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Autore: Amens Ophelia    13/10/2014    10 recensioni
[KakaSaku]
Per Kakashi, Sakura non era la ragazza fragile e dal pianto facile, quanto invece la giovane che sapeva alternare cuore e raziocinio; non era il medico che si limitava a infondere chakra per curare le ferite e starsene in disparte, ma la donna che donava parte del proprio flusso vitale agli altri e li osservava combattere, con il cuore in gola, per poi gettarsi nella mischia e difendere i compagni; non era una semplice ragazza, ma la sua kunoichi.
***
One shot ambientata nel dopoguerra. Spoiler velatissimi (quasi inesistenti, ma metto l'allerta per sicurezza) per chi non è giunto ai capp. 688 e 691 del manga.
Per Spring_And_Scarecrows ♥️
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kakashi Hatake, Sakura Haruno
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
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Love Is Blindness


 
 
 
Love is blindness,
I don’t wanna see
Won’t you wrap the night
Around me?
Oh, my heart
Love is blindness.

 
(U2, Love Is Blindness)
 
 
 
Lo studio che svettava su Konoha, da quando Tsunade – o meglio, Shizune – l’aveva sgomberato, appariva enorme, molto più vasto e freddo del solito, in tutta la sua desolazione.
Mentre tentava di guardarsi attorno e appoggiava le mani sulla scrivania, sugli scaffali vuoti e le sedie, si rendeva gradualmente conto che quella era la realtà, che la guerra era finita e che lui era l’uomo che avrebbe dovuto risollevare il Villaggio dalle ceneri, ripulendolo dalle lacrime e dal sangue.
 
Lo sguardo corse velocemente alla parete alla sua sinistra, dove ricordava essere affissi i ritratti dei propri predecessori, per poi abbandonarsi – inutilmente – fuori dalla vetrata, sui volti in pietra che da anni vigilavano sul luogo. La sagoma dell’ultimo, fresca di scalpello, era ancora coperta da un enorme telo bianco, rigonfiato dai lievi colpi di vento. Seppur la sua vista non fosse più quella di un tempo, ignorare quella scultura imponente – e un viso tanto noto – sarebbe stato impossibile.
«Perdoni l’interruzione», si scusò una voce sottile – forzatamente tenue –, che conosceva bene.
«Entra pure, Sakura», sorrise l’uomo, sciogliendo le mani intrecciate dietro la schiena. «Bella visuale, eh?».
La ragazza, avvicinandosi, mugugnò appena, annuendo. Ricordandosi però del suo difetto visivo, si affrettò a descrivere ciò che poteva notare: gru in movimento, cittadini che s’improvvisavano operai, cantieri aperti in ogni angolo che la vista poteva raggiungere. «Konoha è in ripresa», appurò, con una punta di marcato sollievo, nel suo tono pacato.
Pur non potendola scorgere perfettamente, Kakashi si voltò verso quella che per molti anni era stata la sua piccola kunoichi, e osservò il suo sorriso: riusciva a immaginarlo dolce e rincuorante come quello di un tempo. Spesso le era stato smorzato – addirittura in modo brusco – dall’unica persona che avesse mai spinto gli angoli delle sue labbra verso l’alto, nella muta, trepidante e vana attesa di un segno d'affetto – anche minimo, anche violento – nei propri confronti. Gli dispiaceva non poter godere della luce della sua serenità, ora che il lume in fondo alle pupille si era andato rapidamente affievolendo.
Gli occhi gli caddero su un vago fagotto bianco che lei recava fra le mani. L’essere ipovedente non gli nascose quell’orrore.
«Devo proprio?», sospirò, abbassando le palpebre. Si era rassegnato, ma sperava in una risposta negativa.
«Ovviamente sì, Hokage!», esclamò la giovane, sventolando il tessuto e rivelando la sua natura: il manto da capo-villaggio. Seppur nascosto dalla maschera, poté dipingersi in mente il leggero disgusto che traboccava sulle labbra di colui che, prima di allora, aveva sempre chiamato “sensei”.
Era strano rivolgersi a lui diversamente, profondendosi in ossequi e titoli onorifici; la faceva sentire a disagio, stupida e fastidiosamente finta, quando, in realtà, il rispetto e l’ammirazione che provava verso l’uomo erano gli stessi – sinceri e indescrivibili – da anni.
«Coraggio, se farà il bravo le leggerò uno dei suoi capitoli preferiti», tentò di convincerlo, lisciando una manica della veste.
 
Era un passatempo che Sakura praticava da qualche giorno – da quando Kakashi si era insediato in quell’ufficio –, ma che lui le vietava di coltivare. Non è roba per una ragazza, diceva. Di primo acchito, i romanzi di Jiraiya le erano sembrati un’accozzaglia di perversioni e porcherie legate insieme da una trama non fra le più originali, ma, pagina dopo pagina, la storia l’aveva sempre più catturata, anche perché – doveva ammetterlo – Ero-sennin era un valido narratore. Certe sue riflessioni sull’amore, poi, l’avevano profondamente estasiata, regalandole il ritratto sincero di un uomo puro – molto più di quanto non si potesse immaginare –, radicalmente innamorato di una donna forte e determinata – Tsunade –, che aveva più volte rifiutato le avances dell’eremita, vuoi perché troppo audaci, vuoi perché tremendamente impaurita di poter perdere ancora la sua scommessa con il destino.
Era andata così, in fin dei conti, e la Senju aveva dovuto dare l’addio anche a quell’uomo inspiegabilmente materiale e, insieme, profondo.
Certamente, poi, alcune vicende di Icha Icha Paradise le ricordavano anche esperienze personali; talvolta, quando si perdeva nelle riflessioni dell’amica della protagonista – e nelle sue fantasie erotiche, che Jiraiya non aveva proprio potuto evitare di inserire –, si chiedeva se l’autore non avesse esplicitamente fatto richiamo alle sue pene d’amore: Saiko aveva disperatamente cercato di far ritornare a casa il suo insensibile innamorato, tentando di allontanarlo dal cammino malavitoso che aveva intrapreso, ma Sosuke – la fantasia del sennin, delle volte, lasciava molto a desiderare, soprattutto con l’onomastica – aveva persino tentato di ucciderla, perciò lei si era lentamente arresa.
Sì, in qualche modo Jiraiya era riuscito a prevedere il futuro, proprio come nel caso di Naruto: era stato lui a mettere fine alla guerra, dopotutto.
 
«Posso farcela da solo», mormorò Kakashi, trattenendo fra le dita un lembo del mantello e riportandola al presente. «Come pensi che mi vesta, di solito?».
«Ci tengo a darle una mano», ammise in tutta schiettezza. «Inoltre, Tsunade-shishou mi ha chiesto di controllarle gli occhi», aggiunse, toccando subito la tasca in cui era riposta la sua torcia-penna da medico.
«Meno di ieri, più di domani: ecco quanto ci vedo», le sorrise, nel tentativo di sopprimere un sospiro scoraggiato. «Comunque, ho sentito che il resto dell’ex team 7 non deve allenarsi con gli ANBU, oggi, quindi non pensare al tuo vecchio sensei. Non voglio che diventi la mia badante, Sakura, ma una kunoichi».
«Lo sono già», puntualizzò, irritata, strappandogli la veste di mano. «E lei… non è vecchio», arrossì.
 
Trentadue anni ancora da compiere lo rendevano già così anziano, dal suo punto di vista? A dir la verità, poi, certe volte si sentiva molto più fiacca lei, con le sue diciotto primavere appena celebrate.
Non usciva più tanto spesso, nemmeno quando Ino le chiedeva semplicemente di prendere una tazza di tè a casa sua, oppure nelle rare occasioni in cui Naruto si offriva di pagare a lei e Hinata una ciotola di ramen, una volta che terminava gli allenamenti. Se evitava la Yamanaka perché sapeva che le avrebbe causato un’emicrania a furia di parlare di Sai e della nuova abitazione – naturalmente tappezzata delle meravigliose opere del suo vecchio compagno di squadra –, rinunciava a vedere l’Uzumaki e la Hyuga non perché fossero particolarmente inclini a parlare della loro relazione e dei loro progetti futuri – Hinata era riservata e, incredibilmente, lo era anche Naruto, su certi fronti –, ma perché sapeva benissimo chi poteva incontrare, con loro, da Ichiraku. Non era mai stata stupida, Sakura, e sapeva perfettamente carpire la preoccupazione dei suoi amici, nei propri riguardi: Naruto aveva Hinata, Sai aveva Ino… chi rimaneva escluso dai conti? Quella persona che l’aveva sempre rifiutata e che, anche allora, non si tratteneva dal guardarla con una certa indifferenza.
Con il tempo aveva capito che al mondo c’erano persone predisposte ad amare, altre no. Lei e Sasuke vivevano su fronti opposti, ora l’aveva finalmente compreso; al tormento era subentrata la rassegnazione e, infine, nelle ultime settimane, l’accettazione.
Non fa per te, le ripeteva Ino; Può ancora cambiare, concedigli del tempo, la rassicurava Naruto, invano; Non fa per nessun’altra ragazza e non me ne importa, io non aspetto più, affermava lei, in tutta sicurezza.
 
Per questo si trovava benissimo a casa propria, da sola, o in ospedale, indaffarata e pronta a dedicarsi solo ai doveri di un ninja medico. Fra questi, poi, c’erano state anche le cure di quel paziente che conosceva da anni, ma che si sottraeva sempre con una certa ritrosia anche dalle sue mani esperte, quando lei gli puntava una luce a led negli occhi opachi. Sakura li aveva sempre guardati con imbarazzo, sentendosi inadeguata, ma da quando la guerra era finita – e, forse, anche nelle ultime fasi del conflitto – aveva scoperto che l’Hatake non era quello shinobi irraggiungibile che tutti credevano, quell’uomo che nascondeva i propri sentimenti grazie a sorrisi, ritardi e battute, che si riparava dietro una maschera o le pagine di un libro. Incredibilmente, poi, quando la scrutavano, le sue pupille sembravano davvero metterla a fuoco – seppur, ormai, nel vero senso dell’espressione non potessero più farlo –, cogliendo tutte quelle caratteristiche che al resto del Villaggio – e persino a Tsunade, forse – sfuggivano. Per Kakashi, Sakura non era la ragazza fragile e dal pianto facile, quanto invece la giovane che sapeva alternare cuore e raziocinio; non era il medico che si limitava a infondere chakra per curare le ferite e starsene in disparte, ma la donna che donava parte del proprio flusso vitale agli altri e li osservava combattere, con il cuore in gola, per poi gettarsi nella mischia e difendere i compagni; non era una semplice ragazza, ma la sua kunoichi.
 
Non sapeva ancora spiegarsi perché, in sua presenza, si sentisse tanto confortata e compresa, come stretta in un abbraccio, seppur a malapena si fossero sfiorati le mani, qualche volta. Certo, sul campo di battaglia i loro corpi erano stati incredibilmente adiacenti – lui l’aveva tenuta stretta a sé, su un mare di lava, e lei l’aveva sorretto per diversi minuti, quando lo sharingan di Obito aveva lasciato i suoi occhi –, ma allora imperversava la guerra e forse entrambi avevano solo fatto ciò che chiunque, al loro posto, avrebbe compiuto. Si erano presi cura l’uno dell’altra come dei compagni di una stessa fazione, come degli alleati. Eppure aveva intuito che qualcosa di più profondo avesse iniziato a legarli.
L’aveva capito quando lui, due mesi prima, a casa sua, l’aveva accolta con un sorriso nudo, senza barriere di stoffa o di morale, dicendole: «Sono felice di vederti» – sorvolando sul fatto che, già allora, la sua vista non fosse delle migliori.
L’aveva compreso quando le aveva sfiorato la mano – quella posta sulla sua guancia, le cui dita lo obbligavano a non sbattere la palpebra –, e le aveva sussurrato: «Com’è fredda! Non va bene», per poi stringerla e sfregarla fra le sue, energicamente.
Ne aveva ricevuta una conferma più che soddisfacente quando, tornata dall’ospedale, nonostante le quasi tredici ore di lavoro, dopo quel riconoscente “Grazie” che lui le rivolgeva con una carezza sul volto, prima di augurarle la buonanotte, si trovava a rigirarsi fra le coperte, senza posa, e finiva con il fissare il soffitto e bisbigliare il suo nome.
 
Non sapeva ancora spiegarsi perché, in sua presenza, si sentisse tanto confortata e compresa, come stretta in un abbraccio, tuttavia era una sensazione così piacevole che non andava indagata, forse, ma solamente vissuta.
 
Delle volte si chiedeva se fosse giusto trovarsi tanto vicina a lui, camminare al suo fianco, mano nella mano, per le vie di Konoha, con gli occhi di tutti puntati addosso – perché li sentiva, quegli sguardi, e non c’erano più alibi: lei non era una sua sottoposta e lui non era il suo maestro –, mentre lo avvertiva di prestare attenzione a un’irregolarità del terreno e prendeva al volo l’occasione per stringergli un braccio, con lieve imbarazzo.
Alcuni borbottavano che avrebbe potuto procurarsi un cane dagli Inuzuka e girare con quello, altri che tale vicinanza, fra loro, fosse naturale, dopo una vita passata a sostenersi a vicenda, ma lei, incredibilmente, non s’infuriava né si spingeva a chiarire che lo stava solo accompagnando a fare la spesa: Kakashi le raccontava con tono entusiastico di quanto il suo udito si fosse affinato, in poco tempo, per sopperire alla vista, e lei rimaneva ad ascoltarlo per minuti interi, rapita. Il tuo cuore, ad esempio, batte come il mio, ora, le aveva confessato una volta, quando lei aveva lasciato il suo arto, sulla soglia di casa. Sei tu ad essere invecchiata o sono io ad aver di nuovo diciotto anni?.
La differenza d’età si estingueva istantaneamente quando le palpitazioni superavano la norma.
 
«Lei non è vecchio», ribadì, afferrandogli un braccio e cominciando a infilargli una manica.
Sembrava essersi accorto di quanto la sua affermazione fosse volta a convincersi che non ci fosse nulla di sbagliato nel provare un tale affetto – diverso da quello di un allievo verso il proprio insegnante – nei suoi confronti, e la cosa lo rasserenò, perché il sentimento era reciproco – irrazionalmente reciproco.
Non teneva più il conto delle volte in cui aveva cercato di ragionare e comprendere che essersi innamorato di lei fosse errato; semplicemente, si era reso conto che era dannoso andare contro ciò che il cuore gli dettava. Se lei non avesse ricambiato, forse sarebbe stato tutto molto più facile, ma oltremodo doloroso; affrontare la cecità, restare rintanato in casa per gran parte della giornata, tentare di approcciarsi nuovamente alla quotidianità sarebbe stato estremamente duro e inaccettabile senza l’aiuto dell’Haruno, senza il sostegno e il calore che la diciottenne gli riservava.
Adagiò lo sguardo vacuo sul suo viso e sorrise amaramente, scorgendone solo il contorno e ricordando quanto fosse sempre stato radioso. Sicuramente lo era ancora di più, ma non avrebbe potuto scoprirlo.
 
«Non sarò vecchio, però sono cieco. Un capo-villaggio cieco», le ricordò.
«Ipovedente», lo corresse, «ed è per questo che ci sono io ad aiutarla, Hokage-sama», sorrise forzatamente. Sperava potesse esserci un modo per riaccendere la luce delle sue pupille, perché desiderava che lui potesse tornare a osservare il mondo, a notare quanto i suoi ragazzi fossero ancora più cresciuti, in quei mesi, a meravigliarsi della bellezza della nuova Konoha, che stava ampliandosi a vista d’occhio, e… a vederla. Sognava ardentemente che lui potesse ancora regalarle la consapevolezza di non essere invisibile.
«Sakura, da quando tante cerimonie? Dov’è finita la ragazza che fendeva muri?», ridacchiò lui, abbandonandosi alle manovre della giovane, che stava ormai vestendolo come se si fosse trattato di una bambola.
«Proprio qui», disse, tirandogli apposta un braccio e immobilizzandolo. Lo avvertì trattenere il respiro per la lieve fitta che gli atrofizzava la spalla e lasciò andare la presa, allontanandosi di un passo. «Perfetto. Ora manca solo il copricapo», annunciò, porgendoglielo.
Kakashi lo rigirò tra le mani, stringendo i denti, e lo indossò con titubanza. «Ho sempre trovato abbastanza ridicola questa palandrana… per non parlare del cappello! Come sto?».
Sakura indietreggiò nuovamente, onde avere una visione d’insieme, e lo ammirò per dieci interminabili secondi. Lo preferiva di gran lunga nell’uniforme da jonin con cui l’aveva conosciuto, il capo d’abbigliamento con il quale si era talmente abituata a vederlo da farle pensare che gliel’avessero tatuato addosso, ma scrutarlo nei panni di Hokage la riempì d’orgoglio. Non c’era altra persona che meritasse tale onore – oltre a Naruto, forse, sebbene la giovane età – o che potesse trasmettere il senso di protezione che quell’uomo sapeva infondere anche solo nello stare in piedi, fermo e in attesa di un giudizio.
Lo vide abbassarsi la maschera, mormorando un rammaricato “Tanto non servirà più”, che alludeva sicuramente al fatto che quel volto di pietra avrebbe rivelato a tutti, anche a chi non l’aveva che sentito nominare, la sua vera fisionomia. Spostava il peso da un piede all’altro e si massaggiava una piccola cicatrice che gli solcava la guancia sinistra, proprio sotto quella che il resto di Konoha già conosceva. Lei era stata la prima ad apprendere la verità su quel secondo sfregio – nessuna ferita da combattimento, solo una rasatura troppo rude –, ad accarezzargli la pelle del volto, a fantasticare sul calore e il sapore di quelle labbra sottili.
«Sakura, so che sei lì. Sono cieco, ma ci sento benissimo. Il battito accelerato del tuo cuore indica che stai per esplodere in una risata?».
Si avvicinò silenziosamente, con quel passo felpato che lui stesso le aveva insegnato, anni prima, durante i loro allenamenti, e poté avvertire l’intenso palpitare che proveniva anche dal petto dell’uomo. Si convinse che avessero davvero la stessa età.
«No, sensei», sussurrò, alzandosi sulle punte dei piedi, «indica che la sto per baciare». 
 
 

___NdA___

 
(L'immagine del banner è opera della bravissima neonanything, io l'ho solo presa in prestito).
Era da tempo che questa fiction mi girava in mente e ci tenevo a scriverla per tre ragioni:
1. Naruto sta per terminare e prima che Kishimoto ci sveli i suoi piani io ho pensato bene di rivelarvi i miei (ahahah);
2. Desideravo pubblicare una nuova KakaSaku, ma ambientata nella Konoha originale (insomma, niente AU);
3. L'avevo promessa da tempo alla cara Spring_And_Scarecrows 
 (beh, non so se questa piccola OS possa averti fatto andare più a genio la coppia, ma spero di sì, anche giusto un pochino).

Con la speranza di non aver deluso né lei né voi, vi lascio. Mi farebbe davvero molto piacere poter conoscere le vostre impressioni (anche riguardo le ultime battute del manga). 
Grazie a tutti! 
Un bacio, 

Ophelia

PS: L'allerta spoiler faceva riferimento allo sharingan ("doppio") che Obito dona a Kakashi. Lo so, sono paranoica.

 
   
 
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