciò di cui egli era ancora all’oscuro.
- La signora … - sottolineò l’appellativo con una smorfia denigratoria, - … mi detesta dal giorno in cui misi piede alla tenuta, prima ancora di sapere che possedevo lo stesso sangue di Esem. La rivelazione della relazione con Nubia e il ricatto subito, possono aver esacerbato l’odio e il disprezzo nei miei confronti, fino a farle cercare vendetta. – rifletté, la fronte corrucciata e le labbra arricciate in una smorfia pensierosa.
– Ma non Miran! Lo conosco fin da ragazzino: troppo onesto, troppo leale per muovere i fili di un tale teatrino. – concluse, certo della correttezza del fratello, - A meno … della scoperta della verità! - aggiunse, staccandosi leggermente dal viso di lei, per guardarla negli occhi. In essi trovò la conferma di ciò che sapeva che prima o poi sarebbe accaduto e trasalì.
Non era uno sciocco, sapeva che la verità è una pianta tenace, silenziosa, nel buio della terra, mette radici solide, fino a che le sue foglie cercano la luce.
- Quando, come? – si affrettò a chiedere.
- Non conosco i dettagli, so solo che qualche giorno addietro, egli giunse alla casa sulla spiaggia, folle come un’anima dannata, cercando di te … -
- Ti minacciò? - la interruppe, livido.
Ariela scosse il capo, abbozzò un sorriso, per dare maggior credito al suo diniego, ma Eìos non le credette.
- Ariela? – la richiamò, insistente.
- Non me … - lo rassicurò, - Portava alla cintola dei calzoni una rivoltella; disse che ti avrebbe ucciso per le menzogne e gli inganni che avevi ordito. –
Eìos espirò lentamente, come se l’aria nei polmoni incamerata a piccole dosi, potesse infondergli la calma e la lucidità che aveva perduto all’immagine di suo fratello folle di rabbia e alla tranquillità violata della sua casa.
- Questo avvalora la mia tesi: Miran mi vuole morto e vuole essere egli stesso a spargere il mio sangue … Non avrebbe avuto senso farmi rinchiudere, privandosi così dell’opportunità di ottenere soddisfazione! –
- Non rimane che Leria, dunque … - concluse, forse più preoccupata di quell’eventualità, che dell’altra.
- Già! – sospirò, - Ma questo non rende più facile la mia condizione. Se davvero ella è la burattinaia che regge i fili … non si darà per vinta fino a che i topi non balleranno sulla mia carcassa! –
- No … - fece per dire Ariela, inorridita a quell’immagine macabra e dolorosa, ma la porta alle spalle di Eìos si spalancò, cigolando sui cardini arrugginiti, e uno dei soldati entrò sbraitando, come un profanatore nel tempio.
- Il vostro tempo è scaduto! – annunciò.
Eìos le baciò le guance che bruciavano di sale e serrò la stretta come se temesse che quella fosse la sua ultima occasione per toccarla.
- Ti amo! – sussurrò, con le labbra sulla bocca di lei, cercando di infondere, in lei e anche in sé stesso, la saldezza d’animo di cui entrambi abbisognavano. – Ti amo … - ripeté, mentre faceva sfilare il corpo di lei, racchiuso tra le sua braccia, e compiva un passo indietro, lasciandola sola, infreddolita e sbilanciata.
- Anche io, Eìos … più della mia vita! – disse, passando il dorso della mano sulle gote arrossate e lucide di pianto, - Ti prego, attendi la notte in cui la luce della stella di Orione ricongiungerà i nostri cammini! –
Il soldato lo strattonò un paio di volte con sempre più energia, costringendolo a seguirlo, ma Eìos non sì voltò: camminò a ritroso fino all’uscio spalancato, continuando a guardarla e intessendo tra i propri occhi e quelli di lei una  trama di legacci invisibili, come il ragno la sua tela argentea, finissima, eppur resistente.

  
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