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Autore: GretaHorses    12/10/2014    14 recensioni
""Leon ascoltami: non ho detto che devi amare me, devi amare lui!". Indicai tremante il mio ventre. No Vilu, non piangere. Non in quel momento, non davanti a lui. "Non sarei di troppo?". Assunse un'espressione sarcastica e ridacchiò. "Ma cosa stai dicendo? Lui ha bisogno di te". "Ce la può fare benissimo senza di me, un padre ce l'ha già!". Mi urlò contro con una rabbia tale che quasi mi fece paura. "Hai ragione, lui non ha bisogno di te. Diego mi è stato vicino in tutti questi mesi e di certo lo ama più di te che non ci sei mai stato. Amare per te è un optional, giusto? E' sempre stato così, non capirai mai". Decisi di andarmene e mi voltai, non volevo più sentire un'altra parola uscire dalla sua bocca. Erano passati quasi due anni dal nostro ultimo addio, quattro mesi da quella maledetta sera. Ma se non me ne doveva importare più nulla, perché faceva così male?".
Questo è il sequel di "Indovina perché ti odio", vi consiglio di leggere la fanfiction precedente se non l'avete ancora fatto.
Enjoy.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leon, Un po' tutti, Violetta
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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CAPITOLO 6

 

 

 

Cara Violetta,

non comincerei mai una lettera in modo così formale, ma mi hanno insegnato in terza elementare come se ne struttura una perciò inizio così. In verità non saprei neanche quale sia il principio di ciò che sto per scriverti, ormai ho perso le certezze in qualsiasi cosa. Non so più niente. Cercherò di farti capire, sperando che tu ci riesca e che trovi la forza di perdonarmi. Ti ho già detto che sono l'uomo peggiore che possa esistere? Ecco, te lo ripeto. Ero il peggiore un tempo, lo sono e lo sarò ancora. Il fatto è che ci sono momenti in cui mi rifiuto di ragionare e tu lo sai bene, scaccio via ogni pensiero per lasciar spazio all'impulsività. Ha i suoi lati positivi, ma anche quelli negativi. Ho sbagliato e lo ammetto dopo troppo tempo. Avevi ragione tu: il termine della nostra relazione non doveva influire in alcun modo nella vita del bambino, si poteva trovar benissimo un punto d'incontro. Ma io cocciuto ho voluto mettere le questioni personali di fronte al suo bene ed il tutto è andato a suo discapito. Avrei dovuto essere presente e mi spiace per non esserlo stato, ma credimi se ti dico che ho pensato a questa storia in continuazione. Era come un fantasma che mi seguiva ovunque, i sensi di colpa mi torturavano. Forse perché, in quella piccola creatura, mi ci rivedo. Mi sono reso conto che fino ad ora ho assunto lo stesso comportamento di mio padre: l'uomo che ho tanto odiato e che continuo a detestare. Responsabilità. La menata che ti ho rifilato per mesi, ma non era solo quello. Certo, mi spaventa l'idea di avere un figlio, ho paura di fermarmi in questo mondo che corre per stabilirmi. Non sono fatto per le cose statiche, le cose non vanno meglio se resto. Almeno credo. Tu sei diversa, sei migliore in tutto. Le mie lacune sono i tuoi punti di forza: tu sai aspettare, sei in grado di sopportare pesi più grandi di te, sei paziente, estremamente buona pure con chi non se lo merita, emotiva. Non posso essere ciò che sei tu. Sono un freddo, testardo, impaziente, impulsivo calcolatore. Come potresti volere nella tua vita uno come me? Pensavo che se me ne fossi andato saresti stata meglio ed avresti affrontato la cosa in modo migliore grazie alle splendide persone di cui ti circondi. I tuoi messaggi li leggevo, sai? Dal primo all'ultimo. E' solo che mi scrivevi tutte quelle cose e poi quando t'incrociavo in corridoio eri un'altra. Ridevi, scherzavi con altre persone. Cosa significava? Bugie su bugie? Non lo so nemmeno ora. Ti chiederai, dunque, il motivo di questa lettera se dimostro di essere ancora diffidente. Ci rifletto da un po' sinceramente, ho quest'idea abbozzata nella mente da tempo. Ero e sono tutt'ora mentre scrivo indeciso sul dartela, ma cosa mi costa provare? Certo, potresti non perdonarmi, vietarmi di vedere il bimbo, non lo so: ma voglio tentare. Desidero essere un buon padre per Enrique. Sì, ho letto pure l'sms del nome. Se tu me lo permetterai, ovviamente. Non ti biasimo se non vorrai più avere a che fare con me e privarmi di vederlo, rispetterò la tua scelta come è giusto che sia. Vorrei instaurare con te un rapporto quantomeno civile, basta litigi per bambinate. Ora non ha più importanza chi ha torto e chi ha ragione, l'unica cosa che conta è nostro figlio. Wow, suona così strano. Non so se capirai le mie ragioni, non so nemmeno se mi perdonerai. Te l'ho già detto: non so più nulla. Mi conosci bene, sai meglio di chiunque altro che sto facendo uno sforzo enorme per due motivi principali: non ho mai scritto una lettera a mano in vita mia e fatico ad ammettere i miei errori. Quindi, per favore, non darlo per scontato anche se hai tutto il diritto di farne a meno.

Sperando in una tua risposta,

Leon

 

 

Stringo la lettera contro il petto con gli occhi fuori dalle orbite. Ogni tanto rileggo qualche frase per esserne sicura, ma da come parla sembra essere proprio lui. Subito ho pensato ad uno scherzo, ovviamente di pessimo gusto. La calligrafia però è la sua, il modo di esprimersi, i contenuti. Ci sono cose che nessuno sa all'infuori di noi. Un brivido mi attraversa il corpo come fosse una scarica elettrica, è una sensazione strana che non provo da mesi: agitazione. Decido di mettermi seduta nel lettino come se servisse a calmarmi e mi metto a rivedere alcuni passaggi attentamente. Quindi non era solo questione di responsabilità. Si sentiva inadatto a fare il padre, ma soprattutto ad affiancarmi. Come può anche solo concepire che stia meglio senza di lui? Mi sono ridotta ad una figura umana vuota internamente. Tutto va male da quando lui non c'è più, non capisco come possa pensarlo. Forse non lo vede? Probabile, non sbandiero mai nulla ai quattro venti. Improvvisamente arresto i miei ragionamenti sulle motivazioni che lo hanno spinto a rifiutare di crescere il bimbo per pensare alla cosa più strana: cosa ci faceva nel cestino appena fuori dalla stanza delle ecografie? Non è un caso che l'abbia ritrovata proprio in questo momento, rimango col fiato mozzato. Lui è stato qui molto probabilmente, sennò come si spiegherebbe la lettera a nome suo? Sì, però perché l'ha buttata via? Si è forse pentito all'ultimo? Sono talmente tanti interrogativi che sembrano premere contro la scatola cranica. Ho compreso tutto ciò che è scritto, l'unica cosa che mi turba è come ci sia arrivata qua. Potrebbe aver mandato qualcuno, ma lui non è il tipo che fa fare il lavoro sporco agli altri anche se c'è sempre una prima volta. Anche se fosse, non si spiegherebbe la faccenda del cestino. Mi sto preoccupando più di come ci è riuscito che su cosa vi è riportato e sul perdonarlo o meno. La porta si apre facendomi sobbalzare, mi pare quasi di essere stata scoperta con le mani nel sacco. In teoria non avrei dovuto leggerla dato che è stata gettata. “Dove sei stato?”, sbotto contro Diego. Il mio sguardo cade nell'orologio appeso al muro, quasi mezz'ora di ritardo. E per fortuna che ci avrebbe messo meno tempo possibile. “In bagno”, risponde con finta nonchalance. Nasconde qualcosa. “Mmh...in bagno? Devi aver trovato molte persone”. Sul suo viso si estende un sorrisetto alquanto a disagio, ora ne ho la prova. “Sai com'è, siamo nel reparto ginecologia”. Che c'entra? Il fatto che farnetichi è un segno inconfutabile che sta mentendo. Tutto ad un tratto mi osserva allarmato e si avvicina rapidamente, che gli prende? E' inquietante. “Che stai leggendo?”. Ha gli occhi puntati sulla lettera che stringo fra le mani, la levo dal suo campo visivo prima che possa leggervi qualcosa. “Non sono affari che ti riguardano”. “Certo, che mi riguardano”. Allunga il braccio per cercare di afferrarla, ma la nascondo dietro la schiena. “Che vuoi?”, esclamo stizzita dal suo comportamento insistente. “Non voglio permetterti di fare cazzate, ecco cosa voglio!”. Mi blocco. Inarco un sopracciglio e socchiudo le palpebre assumendo uno sguardo inquisitore, alzo l'avambraccio a mezz'aria e pongo una mano fra me e lui. “Tu come fai a saperlo?”. “Ehm...non so, in verità”. Avanzo come una predatrice fa con la sua preda, faccio pressione col palmo contro il suo petto costringendolo ad indietreggiare. “Lo sai benissimo invece. Parla!”, gli grido contro. Adesso è con la schiena contro il muro, spaventato. “Vilu, veramente non...”. “Parli di tua spontanea volontà o vuoi che ti costringa?”. Poggio un pugno sulla sua guancia come per minacciarlo. In realtà non combinerei un bel niente, ma il nervosismo del momento mi porta ad agire in questo modo. “Va bene, ti dirò tutto quello che è successo! Basta che togli la mano dalla mia faccia e mi lasci respirare”. Aspetto alcuni secondi squadrandolo con la mascella serrata, dopodiché mi allontano in modo da lasciar spazio fra noi. “Dimmi”, gli ordino incrociando le braccia sopra il pancione. Si morde il labbro e si gratta la nuca. “Prima promettimi che non ti arrabbierai con me”. Alzo leggermente il capo come per conferire superiorità alla mia figura e rispondo: “Non ti prometto proprio un bel niente, adesso falla finita e parla”. Deglutisce, poi sospira. “In buona fede, posso assicurarti che il mio intento era davvero andare al bagno. Appena uscito, però, ho incontrato Leon che è venuto fin qui per darti, appunto, quella lettera. Ovviamente mi sono infuriato perché trovo ipocrita da parte sua presentarsi dopo sei mesi di schifo con una letterina che neanche i bambini delle elementari, per cui l'ho gettata nel cestino più vicino e l'ho invitato ad andarsene. Ci siamo spostati in modo che dalla sala non si sentisse nulla per discuterne, ha iniziato ad inalberarsi dicendo che voleva vederti e che non desiderava parlare col tuo segretario. Allora giustamente ho ribattuto dicendo che so meglio di lui quello che hai passato in questi mesi a causa sua, di certo non hai bisogno di altri problemi oltre a quelli che già hai. Poi, vabbè, abbiamo litigato finché non se n'è andato e probabilmente è stato meglio così. Credimi, l'ho fatto per il tuo bene”. Rimango attonita il tempo giusto per metabolizzare le parole, forse troppo. Infatti inizia a preoccuparsi della mia reazione, sono muta e col capo chino. Alzo la testa e con molta pacatezza dico: “Tu non puoi sapere cosa è bene per me”. Fa per parlare, ma lo interrompo con un gesto della mano. “Tu non puoi nemmeno sapere cosa è bene per il bimbo. Io ho passato i mesi di schifo, non tu. Certo, sei quello che mi è stato più vicino di tutti e ti sarò sempre debitrice per ciò. Questo però non ti autorizza a prendere decisioni per me, sono stufa che mi diciate cosa devo o non devo fare. Non sono tue, di papà, di Angie: sono mie! Non me ne frega niente di ciò che pensi a riguardo, se credi sia ipocrisia buon per te. Evidentemente non l'hai letta la lettera. E se per te fare una cazzata significa cercare di far riavvicinare mio figlio col suo vero padre, pensalo pure tanto non la cosa non mi tange. Io la madre, lui il padre ed a me le scelte riguardanti la mia vita”. Il suo volto si tinge di rosso dalla rabbia. “Tu non lo fai per Enrique, lo fai per te stessa!”, urla. “Del bambino ti interessa relativamente, a te è sempre interessato solo lui!”. Sono rimasta calma per troppo, se non la pianta esploderò. “E mi fa incazzare il fatto che tu insegua uno che non ha fatto altro che illuderti! Ci hai pensato? E se volesse farlo di nuovo?”. Sta giocando con il fuoco, la parola sbagliata potrebbe farmi scattare. “Perché continui a pendere dalle sue labbra? Non gliene frega di nessuno all'infuori di sé stesso, pensa solo ai suoi interessi. Infondo te l'ha detto anche lui, no? Tutto ciò che avevate per lui non ha avuto importanza!”. Come questo. “Quello che avevamo quando stavamo insieme era vero!”. Il mio grido disumano invade la stanza lasciando Diego stupito e con la bocca semiaperta. “Credi sia egoismo sacrificare il proprio sonno per aiutare la madre? Pensi che cercare di difendere chi ama da tutto e tutti sia sinonimo di pensare solamente a sé stessi? E' da ipocriti rimetterci la faccia in nome di un amico? Di tutte le cose che potessi fare, giudicarlo è quella peggiore. Sarei disposta a tollerare il tuo pensiero sulla faccenda Enrique, ma mettere bocca su qualcosa che non sai mi sembra inappropriato!”. Sono persino senza fiato da quanta voce ci ho messo nel dire queste cose. E' ancora attonito, immobile come una statua d'ottone. In questi mesi le rispostacce non sono state una novità, ma non sono mai stata irata a tal punto. Nonostante tutto trovo estremamente fastidioso che si prema sulla sua vita privata, sul suo passato, su cose che nessuno sa. All'infuori di me. “Senti, Vilu...”. Rizzo il braccio sinistro e lo punto verso la porta. “Fuori”. La voce graffiata a causa delle grida precedenti, bassa, autoritaria. “Ma chi ti porterà...”. “Mi arrangio con papà, vattene”. Mi rivolge un'occhiata implorante e scuoto il capo delusa, è un colpo davvero basso. Raccoglie le sue cose da sopra il tavolo e cammina a testa bassa verso l'uscita, prima di andarsene si volta all'indietro per l'ultima volta. “Ti auguro il meglio...”. Posa la mano sulla maniglia e la apre. “...anche se c'è sempre di mezzo lui”. Esce lasciandomi sola, ma stranamente non ho la rabbia che ribolle ancora dentro. Non m'importa, ho altro a cui pensare. Torno al lettino e riprendo in mano la lettera, chiudo le palpebre e la porto al naso: tabacco e vaniglia. “Leon”, sussurro.

 

 

Camminavo a passo spedito lungo il viale alberato. Anche se la primavera era alle porte, non vi era nessun accenno. La natura preferiva rimanere morta che rinascere. “Vilu! Smettila di fare la bambina e torna indietro!”. Mi fermai e mi voltai, ero stufa. Di tutto, di questa storia, di lei, persino di lui. “La bambina? Stai scherzando, spero!”. Mi raggiunse col fiatone, per la prima volta era lui a faticare a starmi dietro. “Ti stai facendo problemi dove non ci dovrebbero essere, perché non mi ascolti mai?”. La rabbia m'investì. Non lo ascoltavo mai? Io ci provavo, ma erano i fatti a parlare chiaro. “E tu non mi degni neanche della metà della considerazione che riservi a lei!”. Aggrottò la fronte, poi scoppiò a ridere. Detestavo quando faceva così: nelle situazioni peggiori se la rideva. “Ti ho sempre messa su un piedistallo e per una volta che declino un tuo invito, mi tratti di merda! Non ho detto che non ci voglio venire, ti ho solamente chiesto di spostare la data!”. Scossi il capo stizzita. “Chissà perché, tu hai sempre di meglio da fare!”. Chiuse le palpebre per poi lanciare un'occhiata verso l'alto, poi tornò a guardare me. “Smettila di dire cazzate! Chi ti è stato vicino quand'eri ammalata? Chi ha fatto i salti mortali per venire a casa tua quando ti sentivi sola? Chi ti ha accompagnata dovunque tu volessi perché ne avevi bisogno? Chi ti ha portata in vacanza negli States?”, mi gridò contro. L'incazzatura era tale da sputare parole intrise di veleno. “Non te l'ha chiesto nessuno!”. S'irrigidì e serrò la mascella, dopodiché incrociò le braccia al petto. “Di tutte le cose che potevi dirmi, questa te la potevi risparmiare. E' molto brutto sentirsi dire che non me l'ha chiesto nessuno, quando ho fatto tutto questo solo per farti sentire bene”. Il suo tono tornò calmo, maledettamente pacato. Ed io morii dentro perché mi resi conto di ciò che gli avevo appena detto. “Scusami, non...”. “Finiscila, è sempre così con te: dici le cose, ferisci e te ne rendi conto dopo. Sono stanco, inizio a credere veramente che le pensi”. Cristo, che casino. “No! Credimi, è solo che per una volta che sono io a chiederti di venire con me da qualche parte speravo in un tuo sì. E sentirmi dire no perché devi andare ad una sua premiazione, beh, mi ha infastidita”. Si passò le mani nel viso come quando lo si fa per lavarselo il mattino. “So che per lei è importante, è un premio che le verrà dato dal sindaco e ci tiene che sia presente. Non ho rifiutato il tuo invito perché m'interessa solo lei, l'ho fatto perché non è una cosa di tutti i giorni ed è mia amica”. Sospirò affranto. “Sono stanco, Violetta...”. L'osservai col labbro inferiore tremante. “Di cosa?”. “Di tutto questo. E' diventata una situazione insostenibile: ti arrabbi per ogni cosa, litighiamo e finiamo col non parlarci. Poi magari facciamo pace, ma poco dopo riprende il solito ciclo. Ti rendi conto che è da un mese che non facciamo l'amore? Che discutiamo e basta? Sono stufo e non ce la faccio più”. Feci per ribattere, ma mi fermò posandomi un dito sulle labbra. “E prima che tu mi accusi di dirti questo per Raquel, ci tengo a precisare che ti sbagli. Stai rovinando tutto tu con la tua gelosia morbosa”. Sentii gli occhi inumidirsi, il respiro frammentato. “Lei non aiuta, però”. Toglie la mano e la lascia cadere a penzoloni lungo il fianco. “Nemmeno la tua gelosia ed il tuo continuo diffidare del mio amore per te”. No, non stava per accadere ciò che credevo. No, per favore. “Forse è meglio che ognuno se ne stia per conto suo e pensi un po' a sé stesso”. Il mio volto si tramutò in una smorfia, la smorfia tipica di chi sta per scoppiare in lacrime. “Mi stai dicendo che è finita, Leon?”. Abbassò lo sguardo e disse con voce flebile: “E in quale altro modo dovrebbe finire?”. Cercai di afferrargli la mano per trattenerlo, ma la ritrasse. “No”, mormorò. Tirò su col naso, ma molto probabilmente era solo una mia impressione visto che aveva il capo chino. “Resta...”. “Fidati, è la cosa giusta da fare: una pausa da questo disastro”. Si ostinava a non guardarmi negli occhi, non poteva finire così. Tremai e lo stomaco iniziò a dolermi, come sempre del resto quando succedeva qualcosa di spiacevole. Avevo commesso molti sbagli e solo ora me ne stavo rendendo conto, avevo il brutto vizio di urlare cose che magari non pensavo, ma che potevano ferire e molto. E nell'ultimo mese ne avevo dette fin troppe. “Non posso perderti”, mugolai. Finalmente alzò la testa: l'espressione tirata, gli occhi lucidi, le labbra serrate. “Devo andare”. Un tono mai sentito, sembrava in procinto di piangere. Si voltò di spalle per tornare indietro e lo osservai allontanarmi da me impotente. Ed intanto una parte di me stava morendo.

 

 

“Vilu, ci sei?”. Mi risveglio brutalmente dai ricordi, stare seduta nella panchina di questo maledetto viale non aiuta. “Sì, scusami”. Fran mi osserva preoccupata, la mano ancora a mezz'aria mentre stringe il cucchiaino per mangiare il gelato. “Qualcosa non va?”. Sospiro e chino il capo. “Diciamo che in questo posto ho solo brutti ricordi”. Mi accarezza il braccio, ma non mi giro. La rottura, quando gli ho detto di aspettare Enrique. Cose che mi piacerebbe saper dimenticare. “Cavolo, scusami”. La guardo ed abbozzo un sorriso palesemente forzato. “Fa niente”. Mangia un boccone. “Smettila di dire alla gente che non fa niente, dì la verità”. Fisso un punto indefinito di fronte a me. “La verità? Mi manca da morire”. “E' da tanto che gli stai dietro ormai”, commenta con la bocca piena. Inarco un sopracciglio, l'oggetto del mio interesse ora è un albero ossuto con un spruzzatina di neve. Grazie al cielo sta iniziando a sciogliersi. “Quattro anni e cinque mesi, quasi sei”. Mi volto, ha gli occhi sgranati. “Ti ricordi il giorno in cui ha iniziato a piacerti?”. Scrollo le spalle. “I primi giorni di scuola del primo anno, non è difficile fare i conti”. Si lecca le labbra e getta la coppetta nel cestino accanto. “Ma come è iniziato tutto?”, chiede. “L'ho visto e basta”. “No, come è iniziata fra di voi”. Ci penso un po', poi comincio a raccontare: “Beh, devo ammettere che se è nato qualcosa fra noi è in gran parte merito del professor Galindo. Quanto mi manca, adoravo come insegnava! Ricordi quando ci aveva fatto fare il progetto in coppie?”. Annuisce. “Ecco, con quel pretesto mi ha parlato per la prima volta. Ricordo che all'inizio mi faceva venire un nervoso ogni volta, poi quando sono andata a casa sua mi ha trattata diversamente. Probabilmente perché non eravamo in pubblico e non doveva dimostrare niente a nessuno. Il primo bacio è stato...strano”. “Strano?”, domanda ridacchiando. “Sì, era appena dopo la studentesca al Damn Night in camera sua. Ero sotto i fumi dell'alcool per cui è stato particolare, improvviso. Gli ho urlato che lo odiavo, mi ha guardata e si è alzato dal letto di scatto, poi mi ha chiusa contro il muro e baciata. Dopo abbiamo dormito insieme e mi sono risvegliata appoggiata sul suo petto. Quella sera era il quattordici gennaio duemilaquattordici”. Senza rendermene conto sto ancora guardando il vuoto, mi riesce meglio parlare del passato in questo modo. “Dovresti vederti in questo momento”. Sposto lo sguardo sulla mia migliore amica. “Come?”. “Stai sorridendo e ti brillano gli occhi”. Arrossisco ed abbasso la testa. In questi mesi non si è fatto altro che dire e pensare a tutti episodi negativi legati a lui, ma quelli positivi? Quelli che ancora adesso a distanza di anni mi riscaldano l'anima? Mi aggrappo a quelli, a volte, per andare avanti. “Eravate bellissimi”. “Già, eravamo”. Avvolgo le mani alle ginocchia. “Supererai anche questo in qualche modo”. Mmh, sarebbe un'ottima idea se non considerassimo la questione della lettera di ieri. Oggi non l'ho detto a nessuno, nemmeno a Lud. Che mi prende? Non lo so, forse temo che gli altri abbiano la stessa reazione di Diego. Lo vivo come un segreto. “In qualche modo”, ripeto le sue ultime parole come per concordare con questa affermazione. Sto mentendo per l'ennesima volta. Sul suo viso si estende un enorme sorriso ed allarga le braccia, mi slancio per abbracciarla. Vorrei essere sincera con lei, ma chissà cosa mi direbbe con la sua schiettezza. No, meglio meditarci per bene e da sola. “Sei forte, Vilu, ricordatelo sempre”. Aumento la stretta come per ringraziarla, questo è un tipo di contatto che uso per comunicare a gesti. Ci stacchiamo e mi osserva. “Sai? Chi ha dovuto affrontare enormi sfide ho probabilmente storie molte più affascinanti da raccontare”. Le punto l'indice contro. “Ah, questa non è tua: è una citazione di Jared Leto”. Scoppia a ridere ed alza le mani in segno di resa. “Okay, mi hai scoperta. Se li ascolto, è per colpa tua”. “Felice di averti finalmente influenzata coi miei gusti, almeno non ascolti più quella...beh, 'musica'”. Mimo il gesto delle virgolette con le dita. “Hey!”. Mi dà un leggera pacca sul braccio. “Se ti racconto balle, non va bene. Se ti dico la verità, non va bene lo stesso. Che cosa devo fare?”. Incrocia le braccia. “Vuoi sapere, dopo anni di amicizia, il tuo più grande difetto?”. Con gli angoli della bocca abbassati annuisco. “Non so mai se prenderti sul serio o se è una presa per il culo. Mi spiego: quando fai battute sei talmente seria che quasi ci credo. Ah, e fai anche commenti troppo offensivi a volte”. “Fran adesso ti sto per rivelare una cosa straordinaria, senza precedenti: è sarcasmo”. Assume un'espressione come per dire 'Grazie al cazzo' e risponde: “Lo so, è che non tutti siamo in grado di capirlo”. Roteo gli occhi. “Leon lo capiva e se lo capiva Leon, sono in grado di farlo tutti”. La mia amica s'irrigidisce tutto ad un tratto, anch'io effettivamente sono stupita. “L'hai nominato”. No, l'avevo fatto anche ieri in sala ecografie dopo aver rivisto la lettera. Ma ero sola, nessuno mi aveva sentita. “Ehm...è quello il suo nome”, mi difendo in qualche modo. “Non intendo questo, tu non lo nominavi da mesi e...è successo qualcosa, Vilu?”. Cavolo, ha capito che c'è qualcosa di diverso in me. Sennò non avrei parlato della nostra storia con trasporto, non lo nominerei, non lo tirerei in ballo. Era un argomento che non toccavo neanche per sbaglio a meno che a farlo non fossero gli altri. Non so se l'ho perdonato. Non so nemmeno se ci sia qualcosa da perdonare o meglio, c'è però non ho mai provato rancore nei suoi confronti. Semmai provo rimorso per ciò che ho fatto precedentemente a tutto questo, non avrei dovuto dubitare di lui. Mai. “No”. Tono secco, freddo, deciso. A mentire così bene ho imparato con gli anni, ma soprattutto da lui. “Se ci fosse anche solo qualcosa di positivo, non credi che avrei fatto a meno di ripensare ad un ricordo brutto prima?”. E questa da dov'è venuta? Mi sorprendo ogni giorno di più di quanto sto affinando quest'abilità. “Vero, scusa se non ti ho creduto”. No, Fran: non dirmi così. Mi fa sentire in colpa quando formula certe frasi. 'Scusa se non ti ho creduto'. Beh, scusa se ti mento a tutto spiano quando si tratta di lui. Ma non lo dirò. “Tranquilla”. Tiro fuori il cellulare dalla tasca e guardo l'ora: meno dieci le cinque. L'autobus che mi riporta a casa sarà nella fermata qui vicina fra poco. “Il bus sta per arrivare, devo andare”. Mi alzo in piedi, afferro il giubbotto per i bordi e me lo sistemo. Si tira su anche lei e mi riabbraccia. “Ci vediamo domani”. Ci dividiamo e la saluto con la mano per poi avviarmi lungo il viale alberato, questa volta non più sconfitta. Finito di percorrerlo, svolto a destra e proseguo per una trentina di metri finché non arrivo sotto al palo con l'insegna 'Fermata'. Il centro è caotico. Lo frequento raramente per questo: macchine ovunque, bus, smog, schiamazzi. No, non fa decisamente per me. Oggi ci sono venuta solo per fare un giro con Fran e quando mi ha proposto di andare nel famoso viale che collega ai giardini pubblici, mi è venuto un forte conato di vomito. Detesto quel posto. L'occhio cade sulla tabella oraria: cinque minuti ed il catorcio sarà qua per fortuna. Sono felice di non prendere più il bus per andare a scuola, ci pensa papà a portarmi prima di recarsi a lavoro. E' un gesto molto bello da parte sua. Alzo lo sguardo dagli orari e noto che sta per arrivare una corriera diretta alla parte opposta in cui abito. L'officina. Il mezzo si ferma facendo salire un po' di persone, mi guardo attorno e senza pensarci due volte salgo anch'io. Non so se mi pentirò di tutto questo.

 

 

Papà crede che sia ancora con Fran, oggi ho detto troppo bugie. In verità non sono nemmeno sicura di ciò che sto per fare, è una follia. Perché passo una vita intera a seguire la ragione ed ogni tanto combino cazzate istintivamente? So solo che è una mia caratteristica fin da piccola. Ed ora eccomi qua, in una parte sconosciuta di Buenos Aires per fare una cosa che magari non servirà a nulla. Cammino lungo un marciapiede a disagio per gli sguardi incuriositi che mi lanciano i passanti, che c'è? Non avete mai visto una ragazza madre? Se la cosa vi scandalizza così tanto nel ventunesimo secolo, sintonizzatevi su Mtv che di certe cose ne fa pure un programma che personalmente trovo squallido. Non sopporto chi sbandiera queste cose, non lo farei mai. Spero di star andando per il verso giusto perché questo posto lo conosco per sentito dire, non ci sono mai stata realmente. A bordo strada c'è accatastata della neve, ormai è sporca, molliccia e trasparente. Guardo in alto: nuvoloni grigi, chissà che anziché nevicare piova. Amo l'inverno, ma non ne posso più di tutta questa neve. E' bellissimo guardarla, camminarvici, ma comporta non pochi disagi a livello di trasporti ed organizzazione pubblica. Soprattutto se si considera il fatto che qui a Buenos Aires è un evento più unico che raro. Rabbrividisco per il freddo, scorgo in lontananza un gruppo di auto. Sono quasi arrivata. Più mi avvicino e più mi muovo lentamente, come se ci fosse una sostanza sotto la suola delle mie scarpe che mi vuol tenere inchiodata all'asfalto. Il cuore inizia a battere irregolarmente, mancano solo una ventina di metri. Raggiungo l'area antistante sovrastata da un gazebo in cui vi sono automobili senza fanali, finestrini o portiere, pezzi di moto, camioncini, il mio sguardo balena tutt'intorno curioso. C'è di tutto qui. Arrivo sulla soglia, sembra l'entrata di un garage solo molto più grande. Un odore penetrante di olio e benzina m'invade le narici, all'interno vi sono auto col cofano aperto, altre nelle piattaforme elevatrici, ripiani pieni di strumenti da lavoro. Un uomo sulla cinquantina è seduto in una scrivania ad annotare alcune cose di fronte a, presumibilmente, un cliente. Sicuramente gli starà facendo il prezzo della riparazione, il respiro viene meno quando noto delle Converse nere sgualcite che spuntano da sotto una macchina. Con un movimento rapido, il carrello con le ruote scivola al di fuori scoprendo la sua figura stesa su di esso. Poggia una chiave inglese a terra e si alza in piedi tossendo, afferra un panno sfilacciato dal tetto e se lo passa fra le mani nere. Improvvisamente si volta verso di me e rimane immobile nell'osservarmi, lo stomaco mi formicola. Abbozzo un sorriso ed alzo la mano in un gesto di saluto, lui con la bocca semiaperta contraccambia. Sposta lo sguardo sull'orologio appeso al muro, dopodiché, finalmente, mi viene incontro. Sono agitata. Troppo agitata. Dopo mesi risentirò la sua voce, dopo mesi mi riparlerà. “Hey”. Non lo vedevo così da vicino da un sacco di tempo. Il Leon di tre anni fa non esiste più, adesso di fronte a me c'è un uomo. La barba incolta, i capelli pettinati alla bell'e meglio, leggere rughe attorno agli occhi. Se non fosse per il pancione, non vedrei nessun cambiamento in me mentre lui è l'esempio lampante di come gli anni siano passati velocemente. Venti, in dicembre ventuno. Mi sembra impossibile. “Ciao”. Abbasso il capo, un po' imbarazzata. “Ti dispiace aspettare un secondo? Ho appena finito il mio turno, mi devo cambiare e lavare le mani”. Torno a riguardarlo, mi sorride. Mi sta sorridendo. Avevo dimenticato quanto fossero perfetti i suoi denti bianchi, quanto amassi le labbra che li incorniciano. E dentro di me sono un tripudio di arcobaleni. “No, tranquillo”. “Leon! Hai finito con la Toyota?”. Ci voltiamo di scatto verso l'uomo, a questo punto credo sia il proprietario dell'officina. Gli risponde facendo il pollice all''insù ed il meccanico annuisce. “Arrivo subito”, mi dice. Si gira all'indietro, getta il panno sul cofano e raggiunge una porta rossa per entrarvici. Il cliente di prima mi passa accanto per uscire e mi scosto poggiandomi con la spalla al muro. “Signorina, le serve qualcosa?”. Scuoto la testa. “Ah, è qui per il mio aiutante. Dovevo immaginarlo che non fosse per me”, ridacchia fra sé. Torna a scrivere, mentre io continuo ad osservarmi intorno. Infilo la mano in tasca ed estraggo il cellulare: sono le cinque e mezza, chissà quanto sarà preoccupato papà. Mentre sono assorta nei miei pensieri fissando lo schermo, sento sbattere la porta. Alzo lo sguardo prontamente, si sta chiudendo la giacca in pelle mentre cammina a passo spedito. “A lunedì, Martìn”. “A lunedì”. Appena arriva accanto a me, mi esorta con un cenno del capo ad andare così lo seguo. Attraversiamo silenziosamente il gazebo, si passa una mano fra i capelli. Non so nemmeno dove stiamo andando. “Ci fermiamo al bar qua vicino?”. Indica un edificio non molto grande ed all'apparenza calmo. “Okay”. “Bene”. “Forte”. Ne segue un silenzio imbarazzante che si protrae per diversi secondi, poi si volta per dirigersi verso il locale. Facciamo la nostra entrata ed il barista lo saluta, ci facciamo strada fra i tavoli fino ad accomodarci in uno. Sospiro, non riesco nemmeno ad incrociare i suoi occhi. Sono tremendamente a disagio ora che siamo seduti un di fronte all'altro. Respiro dal naso e non dalla bocca, altrimenti trapelerebbe troppo la mia agitazione. “Come va?”. Mi sforzo di guardarlo, sta giocherellando con il portasalviette e vi sta prestando tutta la sua attenzione. Almeno non sono l'unica ad essere impacciata. “Solito, te?”. Scrolla le spalle, il suo classico movimento. “Solito”. Posa i gomiti a bordo del tavolo e lascia stare l'oggetto. “Con Diego tutto bene?”, chiede. Inarco un sopracciglio. “Non stiamo insieme”. “Ah”. “E te con...Raquel?”. Fa un sorriso che pare tirato. “Non c'è male”. “Desiderate ordinare qualcosa?”. Sia lodato il cameriere. “Tu cosa vorresti?”, mi chiede. “Sono a posto”. “Bene, due succhi di mirtillo”. “Okay, le vostre ordinazioni arriveranno fra poco”. Appena il ragazzo si allontana dico: “Certo che il vizio di ordinare per me anche quando non voglio niente è rimasto”. Ridacchia e rimango incantata nel vederlo ridere. “Che c'è?”. “Il succo al mirtillo è il tuo preferito”. Arrossisco ed abbasso lo sguardo, dopodiché lo rialzo e gli sorrido. “Perché sei venuta?”. Il cuore riprende a martellarmi, è arrivato il momento di dirgli il motivo per cui l'ho cercato sul posto di lavoro. Per qui sono qui. “Ehm...”. Le sue labbra schiuse dalle quali s'intravedono gli incisivi, è una caratteristica della sua espressione perplessa. Potrei osservarlo per ore. “...ho trovato la tua lettera”. Sbatte le palpebre velocemente e chiude la bocca, è senza parole. “L'ho trovata in un cestino, dopo ho visto Diego e mi sono fatta raccontare tutto”. Forse se parlo riuscirò a strappargli qualcosa. “L'ho riletta più volte e se sono qui significa che la mia decisione l'ho già presa”. Mi fissa serio, ma dopo poco sul suo viso si estende un sorriso. “Pensavo non l'avresti trovata”. “Ecco i vostri succhi, sono quattro pesos”. Faccio per prendere i soldi dalla tasca, ma Leon ha già estratto il portafogli e pagato. Roteo gli occhi, questa mania di ordinare per gli altri e pure pagare. “Grazie”. “Grazie a te”. “Guarda che i soldi ce li avevo, potevo benis...”. “Tranquilla, è il minimo”. Mi liquida con un rapido gesto di una mano. Faccio per aprire la mia bottiglietta in vetro, ma mi precede e me la versa dopodiché fa lo stesso con il suo. “Com'è andata la visita?”, domanda sorseggiando un po' del contenuto. “Bene, il bimbo è in salute e sembra stia crescendo senza problemi. Domani ho una visita fuori città per la prescrizione di farmaci leggeri per gli attacchi di ansia e di panico”. Bevo del succo. “Ti accompagno”. Rimango bloccata con la mano a mezz'aria. “Sempre se vuoi”, aggiunge. Poggio il bicchiere ed incespicando rispondo: “Be-beh, avrai di meglio da fare il sabato pomeriggio”. Scuote il capo. “Pablo e Cristobal se ne faranno una ragione”. “E Raquel?”. Che cazzo di domanda è? Sono una cretina. “Sopravviverà”. Senza volerlo alzo un angolo della bocca. “Mi sembra un modo per recuperare il tempo perso con Enrique”. “E' a un'ora e mezza di auto...”. “La mia Volvo ci sa arrivare”. “Avevi risparmiato molto per quella macchina”, commento. “Cristo, sì! Era di seconda mano, ma chissene! Volevo un Volvo e me la sono presa”. “A me piaceva di più la Bmw grigia però”. Sbuffa. “Perché tutti ce l'avete con questa Bmw? Che palle, oh! Secondo me la Volvo sta una spanna sopra. Sono entrambe buone auto, ma a mio modesto parere la Bmw è peggiorata negli ultimi anni in quanto a qualità. E poi è ovvio che tu, guardando solamente l'estetica, dica di preferirla alla Volvo, ma l'aspetto conta relativamente nella scelta”. Mando giù l'ultimo sorso e mi passo il dorso della mano sulle labbra. “Scusami se non so un cazzo di macchine”. Allarga le braccia e guarda in alto. “Oh, finalmente dopo anni l'hai ammesso!”. “Ma smettila!”, gli grido ridendo. Finisce anche lui il succo. “Quindi domani devo portarti?”, chiede sorridendo. “Va bene, passa per le tre del pomeriggio”. Annuisce e s'infila il portafogli nella tasca dei pantaloni, mentre io sblocco lo schermo del telefono. Sono quasi le sei, ho tre chiamate perse da papà e quattro da Angie ed un messaggio da quest'ultima: 'Vilu dove sei? Ho telefonato a Francesca e mi ha detto che non sei con lei! Dove sei finita?'. “Merda”, sussurro. “Che c'è?”. “Ah, niente è solo che dovrei essere a casa da un pezzo”. Si allunga in avanti per poter leggere ciò che sto scrivendo a zia. “Non so nemmeno se da queste parti passa qualche bus che porti al mio quartiere, mi farò venire a prendere. Non oso pensare alla che sgridata mi faranno...”, dico con gli occhi fissi sul display. “Che problema c'è? Ti do un passaggio”. Alzo lo sguardo e fa le spallucce. “Non voglio che ritardi a causa mia, sia mai che Lucia s'incazzi”. “Guarda che non abito con mia madre da quasi un anno”. Ah, quindi abita da solo? Questo non lo sapevo. “Beh, lo stesso! Non scomodarti, tranquillo”. “Ma figurati! Sono di strada”. L'osservo per un paio di secondi pensierosa, poi accetto. “Okay, ora dico ad Angie che ho trovato un passaggio”. Inviato il messaggio rimetto il cellulare in tasca. “Andiamo?”. “Sì”, rispondo. Ci alziamo dal tavolo e ci dirigiamo verso l'uscita, arrivati fuori andiamo incontro alla famosa Volvo nera parcheggiata lungo il marciapiede proprio di fronte al bar. Mi apre la portiera e mi siedo dentro, poi la richiude ed entra dalla parte opposta mettendosi al volante. La mette in moto, ci allacciamo le cinture e partiamo. Era da un secolo che non mettevo piede nella sua macchina, niente sembra cambiato al suo interno. E' tutto estremamente a posto e curato come del resto ogni sua cosa, persino gli oggetti accatastati sopra la sua scrivania della sua stanza seguivano un ordine. Credo sia l'unico ragazzo non disordinato che abbia mai conosciuto. I cd sono rigorosamente in pila sotto all'autoradio, mi sfugge un sorriso nel leggere i nomi delle band che ascolta. Lancio un'occhiata allo specchietto retrovisore con vari oggetti penzolanti: un profumatore per ambienti al muschio bianco, una triade e...non ci posso credere, un souvenir di Chicago. “Che stai guardando?”. “Oh, niente”. Mi volto verso di lui, è completamente assorto nella guida. Quando è concentrato gli si formano le sue adorabili fossette, ora intravedibili attraverso la barba. Ci fermiamo ad un semaforo e si gira verso di me, rapidamente fingo di star guardando fuori dal finestrino. Ma chi voglio prendere in giro? Mi ha vista mentre lo stavo fissando come un'ebete! Aspetto che questo momento imbarazzante finisca quando sento che preme sull'acceleratore per ripartire. Sono passati dieci minuti, ne mancano altrettanti di questo disagio. Decido di prendere di nuovo il telefonino e mettermi a giocare a Fruit Ninja, nonostante la chiacchierata precedente la freddezza nel nostro rapporto resta. E' ovvio, no? Mesi e mesi a non parlarsi ed è questo il risultato. Però una cosa l'ho ottenuta, domani mi accompagnerà alla visita per dimostrare di essere un padre presente e mi pare sia un gran traguardo visto come eravamo messi. Tutto ad un tratto si ferma ed io, credendo di essere all'ennesimo semaforo, continuo ad affettar frutta mettendoci pure impegno. “Ehm...non vorrei dire, ma siamo arrivati”. Metto in pausa la partita e distolgo lo sguardo dallo schermo al finestrino. Il giardino di casa mia. Una parte di me vuole scendere al più presto, l'altra rimanere dentro per sempre evitando di prendersi una sonora ramanzina. Sono già passati dieci minuti da quando ho controllato l'ora? Mi prende proprio quello stupido giochetto. “Giusto”. Assumo un'espressione dolorante. “Perché hai quella faccia?”. “Mi diranno un sacco di parole”. Si dà una sistemata al ciuffo riflettendosi sullo specchietto, allora un po' del vecchio Leon vive ancora. “Non dare loro retta come sai fare solo tu”. Aggrotto la fronte, ma non faccio in tempo a chiedere a cosa si riferisca che sento urlare il mio nome dall'uscio. “Oh, cazzo...”. “Faresti meglio ad andare”, mi intima. “Vero”. Apro la portiera ed esco, prima di chiuderla lo ringrazio per il passaggio e se ne va. Fisso per un po' l'auto allontanarsi, poi mi volto per avviarmi nel vialetto a testa bassa. Quando arrivo davanti la porta trovo l'accesso sbarrato con papà paonazzo ed Angie dietro ad assistere alla scena preoccupata in viso. “Ehm...”. “Non credi che tu ci debba delle spiegazioni?”. Mi mordo il labbro inferiore, sono nella merda. “Papà, senti io...”. “Come hai potuto essere così irresponsabile? Perché non hai avvertito nessuno che avresti tardato?”. “Se mi lascias...”. “Ma soprattutto che ci facevi con lui?”, mi grida contro più forte di prima. Ed io mi sento raggelare il sangue nelle vene. Proprio quello che temevo: stanno avendo la stessa reazione di Diego.

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Ciao belli come state? E dopo ben sei capitoli di sofferenza, ecco un piccolo spiraglio di luce. Siete contente? Finalmente si sono parlati ed, anche se è una conversazione un po' freddina, a tratti abbiamo visto qualche sprazzo dei vecchi Violetta e Leon. Ma andiamo con ordine! Avete avuto modo di leggere il testo della lettera e di vedere la reazione di Vilu contro Diego. Secondo voi ha esagerato? E' giustificata la sua rabbia? E' stufa del fatto che tutti credano di sapere cosa sia meglio per lei, credete che avrà una reazione simile con German ed Angie? Nel mezzo c'è un momento fra migliori amiche molto bello, serve per mostrare il rapporto che si sta lentamente ricucendo e la concezione di Leon che cambia progressivamente. La nostra protagonista prende una decisione avventata, lei è fatta così: sta sempre lontana dalle cazzate ed agendo d'impulso ne combina una. Però non è tanto una stronzata come abbiamo potuto ben vedere. Come vi è parso il loro incontro nel presente? Avete sclerato? Che ve lo chiedo a fare, lo so che è così u.u

Ditemi cosa ne pensate lasciando una recensione! Ringrazio chi mi supporta, chi legge la storia e la mette fra le preferite e le seguite.

Beh, che dire? E' ovvio che nel prossimo capitolo ci saranno novità!

Stay tuned obiously,

Gre :3

  
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