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Autore: beagle26    10/10/2014    6 recensioni
Elena: occhi sinceri, energia positiva e un’osservatrice acuta. Ha un passato complicato che ha cercato di affrontare e elaborare a modo suo.
Damon: esuberante, spiritoso, e' cresciuto all'ombra del fratello minore, più remissivo, ma in fondo non gli ha mai invidiato niente... Eccetto Elena.
Elena saprà leggere negli occhi di Damon ma avrà paura di guardarli troppo a fondo.
Damon si avvicinerà a lei, ma questo comporterà un confronto con sé stesso che forse non è pronto ad affrontare.
Due anime solitarie per motivi diversi, attratte una verso l'altra da un'intesa profonda che se da una parte li unisce, dall'altra li porta a respingersi.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Stefan Salvatore | Coppie: Damon/Elena, Elena/Stefan
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 17 – SENZA UN FINALE CHE FACCIA MALE…
 
Stringimi madre
ho molto peccato
ma la vita è un suicidio
l'amore un rogo
e voglio un pensiero superficiale
che renda la pelle splendida
 
senza un finale che faccia male
coi cuori sporchi
e le mani lavate
a salvarmi
vieni a salvarmi
salvami
bacia il colpevole
se dice la verità
 
Passo le notti
nero e cristallo
a sceglier le carte
che giocherei
a maledire certe domande
che forse era meglio
non farsi mai…
 
Voglio una pelle splendida – Afterhours
 
 
 
Elena
 
“…morale della favola, pare che Stacy avesse una mezza tresca con l’assistente del professor Williams che…”
 
Care, seduta sulla seggiola a fianco al mio letto, continua imperterrita a snocciolare una raffica di notizie scottanti dal campus, sgranando gli occhioni blu e muovendo le mani in aria per sottolineare meglio i concetti.
Annuisco, perdendomi per l’ennesima volta fra i mille fiori colorati che punteggiano il suo vestito.
Desidero farlo, ma non riesco a concentrarmi sulle sue parole, né su nient’altro.
Con la scusa di stiracchiarmi, mi metto più comoda fra i cuscini e getto un’occhiata svelta fuori dalla finestra, lì dove i palazzi si rubano il respiro. Il sole sta per scomparire dietro di loro come tutte le sere, lasciando filtrare qualche raggio a colpire queste lenzuola candide e ruvide a cui non farò mai l’abitudine.
Qui dentro è tutto così soffocante, così ripetitivo. Non credo di riuscire a sopportarlo un secondo di più e allo stesso tempo, ho una paura terribile di tornare alla mia vecchia vita.
La mia casa, i libri da studiare, il lavoro a Haight-Ashbury, i soliti clienti i discorsi di ogni giorno che non cambiano mai. Un tempo amavo tutto questo, mi ci rifugiavo.
 
Ma questo era prima.
 
“…ecco spiegato il motivo del suo voto così alto in statistica. Non me lo dire Elena, so cosa pensi. Sono una vipera che non conosce il significato di solidarietà femminile. Ma aspetta… ti ho già detto di Tyler che…”
 
Vengo investita da una nuova ondata di discorsi che mi sembrano appartenere ad un altro pianeta. Mi mordo il labbro, sforzandomi di ascoltare e di tenere a bada i miei pensieri sempre in corsa verso altre direzioni.
Ci provo con tutta me stessa, cerco davvero di focalizzarmi su Tyler, Stacy o qualsiasi altra sciocchezza possa essere accaduta durante la mia breve assenza, ma per l’ennesima volta le parole di Caroline sbiadiscono nella confusione della mia mente. L’unica cosa che vorrei davvero è scoppiare a piangere fra le sue braccia.
Invece mi sforzo di stare qui, di sorridere, di apparire interessata, di rispondere che è tutto ok e che sono felice di essermi ripresa dall’incidente. A parte il braccio ancora malandato, qualche punto e un paio di cicatrici, pare che io sia più o meno quella di prima, almeno fisicamente parlando. Sono davvero, davvero fortunata. Devo esserne contenta.
 
La verità è che mi sto aggrappando ai cocci della vecchia me.
L’Elena forte, la ragazzina cresciuta in fretta che affrontava a testa alta la propria vita costellata di mancanze, che non doveva chiedere nulla e non dipendeva da nessuno.
Cerco di farmi forza ricordandomi di quando ero padrona delle mie scelte e del mio cuore, a dispetto di tutto.
 
Ma questo, anche questo, tutto di me era prima.
I medici hanno sbagliato diagnosi. Non sarò mai più la stessa.
 
“Sei d’accordo con me Elena?”
 
“… o-ovviamente.”
 
Care stringe gli occhi, scuotendo i boccoli biondi con affettuosa disapprovazione.
 
“Mi fa piacere, dato che mi hai appena confermato che questo vestito mi fa sembrare una mucca.”
 
Incrocia le braccia sul petto, fa una smorfia irritata che in altre occasioni avrei trovato esilarante. Mi ha beccata.
 
“Oh, no… certo che no. Scusami è che…”
 
“..non mi stavi ascoltando.” conclude.
 
Non è necessario che io ribatta. A che servirebbe giustificarmi con Caroline Forbes?
Mortificata, abbasso gli occhi sulle mie mani raccolte in grembo, consapevole del fatto che la mia amica, a modo suo, si sta facendo in quattro per aiutarmi.
Non si merita la mia indifferenza e i miei sorrisi di circostanza, è già stata fin troppo comprensiva.
Solo quando, dopo un momento di silenzio, la sua mano si sovrappone alla mia, quella ancora buona, sfiorandola in una carezza amichevole e premurosa, riesco a sollevare di nuovo gli occhi nei suoi.
Sembrano imploranti. Preoccupati.
 
“Perché non me ne parli Elena?”
 
“L’ho già fatto.” rispondo piccata, tornando subito sulla difensiva.
 
“Non è del tutto esatto” mi interrompe, puntandomi contro un indice accusatorio che mi fa  sussultare lievemente, “ti sei limitata a riportarmi con quattro parole in croce ciò che Damon ti ha detto. Che ha fatto una stronzata, che è stato denunciato, che ha tutte le carte in regola per tornare ai servizi sociali a vita o peggio. E che… ha deciso di lasciarti.”
 
Sposto nuovamente lo sguardo fuori dalla finestra, deglutendo per ricacciare indietro il nodo che mi stringe la gola. Mi sembra che alla lista di Care non manchi proprio nulla. Mi sembra di sentire di nuovo quelle parole fredde graffiarmi dentro, ferirmi nello stesso punto in cui il bisogno di lui mi ha consumata per mesi.
 
“Si Care, più o meno è andata così.”
 
 
“Adesso mi dirai che è tutto uno scherzo. Mi dirai che non l’hai fatto veramente Damon. Che non sei caduto nella provocazione di Klaus un’altra volta.”
 
Stringo con la poca forza che ho il bordo delle lenzuola, aspettando ansiosa la sua risposta, sentendomi terribilmente bambina nell’ascoltare la mia voce che si incrina sul finale.
Posso notare i suoi occhi indurirsi, poi dilatarsi fino a diventare rapidamente freddi come due schegge di ghiaccio. Quel suo sguardo, capace di farmi provare tutto, questa volta mi rompe in mille pezzi.
 
Dunque era questo quello che doveva dirmi.
Quello per cui mi sono svegliata dall’oblio.
Dopo il lungo viaggio per diventare consapevole di me stessa e di quello che provavo – che provo – per Damon.
Dopo i sensi di colpa, le verità, la rabbia di Stefan e il suo perdono.
Dopo aver rischiato tutto, perso tutto.
Dopo essermi illusa che avremmo potuto iniziare il nostro percorso insieme.
 
Doveva dirmi semplicemente che se ne andrà.
 
“Mi dispiace deluderti Elena, l’avrei voluto fare eccome.”
 
Lo dice con soddisfazione, come se contraddirmi gli provocasse un sottile piacere. Come se provasse gusto a dimostrami con i fatti che è esattamente la persona che l’ho appena scongiurato di non essere.  
 
“Ero arrabbiato con me stesso, con l’intero universo per quello che ti era successo… e lui era lì, ha detto quelle cose…”
 
“Ma NON l’hai fatto.”
 
Cerco di mettere nella mia voce ancora debole una nota più impositiva. La sua improvvisa virata d’umore, per quanto giustificata dalla situazione che sta vivendo, mi sta spiazzando.
 
“Ci è mancato tanto così” continua, sempre più indifferente, mentre sul suo viso si smezzano ironia, rabbia, rassegnazione.
 
“Deve pur esserci una soluzione...”
 
Sorridergli mi costa fatica, ma lo faccio con tutta la convinzione possibile, fingendo di non notare quelle sue occhiaie pesanti. Allungo la mano a stringere la sua. Lui osserva i miei movimenti con prudenza e distacco.
In quel momento realizzo che è tutto inutile. Damon è già troppo lontano perché possa raggiungerlo.
 
“Permettimi di aiutarti. Tu… non hai fatto niente di male. Troveremo il modo di dimostrarlo.” lo incoraggio, riempiendo quelle parole di fermezza e convinzione in un ultimo, estremo tentativo di riportarlo a me.
Più lo guardo più sono felice che lui sia qui. Del resto non mi importa.
La sua espressione si addolcisce appena, si carica di un’amarezza che mi pugnala una volta ancora.
 
“Sei sempre così fiduciosa tu… ma ti ostini a non capire. Ci ho provato Elena, ma è palese. Non posso liberarmi del mio passato. Non posso cambiare. Anzi, sai una cosa? Forse non voglio farlo.”
 
Il suo viso è teso, gli occhi spalancati e vuoti sono attraversati da un breve lampo di smarrimento. Allarga le braccia rassegnato, come se avesse appena detto la cosa più ovvia di questo mondo.
 
“Maledizione Elena, guardati. Guarda come sei ridotta. Sono stato io a farti questo e non ho certo intenzione di fare peggio di così. Non vado bene per te, mettitelo in testa. E non ho intenzione di passare la vita a interpretare il ruolo dell’uomo che non è degno di te.”
 
Indica il letto su cui sono distesa con un gesto rabbioso, la voce carica di irritazione, gli occhi sbarrati che mi spaventano. Per qualche istante tra noi cala un silenzio spezzato solo dal suono ripetuto dei dannati macchinari che sembrano volergli dar ragione.
Mi sfugge un sospiro. Non riesco a capirlo.
E anche se lui per me è sempre stato interrogativi, incertezza, mettersi in gioco… stavolta è molto diverso. Oggi, per la prima volta, sento che non è con me, come se fosse dominato da qualcosa di più forte.
Riesco a percepire fisicamente la distanza che vuole mettere fra di noi.
E per la prima volta sento che si è arreso.
 
“Perché mi stai facendo questo?”
 
Riesco a dire solo questo, continuando a scuotere la testa, confusa.
 
“Perché non ho intenzione di trascinarti in quest’altro casino. Tu… meriti una vita perfetta e se c’è una cosa che ho intenzione di fare è permetterti di averla.”
 
 
“Più o meno è così che è andata.” concludo, soffermandomi sulla faccia allibita della mia amica che, contrariamente al solito, ha ascoltato il mio racconto senza mai interrompermi.
Così mi ha lasciato tempo e modo di immergermi con la mente nel mio ultimo, doloroso incontro con Damon.
 
E adesso mi sembra quasi di poterlo sentir bruciare ancora, il bacio vigliacco sulla fronte che mi ha lasciato prima di andarsene, raccomandandomi di prendermi cura di me stessa, svuotandomi di colpo del senso di sicurezza che ho provato quando l’ho visto comparire sulla porta della mia stanza d’ospedale dopo averlo aspettato tutto il giorno.
 
Perché sentivo che era stato lui a risvegliarmi. Dal coma, quello fisico e quello in cui mi ero imposta di addormentare i miei sentimenti.
È stato allora che l’ho fatto. Gli ho urlato di andarsene e lui, semplicemente, ha fatto ciò che gli ho chiesto di fare, lasciandomi ad osservare per ore lo spazio vuoto sul mio letto che prima era occupato da lui.
 
E ora sono delusa. Mi sento abbandonata, e fragile.
Damon è la dannata variabile che non so gestire da quando è entrato nella mia vita senza chiedere il permesso. E adesso che se ne è andato allo stesso modo, mi sento totalmente impreparata ad affrontare perfino la sua assenza. È strano, visto quanto poco tempo è rimasto.
 
“Ora che sai tutto, cosa ne pensi?” chiedo a Care, quasi intimidita.
 
“Non sono sicura che tu voglia davvero conoscere il mio parere Elena.”
 
“Penso di farcela. Voglio dire, ho superato un coma e non ultimo il tuo racconto dettagliato di come hai addobbato la casa delle Kappa Alpha Theta[1] per l’ultimo party della sorellanza…”
 
Le faccio un occhiolino, sforzandomi di recuperare la mia ironia rimasta sepolta sotto il cuscino, assieme alle lacrime silenziose versate in queste notti, sopite soltanto da quel briciolo di pudore che mi ha impedito di sfogarmi con lei, o chiunque altro.
 
“Ok, l’hai voluto tu. Damon è un egoista senza speranza Elena, incapace del minimo autocontrollo. Ti ha lasciata sola proprio quando avevi più bisogno di lui, si è messo nei casini un’altra volta fregandosene di te. E tu dovresti odiarlo per questo.” sentenzia lei, riversandomi addosso l’ennesimo fiume di parole.
 
Odiare Damon.
Lo vorrei veramente, e forse l’ho fatto davvero. O almeno, ci ho provato.
Ci ho provato quando l’ho visto uscire da quella porta, l’ho fatto per tutto il tempo in cui,  inutilmente, ho sperato che cambiasse idea e ritornasse da me, illudendomi che avrebbe trovato una soluzione per restarmi accanto.
Avrei dovuto sapere fin da subito che è troppo testardo e orgoglioso per farlo.
 
È davvero un egoista e io dovrei odiarlo davvero, non continuare a chiedermi dov’è, preoccuparmi di come stia affrontando tutti suoi fantasmi da solo per l’ennesima volta.
Ma allora perché ho sempre l’impressione di non avergli detto niente di quello che avrei potuto dire, di non aver fatto nulla di quello che avrei potuto fare?
Scuoto la testa, scaccio quell’idea.
Per un attimo vaglio l’eventualità di ricominciare daccapo, di liberarmi di lui come mi ha chiesto di fare. Non voglio, non posso.
 
“Vorrei solo sapere che sta bene…” mi sfugge.
 
“È da Ric… e poi domani…”
 
La mia amica si interrompe, abbassa lo sguardo. È impossibile per me non notare il suo imbarazzo.
 
“Domani?” la incalzo.
 
“N… niente.”
 
“COSA?” ripeto, scossa da una rabbia improvvisa, mentre il cuore corre troppo forte per ignorarlo.
 
“Che succederà domani?” la sprono, scrutando il suo viso che arrossisce di colpo. “Dimmelo Care.”
 
 
Damon
 
…This is what you get when you mess with us…[2]
 
Alzo il volume al massimo, fino a far penetrare quei suoni dritti nel cervello. Questo perché Ric non mi permette di fare troppo rumore in casa sua, e per non abusare troppo della sua ospitalità, ho dovuto rinunciare allo stereo a favore delle mie vecchie cuffiette.
Forse dovrei arrendermi al fatto che, come dicono spesso, il suono della musica non è sufficiente a coprire quello dei pensieri.
Sto diventando un melodrammatico del cazzo, non c’è che dire.
 
Le lancette dell’orologio stanno per segnare l’inizio di una nuova ora.
Il tempo mi sembra scorrere a volte troppo veloce, a volte troppo lento.
Presto sarà domani e domani è il giorno dell’udienza che deciderà il mio prossimo futuro.
Il giorno in cui il fatto che ho mandato a puttane la mia vita per l’ennesima volta sarà scritto pure su un pezzo di carta, nel caso qualcuno avesse dubbi in proposito.
 
Liz ha parlato chiaro. Ha fatto il possibile ma non ho margini per cavarmela.
Klaus ha addirittura dei testimoni, qualcuno che ci ha visti discutere animatamente fuori dall’ospedale, il giorno che Elena è stata ricoverata, pronto a provare che sono un soggetto recidivo e terribilmente pericoloso.
La notizia non mi ha sorpreso né sconvolto più di tanto: del resto è inutile trascorrere una vita che è un completo casino rimandando l’inevitabile.
Forse non mi andrà poi tanto male.
Il peggio in fin dei conti è già passato.
 
È già passata la delusione negli occhi di Stefan, è già pronto il discorso che farò a mia madre su un’improbabile offerta di lavoro lontano dalla Bagdad della Baia[3].
 
E forse, prima o dopo passerà anche Elena.
Quel suo ultimo sguardo nudo e indifeso a cui forse avrei dovuto rispondere con qualcosa di più degno di lei rispetto ad un silenzio.
Ho desiderato allontanarla, respingerla, addirittura ferirla. E poi tutto il contrario.
Ho smesso di guardarla, lei è scivolata via da me. Mi sono lasciato quella stanza dietro alle spalle per desiderare un istante dopo di tornare da lei, dirle tutto il contrario di quello che le ho detto, andarmene con lei, lontano, ovunque, lottare per quell’amore pulito, giusto, che in fin dei conti non sono mai stato in grado di offrirle.
Invece no. Ho pensato che una bella mossa da stronzo fosse la maniera più adeguata – e indolore – di congedarmi da lei.
 
E allora va bene così. Me lo sono detto più volte mentre dentro dispiacere e delusione continuavano a mescolarsi insieme.
 
Mi alzo dal letto sul quale ho trascorso le ultime ore fissando il soffitto.
L’aria è soffocante, impregnata di un aroma dolciastro proveniente dalla cucina del ristorante di Ric, proprio qui sotto, e dalle bancarelle degli ambulanti. C’è il rumore delle chiacchiere degli ospiti, che sale piano fin quassù, fuso insieme ai suoni della baia affollata come sempre, piena di una vita di cui per un po’ mi sono illuso di poter far parte.
Si fotta anche tutta questa gente, non ho intenzione di stare qui a commiserarmi.
 
Ci sono momenti però, in cui a molte cose non si fa caso.
Piccolezze che ora sembrano emergere in tutta la loro importanza, annullate dal dannato momento in cui prende il sopravvento l’impulsività.
Quell’attimo maledetto, lo stesso che domani mi taglierà fuori un’altra volta.
 
Apro un armadietto, verso in un bicchiere quel poco che rimane di una bottiglia di bourbon che io e Ric ci siamo smezzati, uno a fianco all’altro, consapevoli del fatto che non ci fosse un modo migliore per salutarci.
 
“Allora sei ancora vivo. Non ti sei fatto vedere per tutto il giorno.”
 
La sua voce mi arriva alle spalle con un tono lievemente irritato.
 
“Sei venuto a portarmi le arance? Sai, come si fa con i carcerati…”
 
“Spiritoso. Sono solo venuto a controllare se per caso hai recuperato le palle che evidentemente hai perso da qualche parte.”
 
Mi volto verso di lui appena il necessario per intercettare il suo sguardo ironico mentre mi osserva appoggiato allo stipite della porta, le braccia incrociate sul solito grembiule logoro e macchiato, una lieve alzata di spalle con cui sembra voler dire “Che c’è? Ti aspettavi forse qualcos’altro?”.
 
“Dici così solo perché ti mancherò. Ti rimane solo Enzo… non so chi sia messo peggio fra noi due.” ironizzo, sollevando solo un angolo delle labbra in un mezzo ghigno.
 
“Non hai nemmeno provato a difenderti. Non ti sei neanche trovato un avvocato.” continua lui, deciso a raggiungere il suo obbiettivo senza lasciarsi distrarre dai miei tentativi di portare il discorso su terreni meno accidentati.
 
“Va benissimo quello d’ufficio. In fondo col tuo stipendio non avrei potuto permettermi molto di meglio.”
 
Lo vedo alzare li occhi al cielo, scuotere la testa e finalmente cedere a una mezza risata soffocata alla quale mi unisco anch’io.
 
“Almeno hai parlato con lei?”
 
“Beh, Ric. Ora mi sorprendi. Non mi sembra che tu sia mai stato un accanito sostenitore della nostra coppia…”
 
“Questo è vero. Ma poi finisci per renderti conto che certe cose sono inevitabili. Credo di essermi convinto anche io che lei sia la cosa migliore che ti sia capitata. E tu la stai gettando via senza combattere.”
 
Non mi lascia il tempo di replicare, né di tirar fuori qualche altra battuta pungente per sviare il discorso. Semplicemente si volta e se ne va. Rimango a fissare la porta per qualche secondo, poi mi getto di nuovo sul letto.
Le parole di Ric si depositano dentro di me, mentre immagino Elena al riparo nei confini ben tracciati della sua vecchia vita, quella di cui io non facevo parte ma che sembra così giusta per lei. Il solo pensiero mi riempie di frustrazione.
 
Dovresti sentirtelo dire.
 
Quelle tre parole mi martellano i pensieri, offuscano le mie ragioni. Avrei voluto più di ogni altra cosa che Elena ne conoscesse il significato, fino a quando ho realizzato quanto questo avrebbe rappresentato un atto di egocentrismo estremo, troppo grande perfino per me.
In quel momento è stato facile dirle addio, sfogare la mia tensione su di lei, archiviare con la rabbia tutto quello che c’è stato. Farlo davvero è tutt’altra cosa.
Ma qualche volta, bisogna avere il coraggio di andarsene. Il coraggio che mi è sempre mancato prima di oggi.
 
 
“Speravo di trovarti qui. Bonnie, la tua collega, mi ha detto che non eri di turno stasera, così sono andato a cercarti da Joe ma nemmeno lui ti aveva vista e…”
 
“C’è qualcosa che non va Damon?”
 
Lei mi guarda da in cima alle scale, le chiavi strette in una mano, mentre l’altra, quella libera, si aggrappa al bordo della borsa.
Percorro la sua figura da capo a piedi, mi soffermo in quegli occhi grandi, attenti, nei quali mi sembra di poter leggere un’irrequietezza trattenuta a stento.
Forse voglio solo illudermi che sia così, mentre scivolo un po’ più giù, intravvedendo le curve del suo corpo nascoste sotto la corta giacca che indossa, le gambe lunghe fasciate in un paio di  jeans un più stretti del solito, che non mi dispiace affatto vederle addosso.
Deve essere stata fuori, a una festa o qualcosa del genere.
Perché il pensiero mi annebbia la mente? E perché quel suo interesse per un ipotetico e fin troppo realistico “qualcosa che non va” mi fa sentire esposto, vulnerabile e tremendamente bisognoso?
 
“Tutto e niente, Elena. È che ho avuto una giornata da schifo e non so. Avevo voglia di vederti. Però se vuoi me ne vado.”
 
La consapevolezza di non aver usato propriamente le parole più adatte per quella che è la donna di mio fratello, mi raggiunge quando ormai è troppo tardi.
Ma è la sua risposta quella che mi sbalordisce più di tutto.
 
“Mi fa piacere che tu sia qui. Sali.”
 
Un attimo dopo mi rivolge le spalle, trafficando con le chiavi per aprire il portone.
Riesco a scorgere solo il profilo del suo viso, le mani che si agitano, le chiavi che cadono a terra per essere raccolte un secondo dopo.
Un secondo che mi sarebbe sufficiente per andare via se solo lo volessi.
Ma la verità è che non voglio farlo, dannazione, no.
Non ho neanche il tempo di collegare pensiero e azione, che sono già in cima alle scale, alle sue spalle.
Tutto ciò che sento è il soffio del suo respiro. Piego il viso un po’ più verso di lei, sentendomi sempre più in bilico tra un gesto di troppo e il suo contrario.
Riesco a vedere con l’angolo dell’occhio le sue labbra che si schiudono.
Ho come l’impressione che Elena si trovi in equilibrio precario su un baratro, esattamente come me.
 
 
Tengo il cellulare stretto fra le dita, continuando a fissare lo schermo illuminato nella penombra della stanza e componendo nella mente frasi di circostanza, tipo “cerca di stare bene” che mi sembrano una più patetica dell’altra.
Un rumore di passi mi sorprende alle spalle. Tengo gli occhi fissi sul soffitto della stanza, soffio via un respiro infastidito.
 
“Se sei venuto per un'altra ramanzina, spero almeno che tu abbia portato qualcosa da bere…”
 
Il silenzio che segue mi costringe a voltarmi in direzione della porta.
E’ allora che la vedo. Lo stomaco si contrae immediatamente e per la prima volta, non riesco a parlare.
Se ne sta lì, in bilico sulla soglia, sospesa tra dentro e fuori. Le guance appena più scavate, i lineamenti fragili e delicati che l’incidente non è riuscito a rendere meno attraenti.
I suoi occhi sono visibilmente più gonfi e grandi, talmente grandi che rischio di affogarci dentro. Le mani che affondano nervose su un lungo maglione nero che continua ad avvolgersi addosso, come se ci si stesse aggrappando, sotto al quale spunta una t-shirt stropicciata e un po’ troppo trasparente per la mia sanità mentale, con disegnato sopra una specie di panda con tanto di ramo di eucalipto.
 
“Mia madre non ha pensato di portarmi un cambio decente.” si giustifica, seguendo il mio sguardo, piegando leggermente le labbra in un sorriso che non posso impedirmi di trovare adorabile.
 
“Elena… cosa…”
 
“Ho firmato per uscire. Ho saputo di domani e avevo bisogno di vederti Damon… dirti delle cose. Pensavo… beh, non ha importanza quello che pensavo.”
 
Mi fa piacere che tu sia qui.
 
Glielo vorrei dire con tutto me stesso, ma mi sforzo di trattenere dentro di me quell’istinto.
Al contrario, non riesco a frenare le mie stupide gambe che hanno già fatto un passo nella sua direzione.
 
“Hai… fatto un errore. Dovresti essere incazzata a morte con me.”
 
Non riesco ad essere indifferente come vorrei sembrare, quindi per compensare finisce che le urlo contro, stringendo i pugni fino a conficcarmi le unghie nella pelle. Anche la sua espressione muta in qualcosa di diverso da prima, come se una rabbia a lungo trattenuta le salisse al cervello improvvisamente.
 
“Vuoi che lo faccia? Vuoi davvero che me la prenda con te? Ti accontento subito. Hai rovinato tutto. Sei stato impulsivo, e sconsiderato. Mi hai voltato le spalle proprio quando avevo più bisogno. Dovrei odiarti per questo, ma non ce la faccio perché io…”
 
“…non osare dirlo.”
 
“Ti amo.”
 
Silenzio. Un lungo, assordante silenzio reso ancora più palpabile dal ticchettio dell’orologio alla parete che sembra propagarsi fino al centro della mia testa.
La guardo negli occhi, preda di un impulso che non riesco a controllare.
 
“Smetti di farlo!”
 
Sto ancora urlando.
 
“Non ci riesco!”
 
Le sue parole così inaspettate, così disperate, ripescano qualcosa che preme insistente per uscire dal mio petto, qualcosa che vuole a tutti i costi tornare in superficie. L’istinto ancora una volta si sbarazza della mia razionalità quando allungo una mano a sfiorare la pelle soffice e calda della sua guancia. Lei si abbandona a quella carezza, non parla più.
Allunga entrambe le mani sul mio viso, ne sfiora i contorni, intreccia le mani fra i miei capelli senza smettere di guardarmi.
Sto per cedere al bisogno di spingerla contro la porta, baciarla così a fondo da farle dimenticare e dimenticarmi tutti i motivi per cui è sbagliato che lo faccia.
Ma poi, il suono di qualcuno che si schiarisce la voce attira la mia attenzione oltre le sue spalle.
 
Mio fratello è lì, in piedi sulla porta ancora spalancata, a braccia conserte. L’espressione dipinta sul suo viso è piena di imbarazzo e di un qualcosa che non sono in grado di definire.
 
“Stef.” lo saluto, mollando contemporaneamente la presa su Elena, che ora si volta anche lei.
 
Quando poi noto mio padre affacciarsi alla porta, i miei occhi schizzano dall’uno all’altro come biglie impazzite. Ora davvero non ci sto capendo più niente.
 
“Che diavolo ci fai tu qui?”
 
 
 
*********
Piccole note sparse (perché almeno una volta volevo essere accurata):
 
[1] Kappa Alpha Theta è veramente il nome di una sorellanza.
[2 This is what you get when you mess with us: per i non fanatici dei Radiohead, questo è un famosissimo dell’altrettanto famosa “Karma Police”.
[3] Bagdad della Baia: uno dei tanti soprannomi di San Francisco.
 
Buon pomeriggio,
sapete, credo di essermi fatta un’idea del parto dopo questo capitolo che – purtroppo o per fortuna – arriva in gran ritardo ed è il penultimo di questa storia che per me rappresenterà sempre un perfetto equilibrio di gioia e dolore.
Gioia perché mi ha dato molte soddisfazioni e qualche bel momento, dolore per tutte le volte che mi è sfuggita di mano e le molte occasioni in cui mi sono ritrovata a sbattere la testa contro il pc, cozzare con la trama che mi ero prefissata, tutte quelle volte in cui so che avrei potuto fare di meglio.
Insomma, dopo qualche passo falso ci siamo arrivati: il prossimo è l’epilogo. I minipony scalciano a più non posso per essere liberati: voi cosa ne pensate? Devo ascoltarli o lasciarli scalpitare in gabbia per la prossima storia? Un finale che faccia male oppure no? Let me know ^_^
Grazie alle fedelissime ragazze che non mi abbandonano mai e mi sostengono sempre. Love u.
 
Chiara
 
PS PER CHI HA VISTO LA 6X01 (penso tutte…)
Come giustamente ha notato anche Fanny_rimes… io lo avevo detto da tempo che Damon sa fare bene i pancakes!! XD
  
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