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Autore: Ceridan    15/10/2014    1 recensioni
Un giornalista alle prima armi si trova nella zona delle grotte di Postumia, vicino a Trieste, scoprirà un'antica verità che lo lascerà per sempre colpito.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non so come mi ritrovai in quel posto precisamente, perché ancora i fumi della follia riempiono i miei polmoni. Non potrei nemmeno ora distinguere il vero dal sogno, ma qualcosa di reale deve esserci stato.
Quel giorno era domenica, una domenica dell’anno 1998 e io mi ero recato sul luogo delle grotte di Postumia per scrivere un articolo per la rivista che mi dava da lavorare. Dovevo trovare alcuni elementi da inserire, indizi, curiosità, riguardanti quel luogo da sempre misterioso attorno a Trieste. Circa trent’anni prima era stata avvertita una scossa di terremoto con epicentro proprio vicino alle grotte e da allora esse erano state visitate di rado e molti dei cunicoli, ormai inagibili, venivano ignorati. La mia rivista, specializzata in curiosità del territorio con qualche goccio di sana fantasticheria, mi aveva dunque assoldato per questa tranquilla e noiosa missione.
Come dissi, non so bene come successe che mi convinsi ad andare proprio nel bel mezzo di questi cunicoli. Ricordo che inizialmente ero all’esterno, stavo cercando qualcosa, ma non trovavo niente di più che vecchi armadietti con utensili ormai inutilizzabili. Mi sembra che ad un certo punto mi allontanai verso una salita non troppo ripida per dare un’occhiata in giro quando si mise a piovere. Il cielo era scuro e un paio di lampi ravvicinati mi fecero pensare che la migliore idea fosse quella di trovare riparo, sì, dev’essere andata così.
Fu allora che notai quello spiraglio occluso da alcune pietre. Riuscii con un po’ di fatica a rimuoverle ed ecco, entrai in cerca di asciutto. La zona non era neppure stretta, anzi, la grotta sembrava più definita di quanto immaginassi. Ma non avrei mai potuto sapere che dietro quell’angolino sarebbe continuata. E scendeva. Non so come, non so perché, ma continuai a scendere toccando le pareti lisce scavate dai secoli e, da chi o cosa, solo Dio sa.
Persi la cognizione del tempo scendendo, non saprei per quanto andai verso il basso, ma man mano che procedevo sentivo odore di vecchio fino a quando questo diventò puzza di un qualcosa che non avevo mai sentito. L’odore saliva fortissimo sottoforma di brezza dalle profondità…la luce non vi era più. Decisi di utilizzare la mia torcia per farmi strada attraverso quel labirinto in discesa. Ancora non so perché andai avanti, ma in me stava crescendo un misto di curiosità e agitazione.
Sceso per circa duecento metri, o almeno credo, sentii che la mente cominciava a confondersi, forse vittima dei gas sotterranei. Il camminamento sembrava danneggiato, pieno di pietre accumulate. Poi vidi lo spiazzo. Al momento decisi che quello era il posto giusto per fermarsi ad aspettare; le gambe mi si erano fatte pesanti e cominciavo ad avere chiari giramenti di capo…mi sedetti.
Non so quanto tempo passò, ma persi i sensi sotto l’effetto di quel tanfo nauseabondo. Quando mi risvegliai la luce della torcia si era fatta flebile e stavo per piombare nel buio più totale. Una strana sensazione di agitazione mi aveva colto d’improvviso, come se avessi appena visto qualcosa di spaventoso e stessi reagendo, ma non era così. Mi spinsi indietro con le gambe ansimando frettolosamente e dietro di me si spalancava una piccola voragine con una miriade di sassi. Con la lucidità che mi rimaneva in corpo presi la torcia e, con la luce residua, illuminai quella discesa ripida e irta di pietre. Un bagliore attirò la mia attenzione. Scesi in preda ad una folle fretta di scoprire cosa fosse. Non ci volle molto, scostai una pietra o due e vidi che era una giuntura metallica di una maniglia. Cercai di capire meglio cosa fosse, illuminai come potei la zona, scostai altri sassi e cominciavo ad avvertire una sana fatica, la prima sensazione razionale che mi fece recuperare un poco di equilibrio. Ora vedevo con chiarezza che quella era una valigia, una piccola e antichissima valigia. La estrassi e tentai di recuperare lo spiazzo abbandonato pochi minuti prima. Nell’appoggiarla a terra sentii dei rumori di vetro; strizzai gli occhi per riprendermi, sudavo nonostante la bassa temperatura. I ganci cedettero immediatamente e la aprii.
Dentro erano presenti innumerevoli cocci di vetro, boccette rotte, uno strano odore che non potrei identificare nemmeno ora. Alcune provette, delle antiche siringhe di vetro incrinate o rotte. Alcuni boccetti erano ancora intatti e al loro interno stavano residui scarsi di liquidi in gran parte seccati che avevano macchiato indelebilmente le pareti del vetro. Nella parte superiore vidi una cintura da fronte con uno specchio concavo e una fialetta. Non potevo crederci, era una lanternina ad olio da fronte, ne avevo letto solo nei romanzi, non credevo possibile trovarne ancora una. E nonostante tutto, quella era ancora intatta. Nella valigia vi erano altre due fialette. Presi il mio accendino e l’accesi. L’olio, si sa, resiste agli anni e per qualche strano motivo quello resistette anche all’umidità. La fialetta si accese e attorno a me la zona si illuminò. Spensi dunque la torcia e fu allora che lo vidi, a fianco dei cocci di vetro nella valigia. Era un libretto con la copertina di pelle marrone. Allungai la mano tremando e lo presi.
Nella prima pagina vi era un’intestazione, Dr. Arthur Richmond, London Westfall Hospital. Compresi che quell’agenda era interamente in lingua inglese quando girai la pagina, la quale iniziava con l’intestazione London. Mi sollevai a sedere e il silenzio sembrava innaturale attorno. Decisi che avevo tempo, che nessuno mi faceva fretta. Mi appoggiai ad una parete di pietra tenendo le gambe incrociate e legai la lampada ad olio alla fronte come, penso, si dovesse fare.
Il racconto del dottor Richmond cominciava a Londra dove raccontava di alcuni esperimenti su farmaci da lui scoperti, di problemi con i colleghi di lavoro, della sua solitudine. Gli scritti erano brevi, poche righe per giorno, come se fosse uno sfogo, più che un diario. Tuttavia, ad un certo punto, trovai una pagina fittamente scritta ove il dottore raccontava di aver incontrato alcune persone di un certo livello sociale e di aver curato un certo Henry Lee Lucas ferito in modo piuttosto grave. Il dottore racconta del suo dubbio quando i quattro uomini gli chiesero di seguirlo per un viaggio sull’Orient Express per curare il signor Lucas, come lui lo chiamava. Il dottore sembrava aver accettato perché di seguito raccontava in modo piuttosto preciso di una storia inverosimile e pazzesca, una ricerca di un oggetto di valore mistico di cui non voglio approfondire né in spiegazione né in ricerca.
Il dottore racconta di una Parigi infestata e di sotterranei, di una Svizzera da incubo, di una Milano lugubre, di una Venezia di pura follia. E parla dei suoi compagni, un Lord inglese di nome Goodays, un maggiore della marina britannica, Lawrence, il signor Lucas e un misterioso uomo di nome Dingle che li accompagnava, ma su di lui il dottore non era generoso di parole.
E scrive di Trieste.
Quando arrivai alla penultima pagina, questa dimostrava di come quel gruppo di persone distinte fosse stato gradualmente vittima della follia, di come le loro credenze decadessero man mano e di come la loro stabilità mentale lentamente retrocedesse. Lo stesso dottore aveva steso alcune spiegazioni confuse riguardo alla sua fuga da un non meglio definito istituto di Parigi lasciando a me, lettore, un dubbio su cosa fosse realmente accaduto. Il tutto costellato di visioni, esperienze e di un custode delle loro azioni che non era con loro. In quel momento credetti che il dottore fosse un pazzo, ma non meno degli altri suoi compagni.
In quella penultima pagina scritta il dottore raccontò come il signor Lucas fece fuoco in una cantina mentre stavano cercando una sorta di amuleto ferendo il maggiore Lawrence. E di come lui stesso fece fuoco prima ferendo un folle Lord Goodays (a quanto diceva lui) e lo stesso Lucas. E delle ferite riportate da Dingle, della sua fuga precipitosa e dei soccorsi. Della denuncia, di come fu imprigionato e insultato dai suoi compagni e di come, alla fine, essi vollero liberarlo comunque.
Questa pagina era scritta frettolosamente e con questa informazione terminava.
La luce si spense. Nella foga della lettura, insana quanto lo stesso scritto, ne avevo già consumate due. Ne rimaneva una e anche quella si accese.
L’ultima pagina scritta era confusa, dal tratto tremolante, appena la vidi, inspiegabilmente, fui colto da una sensazione di ansia. Ricorderò per sempre lo sgomento di quelle parole, la disperazione di quell’uomo. Quello che lessi fu questo.
“Non ho tempo. Mi sono accorto che si erano avvicinati, ho aperto gli occhi. Sono senza forze, ma devo scrivere. Dingle era esangue, lo hanno preso, quei due. Lo hanno portato via e mi hanno lasciato solo. Lo butteranno là dentro. Io mi sto dissanguando, il braccio sinistro non può farcela. Ho preso l’anfetamina…sono tutti pazzi. Lucas ha sparato a tutti, quella creatura, hanno preso la gamba. Lucas ha sparato a Dingle, io gli ho dato l’adrenalina…Dingle doveva scappare. Invece, si è fermato altrimenti…non sarebbe stato qui. Gli altri si saranno forse salvati, o forse siamo tutti finiti. Che Dio li salvi da Lucas. Chiudo questo diario nella valigia, lo butto come posso in quel buco. Ora prendo la morfina, tutta, mi addormento per sempre. La valigia mi salva anche ora, anche ora, avrebbe salvato anche Dingle, quel folle. Aveva salvato tutti, Goodays, Maggiore, che Dio vi salvi da Lucas e da queste blasfemie…la mia Londra…ora mi vengono a prendere…”
Piansi. Ma quella tristezza mi colse per poco perché sentii dei passi, la luce si era spenta, affanni. Arrettrai strisciando, arrivai al limite del buco e mi accorsi che per sbaglio avevo spinto giù la valigia, ancora. Mi avventai sulla torcia e l’accesi per quanto ancora funzionasse. Mi alzai di scatto e mi affannai verso l’alto. Nel farlo mi scadde la lampada da fronte, ma non mi guardai indietro.
Ora so, facendo mente locale, che corsi in salita per duecento metri circa, nel più perfetto silenzio e tranquillità. Non c’era nulla, solo silenzio. Ma in quel momento vi giuro che ero certo che qualcosa in quelle grotte vi fosse. Ero convinto che qualcosa mi stesse portando alla pazzia. Ma ora so che v’era solo silenzio.
Mi risvegliai ore dopo, non so quante. La torcia era spenta ed ero a terra sotto la pioggia.
Ancora oggi mi ricordo di quell’esperienza come se l’avessi vissuta ieri. Non sono mai tornato alle grotte di Postumia né mai vi tornerò. Ho pensato anche che avessi vissuto solamente un sogno, di aver battuto la testa, ma non è così.
Non ho mai più guardato Trieste con gli stessi occhi.
 
   
 
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