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Autore: ki_ra    15/10/2014    4 recensioni
In un punto imprecisato del tempo, in un luogo qualunque del mondo, due anime lontane incrociano le proprie vite.
Sangue e nome, rispettabilità e disonore, tradimento e amore li spingeranno l’una verso l’altra.
Mentre un mondo vecchio e superficiale si dibatte per continuare ad esistere, un amore nuovo nasce e sconvolge anime e cose.
Genere: Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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La mano del gigante

 

La giornata era cominciata come la precedente e come quella prima ancora: lenta, sonnacchiosa, con la pigrizia nelle articolazioni, come quando, a inizio autunno, il tempo comincia a cambiare e ti sorprendono quelle fastidiose influenze.
Aveva aperto gli occhi all’alba, quando il sole era ancora un accenno di luce aranciata dietro le tende finissime e bianche. Aveva partecipato alla funzione mattutina, preso la comunione e pregato davanti all’altarino della Madonna delle Nevi. Aveva fatto colazione: pane imburrato e marmellata di arance, sapore dolce amaro, come il proprio umore; poi, quando gli altri stavano per svegliarsi, aveva iniziato i lavori in giardino.
Aspettava la visita del dottor Elmisk, perché la rassicurasse di aver inviato un avvertimento a Eìos riguardo alle minacce di Miran, per rasserenarsi e sapere il proprio sposo al sicuro, almeno per il tempo necessario a che la sete di vendetta scemasse o, quantomeno, il raziocinio e nobiltà d’animo del cognato gli permettessero di affrontare le spine di quel rovo con maggiore distacco.
Quando però poche dopo, il dottor Elmisk si presentò alla sua porta, gli occhi appannati dalla stanchezza e il colorito pallido di chi non ha dormito, Ariela  ebbe subito chiaro che le nuove che le portava, non sarebbero state buone.
- Sediamo, vi prego. – la invitò e, dopo aver atteso galantemente che ella si accomodasse, fece altrettanto, il bastone tra le gambe e le mani una sull’altra appoggiate sull’impugnatura.
Le raccontò ogni cosa con precisione chirurgica: dall’arrivo anticipato di Eìos, all’accusa di contrabbando; dall’arresto, al tentativo fallito di fargli visita in cella; dei suoi sospetti su Leria e Miran e infine della ricerca di un legale capace e incorruttibile, che non subisse l’influenza del nome e del danaro della loro casata.
Ariela ascoltò ogni parola senza intervenire col fiato sempre più corto e il bisogno di riempirsi i polmoni, come un nuotatore che si spinge troppo a fondo in apnea e si sente costretto a risalire alla ricerca dell’ossigeno.
- Voglio vederlo! – disse sollevandosi, - Adesso, voglio vederlo adesso! -  ripeté.
- E lo vedrete, non abbiate timore. Il comandante è stato chiaro: permetterà solo a voi o al suo legale di fargli visita. Ma vi prego, non vi ho detto ancora tutto. – la rassicurò, invitandola a sedere di nuovo. – Non intendo aspettare che venga istruito il processo, né di scovare le prove della sua innocenza: la cella di una prigione non è un luogo sicuro. Se qualcuno volesse, non la sua detenzione soltanto, ma anche la sua morte … - continuò, con un nodo alla gola nel pronunciare l’ultima parola, - … basterebbero la promessa di libertà ad un altro detenuto e pochi denari a una guardia per voltarsi dall’altra parte. –
Ariela trasalì: per un attimo aveva sperato che le sbarre della prigione lo mettessero al sicuro, quantomeno temporaneamente, dalla furia di Miran. Saperlo incarcerato ingiustamente e finanche in pericolo di vita, le gelava il sangue.
- Dottore … - si affidò a lui,  con la certezza che egli avesse già la soluzione a portata di dita.
- Non abbiate timore, Ariela, saprà guardarsi le spalle: egli è nato leone! – la rassicurò, un mezzo sorriso di chi la sa lunga. – E comunque, non rimarrà in prigione a lungo! –
La giovane lo guardò come si farebbe con uno straniero che parla una lingua incomprensibile e scosse il capo affinché le spiegasse tutto più chiaramente, come si fa con i bambini.
Elmisk sorrise ancora, di quel sorriso furbo che tante volte aveva visto in volto a Eìos, ed ella si stupì di come il più delle volte, i gesti, le espressioni siano figli della profonda conoscenza e dei legami tra due individui, più che dalle somiglianze somatiche.
- Lo faremo evadere! – spiegò, con un guizzo ovvio negli occhi vispi.
- Come? – chiese sempre più frastornata da tutte quelle informazioni dolorose e confuse che il suo cervello non riusciva a registrare.
Ariela non sapeva alcunché di reati, di prigioni, di trame oscure ordite con sapienza e dolo, tantomeno di rocambolesche evasioni e piani per metterle in pratica. Gli unici riferimenti le venivano dalle sue letture, il celebre tentativo di fuga del conte di Cagliostro dalla fortezza di San Leo, per esempio, o dai grandi romanzi, Il conte di Montecristo, prima di tutti. Ma quelle erano storie di carta, fantasiose e mirabolanti, lontane dalla realtà dell’uomo che amava e che doveva essere salvato.
Elmisk comprese la sua titubanza e le venne in soccorso, aggiungendo: - Egli sarà la chiave che restituirà la libertà a Eìos! – e, voltando il capo verso la vetrata sul giardino, disse: - Entra. - 
Un uomo che Ariela non aveva mai veduto prima, comparve sulla soglia. Era alto, dal fisico imponente, la pelle scura come cioccolata, i capelli  cortissimi e crespi e gli occhi neri, come olive taggiasche. Indossava una tunica al ginocchio, del colore della notte, strani calzoni larghi sulle cosce e arricciati alle caviglie, una sciarpa al collo e un mantello dello stesso colore.
- Yad al-Jawza, signora. – si presentò, avanzando, nella stanza, - Betelgeuse, nella vostra lingua. – precisò, per poi riverirla con uno strano saluto: la mano destra toccò, in successione, il torace, le labbra e la fronte ed infine il gesto si prolungò in avanti, accompagnato da un profondo inchino. Ariela rimase incantata dai movimenti armoniosi e delicati, dalle dita affusolate e dall’intensità del gesto, in contrasto con la saldezza del corpo dell’uomo. Continuò a fissarlo, confusa, fino a che egli aggiunse: - Potete chiamarmi Betel, come fanno gli amici! –
La donna chinò il capo in un cenno di saluto e lo invitò a sedere con loro.
- Si farà arrestare … - spiegò il dottore, - … E quando sarà all’interno della prigione, ci informerà puntualmente sui cambi di guardia, sulla posizione della cella in cui Eìos è detenuto, sul numero dei soldati, cosicché poteremo elaborare un piano efficace per consentirgli un’evasione sicura. – terminò, placido.
- E voi … vi fareste arrestare? Per Eìos? – domandò incredula.
- Perché, signora, vi appare tanto strano? – replicò l’uomo, la voce salda e determinata, con una punta dolcissima e affabile, - A Eìos, io debbo la vita! – precisò e la mente, portata da un vento sottile e lieve, come quello che fa volteggiare armoniosamente le foglie prima che cadano al suolo, tornò al giorno in cui  la propria esistenza si legò a quella dell’altro.

Sedeva al tavolo più in disparte della locanda, come suo unico pasto frugale, una ciotola di zuppa di farro e riso, un pezzo di pane di frumento nero e un bicchiere colmo d’acqua. Gli schiamazzi e il fumo dei sigari che impregnava l’ambiente, lo infastidivano, per questo aveva scelto quell’angolo silenzioso e tranquillo. Aveva viaggiato a cavallo per ore e, alla fine della giornata, i muscoli del corpo, così come la mente, avevano chiesto il conto della fatica a cui li aveva sottoposti. Pertanto, nonostante la meta cui era diretto fosse ancora lontana, si era deciso a fermarsi presso quella locanda per consumare la cena e riposare in una delle stanze a disposizione degli avventori.
Il tavolo vicino al suo ospitava un’orda chiassosa di quattro beoni, che tra urla e imprecazioni triviali, giocava una partita a carte che sembrava non avere mai fine.
Era giunto quasi al termine del suo desinare, quando uno di quelli, dall’alito puzzolente di vino e la casacca impregnata di sudore e fumo, gli si avvicinò e, con voce impastata, biascicò: - Amico, perché non vieni a giocare una mano con noi? –
Yad ripose il cucchiaio di legno e, sollevati gli occhi per guardarlo, rispose: - Vi ringrazio, signore, dell’invito, ma io non giuoco. – poi ritornò con il viso alla sua cena, ormai quasi terminata.
- Allora, amico, fatti un goccio con noi … - insistette l’altro, poggiando i palmi delle mani sulla tavola.
Yad ripeté il suo diniego e aggiunse: - E neanche bevo. –
- Non bevi, non giochi a carte … cosa cazzo sei, un prete? – continuò, con la sua voce stridula e sguaiata.
L’uomo non rispose, fece scivolare la sedia sul pavimento ruvido, si sollevò e fece per allontanarsi, senza curarsi dell’altro, che gli si era parato davanti insistente.
Ma quest’ultimo, palesemente alterato per l’alcool che aveva in corpo e indispettito per l’indisponente calma serafica dell’altro, con una manata rovesciò il tavolo e le stoviglie, così come i residui di cibo, rovinarono sul pavimento. L’ubriaco lo bloccò afferrandolo per il bavero e, squadrandolo da capo a piedi, ridacchiò: - Guarda, guarda! Non sei un prete, sei una verginella timida. – lo schernì, indicando agli altri la tunica lunga fino al ginocchio e le singolari brache che indossava sotto.
Yad non  raccolse la provocazione, solo si limitò a stringere il polso dell’aggressore con una forza tale, da indurlo ad allentare, ad una ad una, le dita che stringevano la stoffa della tunica e, liberatosi, proseguì verso il fondo della sala.
- Cosa c’è, signorina, te ne vai, senza darmi neanche un bacetto? – perseverò, con una smorfia di scherno sulla faccia, già trasfigurata dall’alcool, e, non ottenendo alcuna reazione, lo strattonò per una spalla, costringendolo a voltarsi.
-Vediamo se sono capace di insegnarti come si sta al mondo! – lo minacciò.
Afferrò un coltellaccio da pane da un tavolo vicino e vibrò un colpo, ma era troppo ubriaco e instabile sulle proprie gambe, per prendere bene la mira e colpirlo al primo tentativo. Dunque, si fece più sotto, lo costrinse nello spazio ristretto tra i tavoli e le sedie, e ne vibrò un secondo, che inspiegabilmente andò a segno.
Yad si ritrovò così ferito e sanguinante: un taglio lungo e contorto, che correva dal polso al gomito, lo costrinse a impegnare la mano sana, stringendo l’avambraccio per fermare il flusso di sangue, esponendosi disarmato e indifeso al proprio aggressore.
L’ubriaco rise soddisfatto e, quando dalla sala, rumorosa e affollata di curiosi, si alzarono schiamazzi e grida che lo istigavano a infierire, egli fece per affondare il terzo colpo.
- Vediamo se sono capace io di insegnare a te come si sta al mondo! – lo minacciò la voce di un giovane dagli occhi profondi come il muschio del sottobosco d’inverno, che si frappose tra loro, veloce e improvviso, come una folata di vento.
Colpì con la mano destra il polso che impugnava l’arma improvvisata. Questa roteò in aria, come i coltelli di quegli artisti da circo che danno bella mostra della propria abilità, lanciandoli senza ferire il bersaglio umano che hanno di fronte. L’afferrò, ancora a mezz’aria, dalla parte della lama, e poi, con un gesto veloce e fluido, la fece volteggiare su sé stessa, riprendendola per l’impugnatura.
Mentre l’altro si reggeva al tavolo vicino, destabilizzato dal colpo subito, quegli gli puntò la lama del coltello sul pomo di adamo, imprimendovi una pressione leggera, ma efficace a validare la minaccia.
La sala cadde in un silenzio di apprensione e curiosità, fino a che il giovane, due occhi duri come pietra lavica, piantò il coltello nel legno del tavolo, giusto tra le dita aperte a ventaglio dell’altro.
Lasciò la stanza così come apparso, veloce e silenzioso, districandosi tra le due ali di spettatori, accalcati per assistere allo scontro.
Yad improvvisò un laccio emostatico con la sciarpa che portava al collo: la strinse, al di sopra del taglio, per fermare l’emorragia; sollevatosi, lo raggiunse all’esterno, dove il giovane armeggiava con le redini del proprio cavallo.
- Vorrei ringraziarvi, signore. – lo distolse dalla cura con cui sistemava il morso nella bocca dell’animale.
- Non c’è n’è bisogno: l’avrei fatto per chiunque. I vigliacchi e i profittatori mi danno il vomito. Fatevi medicare, piuttosto, sanguinate copiosamente. –
Yad controllò la ferita: la stoffa che la ricopriva era inzuppata, ma il flusso del sangue si era fermato, dunque, insistette: - Lasciate almeno che vi dica il mio nome e che conosca il vostro. Io sono Yad al-Jawza. – si presentò, con un salamelecco.
Eìos sollevò un sopracciglio, incuriosito: il nome, la foggia degli abiti, l’accento straniero erano singolari e catturavano l’attenzione che lo accendeva per tutto ciò che gli era alieno e sconosciuto.
- Nella mia lingua significa 
”La mano del Gigante”. – precisò, rispondendo alla domanda muta dell’altro e gli offrì la destra.
Eìos sorrise nello stringerla: era enorme e dalla presa salda e la sua statura era imponente e decisa, come le figure di certi angeli guerrieri nei dipinti delle chiese.
- Io sono Eìos, Eìos e basta! – replicò, infilando un piede nella staffa e montando in sella.
Yad compì lo stesso gesto, sul suo splendido stallone bianco, e si affiancò al suo salvatore.
- Dove andate? – chiese quest’ultimo, strattonando le redini perché il suo animale si fermasse.
- Voi dove andate? – replicò l’altro di rimando.
- Io me ne torno a casa … -
- Allora facciamo la stessa strada! – rispose ovvio.
Eìos alzò la mano, il palmo aperto per bloccarlo, e fece per replicare, ma Yad lo precedette: - Vedete, amico, la mia gente crede che se qualcuno ci salva la vita, essa gli apparterrà fino a debito saldato! –
- Io non appartengo alla vostra gente. –
- Non temete, Iddio non fa distinzione tra i popoli. E neanche io. Dunque, rassegnatevi: facciamo la stessa strada. –
Eìos sorrise, scotendo il capo, incredulo e sorpreso dalle stranezze di quello sconosciuto. Avrebbe voluto ribattere che era un solitario, che non aveva amici, né ne cercava; che la propria strada era un sentiero stretto, complicato, percorribile da un solo individuo alla volta. Ma non lo fece, non disse una parola, solo si sistemò meglio sulla sella e si passò la mano libera dalle redini, tra i capelli a massaggiarsi la testa, indeciso.
In verità, quell’uomo l’aveva colpito più di quanto avrebbe potuto farlo la curiosità di ciò che non si conosce: la sua reazione calma all’aggressione, i suoi modi così contenuti anche nello scontro, e il rispetto ossequioso per chi l’aveva aiutato, pur senza perdere la fierezza e l’imponenza di un uomo indipendente e forte, erano le caratteristiche di cui egli stesso si sentiva sprovvisto.
Senza neanche rendersene conto la propria mente si accomodò sull’idea di averlo a fianco, “finché il debito non fosse stato saldato”; così, d’improvviso, senza pensare, spronò il cavallo a proseguire, e constatò: - Il tuo nome … è troppo complicato. –
- Dunque, chiamami Betelgeuse, se preferisci … - replicò l’altro, affiancandosi, - … Come la stella rossa, alfa della costellazione di Orione.

 

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Ben trovate!
Con questo capitolo facciamo un passo indietro, non solo nel passato di Betel, fino al suo incontro con Eìos, ma anche alla mattina prima della visita di quest’ultimo con Ariela in prigione.
Avrete capito adesso il significato della frase sibillina che ella rivolge al marito durante il colloquio: Betel,
come il nome della stella,
 è l’uomo che lo aiuterà a evadere.
Ringrazio, come sempre, tutte voi che recensite sempre e coloro che leggono semplicemente o inseriscono la storia tra le seguite o preferite.
Vi lascio un bacio e vi aspetto al prossimo capitolo!

  
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