Storie originali > Horror
Ricorda la storia  |      
Autore: Ghen    15/10/2014    3 recensioni
Andrea è tornata a Chalk, il suo paese natale, quando ha saputo della morte di suo fratello Julian. Quello che ancora non sapeva, è che è stato ucciso. Da chi? Perché? Nella ricerca di indizi, alla conoscenza di uno strano individuo e nel continuare a vedere suo fratello da bambino ovunque che la tormenta, capisce che c'è molto più dietro la sua morte.
L’ingresso addobbato di quadri d’uccellini che ricordava quando era bambina erano stati sostituiti da un lungo tunnel scuro: non si vedeva la fine né nient’altro che non fossero pareti rocciose. Un passo all’interno e la porta si chiuse, sparendo. Entrambi tastarono con nervosismo il muro di pietra al suo posto e si guardarono negli occhi, sentendo in sottofondo il ruggito della Bestia.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il fiore bianco
 
 
Quando Andrea seppe della morte di suo fratello Julian, si sentì mancare il terreno sotto ai piedi. In verità, lei non era mai andata particolarmente d’accordo con lui e, anche se erano fratelli, erano cresciuti distanti di pensiero e di giochi: mentre lei passava i pomeriggi dai suoi nonni in campagna a raccogliere fragole, Julian si allenava per diventare calciatore. Non si erano mai capiti e forse non ci avevano mai provato; tuttavia, dopo la morte dei suoi adorati nonni, quella di Julian fu una botta piuttosto pesante da digerire. Decise di ritornare a casa e di prendersi un anno sabbatico dagli studi.
Stanca dal viaggio spossante di due ore di aereo, Andrea vedeva appena i vialetti e i parchi colorati che riempivano i suoi pomeriggi da bambina. Un po’ le erano mancati, ammetteva, ma non voleva dimenticare il motivo per cui se n’era andata: la vita nelle strade sterrate di Chalk, il suo villaggio natale, le era troppo stretta.
Ansimò, mettendo piede sul terreno polveroso non distante da casa sua, guardandosi attorno con velata nostalgia. Sua madre le corse incontro quasi inciampando sui suoi piedi, visibilmente commossa, mentre suo padre le diede una pacca su una spalla e poi un moderato abbraccio. «Bentornata a casa».
In questi anni, notò che i suoi genitori non erano cambiati affatto: l’aspetto fisico forse si era arrotondato un po’, ma la voce squillante e i modi di fare sbarazzini di sua madre e la durezza quasi inespressiva di suo padre l’avevano riportata indietro nel tempo. Mancava solo Julian: quella presenza a tratti invisibile ma forte, con il suo temperamento vivace. A mettere piede in casa, eppure, le pareva ancora di sentirlo.
«Com’è successo?». Non poteva non fare quella domanda, l’aveva tenuta per sé tutta la sera ma non riusciva a mandare giù la sua minestra, quello stesso giorno a cena, se ripensava a lui che non c’era più. I suoi genitori la guardarono appena. Un incidente, le dissero al telefono. Ma Andrea sapeva che non era vero, c’era dell’altro che non le volevano dire. Ma non lo avrebbe scoperto quella notte. Andò a dormire con un peso sullo stomaco e restò sveglia per la maggior parte del tempo, rigirandosi fra le lenzuola.
 
La mattina, Andrea si svegliò di soprassalto. Aveva sognato suo fratello in trappola nell’oscurità e lei non era riuscita a fare niente per aiutarlo, sommergendosi nell’angoscia e nelle lacrime. Ciò che più le aveva fatto paura, tuttavia, era vederlo in trappola insieme ad una bestia feroce. Si rigirò fra le coperte per degli attimi interminabili prima di decidere di alzarsi, bevendo subito dell’acqua per calmare il suo cuore. C’era qualcosa nella scomparsa di Julian che non riusciva a capire. Si rivestì di corsa e chiudendosi ben stretta fino al collo una vecchia camicia, sentendosi ancora parte integrante di quel mondo che era Chalk, decise di andare a trovare il vecchio Bob, l’anziano ma sempre efficiente sceriffo della zona.
Una volta varcato l’ingresso ad arcata, tutti smisero di fare ciò che facevano e andarono ad abbracciarla, felici del suo ritorno a casa.
«Non ci credo… Che mi venga un colpo!», esclamò una voce grossa, accompagnata da un uomo altrettanto robusto, dai pochi capelli bianchi e dai baffoni argentei. Era come rivedere un vecchio filmino per Andrea, uno qualsiasi dei suoi primi compleanni, poiché quell’uomo era sempre uguale.
«Bob», gli sorrise e lo abbracciò come si doveva a un vecchio amico di famiglia.
«La nostra stellina è tornata finalmente a casa, eh?», disse lui con un sorriso estasiato ma Andrea ricambiò solo appena, ricordandosi il motivo per cui era veramente tornata.
«Già, per…», alzò un braccio e lo ribatté sui fianchi, abbassando lo sguardo. «Julian. Sono corsa appena ho potuto». I suoi occhi azzurri si posarono su quelli grigi dell’uomo, che spense il suo sorriso e la involse con un braccio, spendendo appena mezza occhiata per guardarsi intorno.
«Sì, piccola, è stata una cosa terribile», rispose e la trascinò lentamente nel suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle.
Andrea si guardò intorno senza interesse, fermandosi alla scrivania, sistemandosi la coda bassa dei suoi capelli. Aspettava di risentirlo parlare ma lo sceriffo ci stava impiegando più del dovuto e la cosa la mise sulle spine: cos’era successo davvero a suo fratello?
«Julian era scomparso da un po’ ma non ci siamo spaventati subito, sai com’era…», il suo volto sbiancò, afferrando la sedia della scrivania e porgendola alla ragazza, che rifiutò di sedersi. «Sai anche tu com’era fatto… quel santo ragazzo! A volte lo si cercava ma dormiva fuori, sono cose che succedono». Andrea aveva una terribile voglia di bloccarlo, perché il suo sproloquiare era diventato sintomo di nervosismo, che stava contagiando anche lei, mordendosi un labbro. «Beh, per farla breve… Mi dispiace», prese una breve pausa, «piccola, tuo fratello è stato ucciso».
Si sentì inghiottire e prese un grande respiro, guardandosi attorno, abbassando e rialzando lo sguardo, trattenendo le lacrime.
«Da chi? Perché?», chiese subito ma Bob scosse la testa.
«Ancora non lo sappiamo», spalancò le braccia, interrotto dalla porta che si era aperta all’improvviso da un giovane in divisa. Quest’ultimo stava per parlare ma notando che lo sceriffo non era solo si zittì e i due si scambiarono un’occhiata d’intesa.
Era strano, perché Andrea era sicura di conoscere tutti quelli che abitavano a Chalk, ma quel giovane non era un viso noto né aveva nulla di familiare. Dovendo aver notato l’aria interrogativa stampata sul volto di Andrea, lo sceriffo fece accomodare il ragazzo e lui si mise ritto con la schiena, presentandosi con una calda stretta di mano. «Hugh Thomas, vicesceriffo».
«Andrea Armell, piacere».
Appena le loro mani s’incontrarono, Andrea sentì una strana scarica adrenalinica mai provata. Chi era quel ragazzo? Possibile che non l’avesse mai visto prima?
I due si chiusero dentro l’ufficio e Andrea, tagliata fuori, decise di andarsene.
 
Non aveva voglia di rivedere i suoi genitori né tanto meno la sua stanza da letto, troppo vicina a quella di suo fratello che ora somigliava quasi ad un museo a lui dedicato, e decise di passeggiare. Era davvero da troppo tempo che non si perdeva fra i suoi pensieri, senza preoccuparsi troppo degli esami che doveva dare e quando, senza studiare e senza l’angoscia di non farlo mai abbastanza. In verità, tuttavia, avrebbe preferito pensare agli esami che a suo fratello. Doveva ancora ambientarsi a quell’idea della sua morte, poiché era abituata a non averlo intorno, e pensava di poterlo rivedere a breve, da un momento all’altro. Ucciso. Quella parola le stava rimbombando nella testa agli stessi ritmi del suo cuore, insieme al pensiero di aver conosciuto quel vicesceriffo. Quel ragazzo aveva qualcosa di strano, continuava a ripetersi, e non l’aveva mai visto.
Pensava che il ricordo di suo fratello era ancora così vivido da poter udire nella sua testa il rumore del suo pallone da calcio che rimbalzava, finché non si voltò e, dietro un albero, un pallone bianco e nero non volò per davvero oltre un cespuglio, incantando Andrea.
«Mi dispiace per tuo fratello». Riconobbe subito quella voce e le entrarono i brividi, rivoltandosi di scatto a fissare il volto duro del vicesceriffo. «So che era un bravo ragazzo», aggiunse poco dopo e Andrea si girò di spalle, scoprendo che il pallone da calcio era sparito.
«Sì», rispose lei, abbassando lo sguardo. Ancora non si capacitava del tutto di ciò che era successo. «Ci sono stati risvolti?», chiese poi e l’altro alzò gli occhi al cielo che si faceva più nuvoloso.
«Forse», ammise, prendendo il completo interesse di lei. «Ma è qualcosa di cui devo parlarti in privato». La fissò negli occhi e Andrea fece qualche passo indietro, entrando nell’erba e calpestando qualche fiorellino, facendosi seguire. Si nascosero dietro un albero e lei si appoggiò ad esso, pronta ad ascoltare ciò che aveva da dirle. In verità, Andrea trovava un po’ strano che il vicesceriffo appena conosciuto volesse parlarle in privato, lontano dalla stazione di polizia; ma era pronta ad ascoltare qualsiasi cosa pur di far luce sulla morte di Julian.
«Hai sentito anche tu…», quando il ragazzo esordì con queste parole, Andrea spalancò gli occhi, colta alla sprovvista; «quando ci siamo sfiorati, ho capito subito chi eri».
«Scusami?», apostrofò, storcendo un sopracciglio.
«Non è un caso che tu sia la sorella del ragazzo trovato morto», biascicò ancora e Andrea dovette fermarlo e farlo ripetere, perché non capiva di cosa stesse parlando. «C’è una ragione se tu sei qui, adesso…».
«Perché mio fratello è morto», rispose lei, inacidita, «e voglio scoprire cosa gli è successo».
«No. Sei qui perché è stato profetizzato», replicò il vicesceriffo, osservando le sue mani. «Lo stesso vale per me. Noi siamo connessi, Andrea».
Lei storse anche l’altro sopracciglio e sbuffò, visibilmente seccata. «Ok. Io credevo volessi parlare di Julian ma a quanto pare sei un matto… Dirò a Bob di rivedere la tua carica». Stava per svoltare l’albero quando lui la fermò ad un braccio e lei si spaventò, sussultando.
«Puoi non credermi ma accadrà. Sta già accadendo. Dobbiamo uccidere la Bestia», sussurrò e Andrea si liberò facilmente della presa, fissandolo per un breve attimo. Voleva dirgli qualcosa ma la delusione si era fatta più pesante e lo lasciò solo, ritornando al paese.
Una volta a casa, ebbe il modo di pensare a cosa le era successo. Constatò che qualcosa, in fondo, era davvero cambiata a Chalk: si era fatta più scura. Si era accorta di piangere mentre tentava di scrivere quella lettera di addio che avrebbe letto al funerale di suo fratello, e così guardò fuori, alla luce della Luna che le faceva compagnia. Udì l’insolito rumore di un pallone che rimbalzava e sbatteva contro un muro, così si alzò e abbassò lo sguardo oltre la finestra, scoprendo ancora quel pallone dal calcio che si fermava a poco da casa. Le gelò il sangue quando vide un ragazzino camminare lento verso di esso e prenderlo tra le mani. Le pareva di conoscerlo. Sapeva benissimo chi era. Quando Julian alzò lo sguardo verso di lei, di riflesso chiuse le tende e si allontanò dalla finestra con una mano alla bocca. Non poteva essere lui. Julian era più grande, era più alto, era morto. Si accostò alla finestra pian piano e scoprì la tenda lentamente, con visibile titubanza, tremando. Doveva essere un bambino che ancora non conosceva, magari dei vicini. Lo avrebbe scoperto a giocare e poi la madre lo avrebbe riportato a casa con una mano all’orecchio. Non poteva essere altrimenti, pensava, deglutendo. Guardò giù con paura ma scoprì che non c’era più nessuno. Il bambino se n’era andato. Tirò un sospiro di sollievo, voltandosi e ritrovandosi il ragazzino davanti alla porta della sua camera con il pallone tra le braccia.
 
Se qualcuno glielo avesse raccontato, non ci avrebbe mai creduto. Era assurdo anche solo immaginarlo per una persona come lei, dove la razionalità veniva prima di ogni cosa. Stava seguendo quel Julian fra gli alberi del bosco da parecchi minuti ormai e lui non accennava a fermarsi, né a rallentare. Seguiva costante un sentiero preciso e lei cercava di richiamarlo a sé con insistenza, senza riuscirci. Era sicura fosse Julian ma che lo chiamasse o meno, per lui era indifferente; voleva solo che lei lo seguisse. Quando si fermò, d’improvviso, quasi gli andò addosso finché non vide dove si trovavano: la casa dei nonni. Proprio come se la ricordava, sorgeva su una collinetta appena fiorita, con il cancello che circondava la proprietà. Si chiedeva perché l’avesse riportata in un luogo a lei tanto caro e si abbassò per cercarlo, scoprendo che era sparito ancora; solo il rumore del pallone da calcio che rimbalzava le dava la sua posizione e lo seguì. Il pallone era dentro al cancello e aveva appena smesso di rimbalzare, fermo sul prato del giardino. Del bambino non c’era traccia e Andrea si guardò attorno circospetta. Perché aveva lasciato lì il pallone? Dov’era andato? Voleva che lo raggiungesse? Sfiorò appena il cancello ma una grossa mano la fermò dal farlo e lei urlò, provocando un rumore sinistro all’interno della casa dei nonni.
«Sei matta? Che ci fai qui?».
Il vicesceriffo Hugh Thomas le prese la mano e la strinse tanto forte dal farle male, trascinandola via fra gli alberi, rifacendo il percorso contrario. Sentì un susseguirsi di rumori sempre più pesanti e sinistri all’interno della casa e il cancello che, cigolante, si era aperto. I brividi le salirono lungo la schiena, cominciando a correre più veloce. Tentò di chiedere al giovane cosa stava succedendo e chi abitava nella casa dei suoi nonni deceduti, ma lui continuava a correre senza degnarla di risposta. Vedevano l’erba che si muoveva sempre più vicina a loro, accompagnata da terribili rumori gutturali più simili ad un animale che ad un uomo. Quando si ritrovarono fuori dal bosco, Hugh Thomas si fece seguire fino alla stazione di polizia e chiuse il portone. I segretari all’interno del piccolo edificio continuavano il proprio lavoro incessanti e indifferenti all’arrivo dei due, così che lui le prese ancora la mano e la trascinò all’interno di un ufficio. La sua furia era palpabile ma la ragazza era troppo spaventata per darci peso.
«Cos’era? Cosa ci stava seguendo?», quasi urlò e lui si passò una mano sulla fronte, asciugando il sudore.
«La Bestia», enunciò il ragazzo. «Ancora non mi credi? Sei stata attratta in quel luogo perché sei una delle Chiavi».
Lei si appoggiò ad una scrivania e spalancò gli occhi, terrorizzata, allungando lo sguardo oltre la finestra, dove quel bambino tanto simile a Julian teneva ancora il pallone fra le braccia e la fissava con insistenza. «Dimmi… cosa sta succedendo», biascicò. Non era ancora certa di voler credere a profezie e bestie, ma dopo la corsa per scappare da un qualcosa che preferirebbe non incontrare mai e quel Julian che non la lasciava in pace, temeva di non poter fare altrimenti, almeno per il momento. Forse quel bambino cercava di dirle qualcosa e tutto era collegato alla morte di suo fratello.
«Io sono la Spada», disse il vicesceriffo con una luce di convinzione negli occhi. «Tuo fratello era l’altra Chiave ma è morto prima che potesse esserci utile». Notando lo sguardo sempre più sconcertato di lei, il giovane prese un grande respiro e decise di riprovare dall’inizio. «La profezia è arrivata a me da mia nonna. Lei abitava qui a Chalk prima di morire e me l’ha raccontata spesso quando veniva a trovarci: chiaramente io non ci credevo, per me era solo una favola come un’altra, finché non sono venuto qui per lavoro e ho trovato quella casa. Ho capito così che tutto stava per avverarsi e che dovevo trovare le Chiavi se volevo che tutto finisse. Sfortunatamente, tuo fratello morì il giorno stesso che mi trasferii qui», buttò d’un fiato e Andrea lo squadrò perplessa. Non sapeva perché credergli, ma quando rivedeva il bambino nella finestra sempre più vicino a loro deglutì e pensò di dargli un’occasione. «Magari ti sembrerà assurdo ma è la verità. È la maledizione di Chalk. Mi ha raccontato che qualche decennio fa, una ragazza della nostra età era stata sedotta e abbandonata da un uomo; lei aveva grandi progetti, pensava di costruirsi un futuro, finché non scoprì che lui aveva un’altra e che lei era stata solo un passatempo per lui. I due erano prossimi al matrimonio e lei, che era una strega, lanciò la maledizione: come lui era stato un animale a comportarsi con lei e ad averla ingannata, sarebbe nato un bambino con istinti animali tanto feroci che, una volta ragazzo, avrebbe compiuto le più atroci nefandezze a Chalk, per vendicarsi al suo posto», aggiunse il vicesceriffo.
«Cos’è successo alla strega?», chiese di punto in bianco e il viso del giovane s’incupì.
«È morta. I suoi parenti l’avevano spinta al suicidio per disonore».
Le Chiavi avevano le carte giuste per sopravvivere all’interno della casa dove si trovava la Bestia e la Spada era la sola a poter eliminare il male. Così aveva proseguito a raccontarle ma Andrea si sentiva stanca e voleva solo tornare a casa a riposarsi. Salutò Bob, che le disse di avere una pista sull’assassinio di Julian, e tornò a casa guardandosi intorno come se, da un momento all’altro, potesse fare la stessa triste fine di suo fratello. Hugh Thomas era convinto che la Bestia avesse ucciso una delle Chiavi perché, senza di loro, la Spada non avrebbe potuto vincere. La prossima era lei. Disse che la giovane donna era buona ma si era sentita umiliata, e per questa ragione aveva lanciato la maledizione ma lasciato un modo per poterla rompere.
Si chiuse in casa e spiò attraverso le finestre per minuti che sembravano un’infinità, prima di essere sorpresa da suo padre, che la chiamò per mangiare qualcosa. Andrea passò l’intera serata a guardarsi attorno per paura di veder riaffiorare quel bambino o la Bestia che abitava a casa dei suoi nonni. Si domandava il perché avesse scelto proprio quella casa per nascondersi e perché lei stessa, impaurita, decise di non chiedere nulla ai suoi genitori.
Lei era la Bussola. O così le aveva rivelato il vicesceriffo. Indispensabile per poter arrivare alla Bestia ma non era sicura di volerla affrontare. Julian era invece l’Innocenza. La Chiave dell’Innocenza avrebbe aiutato la Spada a trovare i punti deboli della Bestia, che sua nonna gli aveva raccontato essere invulnerabile se non per dei dettagli. Andrea si domandava se, senza suo fratello, sarebbero stati comunque capaci di farcela.
Andò a letto presto quel giorno e si coprì fino alla punta del naso, prendendo sonno per necessità.
Vide ancora il piccolo con il pallone fra le braccia ma questa volta era più sicura che mai che fosse suo fratello Julian da bambino. Stava giocando a pallone sotto un filtro scuro di tenebra e Andrea, anch’essa una bambina dalle lunghe trecce, si accostava a lui con indecisione. Voleva salvarlo, questa volta. Urlò il suo nome un paio di volte ma lui non la degnava di attenzione, proprio come quando erano davvero bambini e giocavano distanti. Poi però, una luce irruppe nel sogno e una figura incappucciata corse incontro ad Andrea, sbattendole addosso, gettandola a terra con forza. Ritrovandosi a poco dal viso della figura coperta, scoprì che non era nient’altro che un bambino un po’ più grande, ma il suo viso era tumefatto, con gli occhi l’uno diverso dall’altro e i denti sporgenti, dove una fine bava a lato di essi minacciava di caderle addosso. Il ragazzino con il cappuccio si alzò solo quando il pallone di Julian gli finì ai piedi e i due si fissarono intensamente, prima che Andrea si svegliasse.
Che quel bambino incappucciato rappresentasse la Bestia? Pensò Andrea, rivestendosi, quella mattina. Scese le scale per fare colazione e stava per salutare i suoi genitori quando si accorse di essere sola a casa, così uscì. Doveva assolutamente rivedere Bob e parlare con lui in merito ai progressi sulla morte di Julian. Si guardò intorno con interesse ma sembrava che anche quel fantasma del passato avesse deciso di lasciarla sola, al momento. La porta della stazione di polizia era spalancata come tutte le mattine ma una lunga fila di persone entrava e usciva, mostrando i loro visi coperti di incredulità e tristezza. Corse gli ultimi metri quando capì che qualcosa non andava. La porta dell’ufficio di Bob era aperta e tutti entravano e uscivano dal suo interno; la colpì molto una delle segretarie che piangeva a dirotto, con gli occhi arrossati. In quel momento Andrea capì e quasi le mancò l’aria, cercando di divincolarsi fra la folla per raggiungere Bob. Lui era a terra, il corpo massacrato e il sangue schizzato ovunque all’interno delle mura del suo ufficio.
Andrea tremò e si sentì mancare le forze, ma proprio mentre le gambe stavano per cederle, due mani la mantennero in piedi e la trascinarono via, fuori dalla stazione. Hugh Thomas aveva il terrore negli occhi ma si manteneva straordinariamente lucido, mentre le viscere di Bob rimbalzavano nella testa di Andrea come in un vecchio film del terrore.
«Dobbiamo ucciderla», tuonò il giovane, stringendo i pugni. «Dobbiamo trovare la Bestia e ucciderla. Oggi. Sappiamo chi è stato, non possiamo permetterci che ammazzi ancora».
Sapeva che aveva ragione ma non riusciva a pensare ad altro se non a quel vecchio amico di famiglia steso a pezzi sul pavimento del suo ufficio, dove per trent’anni aveva cercato di abbattere il crimine nella sua cara Chalk. Le faceva male la testa, i colori cominciavano a sembrarle più forti e quasi cadde a terra, in un tentativo di allontanarsi dal vicesceriffo. Voleva solo trovare i suoi genitori e piangere fra le loro braccia; o in alternativa accasciarsi a terra e ripensare a tutto quel sangue. Per un attimo rivide sfocato il piccolo Julian che aveva iniziato a far rimbalzare il pallone, non distante da lei, e poi decise di correre via. Hugh Thomas non aveva avuto tempo per fermarla. Rientrò in casa e sbatté la porta; stava per gridare colta dalla paura ma si fermò, quando udì dei singhiozzi fini e leggeri che volavano nell’aria. La voce era indubbiamente quella di sua madre e la prima cosa che venne in mente ad Andrea, era che, anche loro, avevano appena saputo della morte di Bob. Trascinò i piedi fino alle scale che portavano alla cantina, cercando di mantenersi per un attimo lucida e fermando le lacrime. I suoi genitori discutevano a bassa voce, lì, al sicuro fra la lavatrice e gli scatoloni degli addobbi natalizi. Perché parlarne lì? Cos’era tutto quel mistero? Fece un passo in più verso gli scalini e la voce di suo padre si fece più forte di punto in bianco: «È stato lui, ormai non c’è più alcun dubbio! Smettila di rifiutare quest’idea». Andrea deglutì ed aguzzò le orecchie. Lui?
«Julian aveva detto che…», esordì sua madre con un filo di voce appena chiaro ma suo padre quasi le parlò sopra, interrompendola.
«Julian è morto! Mettitelo in testa! Ci ha mentito e lui lo ha ucciso».
La testa le girava ancora vorticosamente e nell’intento di non cadere dalle scale, Andrea fece scricchiolare troppo il legno degli scalini e i suoi genitori si bloccarono, alzando la testa e scoprendo la figlia ad origliare.
Dopo pochi attimi di incertezza, i signori Armell accettarono la figlia nel loro piccolo angolo di discussione e lei scese le scale con la gola in fiamme. Loro sapevano qualcosa e non le avevano mai detto nulla. E forse neppure a Julian, che era morto solo, con l’accusa di una bugia.
«Dobbiamo dirti una cosa», annunciò suo padre. Andrea era certa che glielo dicesse solo perché temeva che avesse ormai ascoltato troppo del loro dialogo e che era dunque troppo tardi per tenerla all’oscuro delle cose. Sua madre abbassava lo sguardo con disapprovazione e si passava i denti sulle labbra con fare morboso. Cosa sapevano della morte di Julian? E dello sceriffo? Conoscevano anche loro la Bestia e la maledizione di Chalk? «Tu e Julian avevate un fratello», riprese poco dopo e il cuore di Andrea si fermò, mentre spalancava i suoi occhi. Un fratello? Sua madre singhiozzò e scoppiò come un vulcano in eruzione, quasi in preda a delle urla.
«Mi ha costretta a lasciarlo!», indicò l’uomo con furia cieca, mentre lui stringeva i denti e inarcava le narici, condannando l’accusa rivoltatagli. «Kit era… era».
«Un mostro!», esordì nuovamente suo padre, stringendo i suoi pugni, «Era nato deforme, non era umano». Andrea rivide il volto del bambino incappucciato del suo sogno e un ricordo riaffiorò in quel preciso momento nella sua testa, come se potesse smuoverlo solo ora da una coltre di terra su cui era rimasto coperto per tutti questi anni.
Era a casa dei suoi nonni e giocava sull’altalena, quando un bambino coperto da un cappuccio riuscì a superare il bosco e spalancò il cancello aperto, fermandosi all’entrata, guardando al di là di questa. Andrea si era fermata e l’aveva osservato a lungo prima di scendere e provare ad avvicinarsi a lui. Raccolse un fiorellino bianco fra i tanti del giardino e si avvicinò a lui con quello fra le dita, portandoglielo al viso, che non vedeva. Il bambino però parve ruggire e le sbatté contro. La nonna uscì di casa appena sentì l’urlo di Andrea e scacciò quel bambino, portando lei in casa. Dalla finestra, Andrea lo vide ritornare e prendere quel piccolo fiore che era caduto, prima di andarsene. Kit. Quello era suo fratello. Quella era la Bestia.
 
Quando Hugh Thomas rivide Andrea riavvicinarsi alla stazione di polizia, la prese subito con lui e lei lo osservò rapita per attimi intensi. Aveva paura ma era irremovibile e avrebbe fatto di tutto per uccidere Kit. Ora la Bestia aveva un nome.
Gli raccontò dei suoi genitori, immaginando che, il giovane uomo che aveva sedotto la strega e poi abbandonata, doveva essere suo padre allora. La maledizione aveva colpito da vicino la sua famiglia, rendendo uno dei loro tre figli l’arma della sua vendetta e gli altri due le Chiavi per fermarlo. Era orribile come suo padre avesse deciso di abbandonare quel bambino nato malformato senza battere ciglio, credendo alla maledizione lui stesso più di chiunque altro. Lo avevano tenuto nella cantina per tanti anni finché, alla morte dei nonni, lo avevano trascinato laggiù e lasciato solo, chiudendo il cancello. Gli portavano da mangiare ma ufficialmente avevano due figli soltanto.
«Pochi mesi fa, tuo fratello Julian lo trovò. Disse di averlo ucciso perché lui aveva cercato di fare altrettanto», le aveva rivelato suo padre. «Tua madre ed io eravamo sollevati perché la maledizione si era sciolta… ma poi fu Julian a morire».
«Devo vedere il corpo di mio fratello», espresse e Hugh Thomas impallidì.
«No! Non c’è tempo per queste cose: non voglio svegliarmi domani mattina e sapere che sei morta, Andrea. Andremo ad uccidere la Bestia: adesso», replicò lui e impugnò la pistola, afferrandole una mano e trascinandola nel bosco. La ragazza decise di seguirlo e fargli strada, che se davvero era la Chiave della Bussola come aveva detto, lei lo avrebbe trovato, a patto, tuttavia, che uno dei suoi andasse a vedere il corpo di Julian. Voleva assolutamente capire com’era morto. Per quanto le facesse male il solo pensiero, doveva sapere se le modalità di uccisione erano le stesse del povero Bob. Doveva avere la certezza che era stato Kit ad ammazzare entrambi perché, anche se credeva alla furia omicida e ormai alla maledizione, quel bambino che raccolse il fiore bianco che le voleva donare aveva bisogno di una possibilità d’incertezza.
 
Vedeva quel bambino, Julian e il suo pallone, ovunque. Camminava a passo spedito verso la casa dei nonni con il vicesceriffo a seguito, ma solo lei sembrava vederlo: a sinistra, a destra, davanti e dietro più alberi contemporaneamente. Si sdoppiava e riappariva come una sagoma spenta e senza espressione. Si chiedeva se facesse parte dell’essere una delle Chiavi, l’avere le visioni. O forse cercava di dirle qualcosa che non riusciva ad afferrare.
Vide il cancello e il pallone di Julian, proprio come il giorno prima, al di là di questo. Andrea deglutì e sentì Hugh Thomas tremare, sotto quello strato di fredda pelle scultorea. Il cancello era aperto e Andrea allungò una mano, afferrata dal giovane poco prima di toccarlo. Si spaventò e lo fissò negli occhi vitrei.
«Paura, vicesceriffo?», lo canzonò.
Lui non rispose e le lasciò andare la mano, chiedendole di proseguire. Andrea aprì il cancello e un rumore più simile ad un ruggito si udì all’interno della casa, mentre all’interno del giardino, quel Julian raccoglieva il suo pallone.
 
Si presero per mano e sorpassarono il giardino senza difficoltà. Per un attimo, Andrea sperava di potersi perdere in dolci ricordi d’infanzia ma il cuore che le batteva furioso al petto le ricordava cosa stava succedendo e che non aveva tempo per cose del genere; quando aprì la porta con uno scricchiolio e vide l’interno, capì che il suo cuore aveva ragione. L’ingresso addobbato di quadri d’uccellini che ricordava quando era bambina erano stati sostituiti da un lungo tunnel scuro: non si vedeva la fine né nient’altro che non fossero pareti rocciose. Un passo all’interno e la porta si chiuse, sparendo. Entrambi tastarono con nervosismo il muro di pietra al suo posto e si guardarono negli occhi, sentendo in sottofondo il ruggito della Bestia.
Non poteva essere così lontana ma ricordava la casa dei nonni molto più piccola di quel Labirinto di pietra. Labirinto, sì, se n’erano accorti dopo poco con cosa avevano a che fare: ad ogni passo che facevano, dietro Andrea si formava un filo argenteo e luminoso sul terreno, che ricordava loro la strada già percorsa, mentre a sinistra e destra si disperdevano altri tantissimi e lunghissimi tunnel. Se non fosse per la ragazza che era la Chiave della Bussola, constava, Hugh Thomas si sarebbe certamente perso ed era felice di non aver mai provato ad entrare là dentro da solo. Tuttavia, il perdersi non era l’unico pericolo di quel luogo: si sentivano urla umane che niente avevano a che fare con la voce di Kit già sentita, cigolii sospetti, risate e pianti di bambini, qualcosa che si muoveva non distante dai due. Entrambi avevano la pelle d’oca e camminavano reggendosi a vicenda.
«Hai pensato a cosa fare quando troveremo Kit?», domandò lei e lui deglutì, tastando con la mano libera se la pistola era ancora nella sua fondina dove l’aveva lasciata.
«Gli sparo».
«Dove? Non è invulnerabile? Non abbiamo Julian…», lasciò la frase sospesa, irrigidendo i suoi denti quando vide un’ombra spostarsi rapida su un muro del Labirinto all’altro. Si chiese se, forse, il bambino che continuava a vedere e rappresentava suo fratello, potesse aiutarli in quello.
«Se si rialza, troveremo un modo. Deve esserci», commentò e tacque all’improvviso, mentre l’aria si fece più pesante e si bloccarono, arrivando a tossire. Una nube densa si era nascosta in quel vicolo ed entrambi si mantennero la gola, come se stessero respirando veleno. La nube bruciava i loro occhi ma Andrea, che tentava con ogni costo di tenerli aperti, scorse di nuovo quell’ombra e un braccio gelato la strappò dalla stretta del ragazzo, che al tempo stesso era stato colpito e lo sentì rantolare al suolo. Non riusciva a parlare dal dolore provato e presto si sentì picchiare alle braccia, cercando di arrivare al volto, e tentò di coprirsi, mentre urlava dal dolore. Quando riaprì gli occhi, si accorse che la nube era scomparsa e che Hugh Thomas si reggeva la testa con le braccia, ansimando. Entrambi avevano segni di graffi ovunque e, con fatica, la ragazza si riaccostò a lui e cercò di tirarlo su. Erano stati aggrediti ma nessuno dei due sapeva ben definire da cosa. Sforzò i suoi occhi e nel tentativo di riaprirli vide il viso di quel Julian bambino sul suo, che la fissava senza espressione. Lei urlò e tornò indietro due passi, mentre il bambino si rimetteva ritto con la schiena e fece rimbalzare il pallone, riprendendolo stretto fra le braccia. La bocca del piccolo si mosse, staccando un labbro dall’altro con fatica, come colla, creando filamenti; Andrea non riuscì a non fissare intensamente il buco nero dietro di esse. Il bambino sembrava voler parlare per la prima volta, ma il giovane vicesceriffo la prese alle braccia e distolse i suoi occhi arrossati, scoprendo che rivoltandosi lui era sparito.
 
Si rialzarono con fatica ma ancora non sapevano che cosa stava attendendo loro oltre quel Labirinto di roccia, dalle falene di rugiada che esplodevano a contatto con la pelle come lava, alle risate dei bambini distanti che sembravano volerli prendere in giro, alle urla incessanti che parevano poter far esplodere le loro teste, a un esercito di robottini giocattolo dalle labbra dipinte di rossetto rosso, che avevano inseguito i due, armati di piccole fiocine, per tre lunghi corridoi, rischiando di far loro riprendere strade già percorse. Il vicesceriffo non voleva sprecare pallottole contro dei piccoli robot guidati alla cieca e i due non fecero altro che correre, cercando di essere più veloci. Una volta seminati, si accasciarono contro una parete e presero dei gran respiri, affaticati. Hugh Thomas vedeva la ragazza stremata e sudaticcia, voleva chiederle se stava bene, quando qualcosa vibrò all’interno del suo taschino e afferrò il cercapersone, stringendo i denti. Quasi strabuzzò gli occhi quando lesse il messaggio.
«Hector è passato a vedere il corpo di Julian, come volevi…», esclamò, «non lo ha trovato».
«I-In che senso? Come non lo ha trovato?».
«… è… scomparso», i suoi occhi vibravano, increduli. Come poteva un cadavere scomparire all’improvviso? Chi lo aveva portato via? E dove?
Non ebbero il tempo di guardarsi attorno che il ragazzo fu colpito di spalle da un corno che gli perforò la spalla. Sputò sangue, mentre Andrea, paralizzata dal terrore, si portò le mani alla bocca. Quando il corpo di Hugh Thomas cadde, dietro di lui comparve un uomo enorme, muscoloso, dalle narici gonfie e dalla pelle di più colori, con gli occhi diversi e i denti sporgenti. Kit, la Bestia. Manteneva in mano un lungo corno appuntito e ora zuppo di sangue fresco, denso, che gocciolava copioso. Si accostò ad Andrea ma ebbe un attimo di esitazione, il tempo che ci volle al vicesceriffo di impugnare la pistola e sparare contro quell’enorme ragazzo, che spaventato gli urlò addosso con tutto il fiato che possedeva, servendolo poi con un calcio.
Andrea non sapeva cosa fare. Erano al capolinea. La Spada aveva fallito e lei era solo la Bussola, senza la forza necessaria né un’idea per abbatterlo. Il fiore bianco le ritornò alla mente e si chiese se veramente, dopotutto, avrebbero dovuto ucciderlo. Aveva visto con i suoi occhi la forza di cui era capace Kit, eppure qualcosa in lei la fermava. Era suo fratello. Il suo unico fratello ancora in vita e forse era sciocco desiderare di conoscerlo e di rimediare alle sue sofferenze ma… Quel ragazzo era davvero un mostro come lo aveva etichettato suo padre? Era stata davvero la maledizione della strega a renderlo loro nemico o erano state le sue esperienze con la vita a formarlo? Chi era davvero quel Kit, che le sbatté addosso con violenza ma raccolse il suo fiore?
La Bestia l’osservò interi minuti senza muoversi, come se pensasse alla sua prossima mossa, iniziando poco dopo a girarle intorno e lei sbatté con le spalle al muro del Labirinto. Nemmeno si accorse di aver iniziato a piangere. Hugh Thomas le sibilò di scappare ma non riusciva a muoversi e non lo avrebbe lasciato lì a morire. Il Julian bambino comparve in quel momento alle spalle di Kit e per la prima volta, lo vide senza pallone e con un’espressione sul volto: era adirato. Perché Julian era arrabbiato? Perché entrambi loro avevano fallito? Perché pensava di poter costruire qualcosa con quel Kit, dimenticando che era stato il suo assassino e quello di Bob? Poi le venne in mente una cosa, come una scintilla nel buio: quella Bestia non aveva alcuna intenzione di farle del male. La fissava intensamente, immobile. Insieme a quella rivelazione, vide dei petali bianchi scendere dallo scuro soffitto del Labirinto, come neve. Era stato Kit a crearli? Si ricordava del fiore bianco? E se era stato Kit a crearli, come? Come aveva creato il Labirinto? Come aveva creato quelle insidie che avevano superato prima di incontrarlo? Dei bambini che ridevano nello schernirli, dei giocattoli con la bocca segnata male con un po’ di rossetto, delle persone che li avevano picchiati… Allucinazioni. Esperienze di vita, l’innocenza di Kit. Innocenza… Spalancò gli occhi e tutto le corse limpido nella mente, come un vecchio film: perché nel suo sogno, era Julian quello nell’oscurità?
Vide Hugh Thomas alzare il braccio e quasi premere il grilletto, ora che ce lo aveva davanti doveva essere più facile, ma Andrea sgranò gli occhi e gettò Kit a terra, sfiorando di poco il proiettile con un braccio.
«Sei matta?», sperava di potergli gridare, con quel filo di voce. «La Bestia… deve morire».
«Non è lui la Bestia! Non è lui», gli urlò e un pallone da calcio le rotolò ai piedi. Questa volta era certa che anche il vicesceriffo potesse vedere quel pallone, poiché lo seguì con lo sguardo.
«U-Ucci-Uccidere tutti», quella esaltata voce femminile riecheggiò per il Labirinto e Kit si mantenne la testa fra le braccia, inchinandosi come se ne avesse timore. «Tu pensi di poterlo fermare, ma la Bussola non può niente senza la Spada e senza l’Innocenza che s’è perduta», rise. «E così sei solo tu, presto morta».
Andrea strinse i pugni e si asciugò le lacrime agli occhi. Voleva replicare ma presto ricomparve il piccolo Julian che non era più interessato al pallone, ma a lei. La bocca del bambino si spaccò e con crepe e filamenti formò un sorriso altissimo, scoprendo le tenebre al loro interno. Si stava pericolosamente per avvicinare a lei, quando una forte stretta le involse un braccio e Kit la strattonò via, correndo per il Labirinto.
«Fiore-bianco», continuava a ripetere, come mosso da un sonnambulismo appena cosciente.
La loro corsa si interruppe solo quando apparve quell’ombra alta, snella, dai capelli corvini. Julian. Quello vero, pensò Andrea, con nuove lacrime agli occhi. Suo fratello era vivo ma era cambiato, era diverso, era malvagio. Glielo lesse negli occhi scavati, dove solo tenebra sembrava poterci albergare.
«Andrea», sussurrò lui, mostrando un tenero sorriso. La ragazza stessa stava per commuoversi e l’idea di abbracciarlo si fece pesante, combattuta solo dalla lucida paura di Kit nel vederlo, che si era nascosto dietro di lei come un bambino.
«Cosa gli hai fatto?», gli chiese e Julian frenò il suo entusiasmo.
«Mi ha aiutato a inscenare la mia morte e l’ho addestrato alla Vendetta», sorrise pacato. «Chalk deve pagare».
«Non sei tu a parlare, Julian», urlò. «È lei! È lei, tu sei un ragazzo buono».
Quella voce femminile si rifece nitida presso le mura del Labirinto e riecheggiò per prenderla in giro, ricordandole che Julian era sempre stato così, che non era buono, ma era sempre stato il suo centro per vendicarsi del torto subito. Lui dopotutto non sembrava darle torto, sorridendo estasiato mentre una manciata di ombre avevano cominciato a colpirli e a strattonarli, gettandoli a terra.
«Morirai, morirà, morirete», ripeté quella voce nell’aria, mentre il Julian bambino e la sua bocca spalancata del nero più buio si accostava con l’intento di mordere Andrea. Era finita. Davvero, questa volta. Chalk era spacciata, squartata come il suo povero sceriffo ucciso nel suo ufficio. Avevano sbagliato e stavano pagando. Non ci sarebbe stato alcun lieto fine.
La bocca del Julian bambino diventò enorme pronto per ingoiarla ma si fermò, quando le urla del vero Julian spezzarono la scena e tutto si fermò. Kit gli era saltato addosso e gli aveva strappato un braccio con tanta forza che sbatté contro una parete, svenendo. Julian rise dopo il momentaneo dolore poiché era sicuro della sua immortalità, ma non sapeva che Kit aveva dato appena modo alla Spada di trovare un punto scoperto: Hugh Thomas gli arrivò di spalle di soppiatto e sparò così tanti colpi alla carne viva che spruzzò sangue ovunque, macchiando le pareti di vivido color rubino.
 
Andrea restò in sospeso, osservando il corpo di suo fratello Julian che, senza vita, si accasciava a terra lentamente. Le parve di assisterci per un’eternità.
Perché doveva fare così male? Gli voleva bene, erano cresciuti distanti e diversi, ma voleva salvarlo, se non dalla morte, da se stesso. Non sapeva bene a chi dare la colpa di ciò che era successo, se al passato di suo padre, se a quella strega che aveva giocato con le loro vite, se a Hugh Thomas che gli sparò così tanti colpi da perdere il conto. Ma gli voleva bene. Per un attimo era stata felice di vederlo vivo tanto da poterlo anche solo toccare, ma era stato solo un incubo. Forse da quel momento in poi, avrebbe considerato suo fratello Julian come la vittima di una sfortunata serie di eventi.
Allungò il suo sguardo a Kit, che dormiva con la testa poggiata ad una parete, che pian piano riprendeva il tenue castano del legno del soggiorno dei suoi nonni. La casa stava ritornando quella di un tempo perché Kit aveva sconfitto i suoi mostri.
Hugh Thomas tossì e s’inginocchiò a terra dalla stanchezza, così lei gli andò incontro, pronta a reggerlo. Era messo male ma vivo.
«Pensavo…», mormorò lui, tentando di guardarla negli occhi, «di fare un viaggio… Voglio tornare a casa dai miei… Verresti con me, Andrea?».
Lei arrossì appena, lusingata, ma osservò con la coda dell’occhio l’unico fratello che le era rimasto e si morsicò un labbro. «Non posso. Ho Kit adesso. Mi prenderò cura di lui».
Il ragazzo ansimò e si distese a terra, in attesa dei soccorsi che aveva chiamato sul cercapersone. Andrea si rialzò e rivolse il suo sguardo ai mobili antichi dei suoi nonni ormai rotti e graffiati, segno del passato di Kit, da solo. Si avvicinò ad uno specchio quando vide che, appoggiato ad esso, vi era un tenero piccolo fiore bianco. Lui non aveva mai smesso di ricordare il loro incontro. Lo prese fra le dita e lo annusò, scoprendo come quell’odore le sapeva d’infanzia. Alzò lo sguardo e attraverso lo specchio vide rotolare un pallone da calcio in mezzo alla stanza. Spalancò i suoi occhi quando vide il Julian bambino raccoglierlo e poi fissarla.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Eccomi con una breve shot!

“Chalk” in inglese significa gesso, oppure creta. Non è difficile capire perché abbia scelto proprio questo nome per chiamare il paese colpito dalla maledizione ^_^
Conosciamo tutti il mito del Minotauro? No?
Allora… c’era una volta (?) un re di nome Minosse, che abitava a Creta. Un giorno, Minosse pregò il Dio del mare Poseidone di offrigli in dono un toro che avrebbe poi sacrificato al Dio stesso. Ma quando il toro giunse a corte, Minosse si accorse che era di una bellezza inaudita e non voleva ucciderlo, così ne sacrificò un altro. Siccome gli Déi sono tutto fuorché comprensivi, Poseidone s’incaz*ò non poco e inviò Eros, il Dio dell’amore, per far innamorare Pasifae, che era la moglie di Minosse, dello stesso toro. E così, per attimi di estrema passione (D:) tra il toro e la donna, nacque un fanciullo bizzarro, metà umano e metà toro. La testa del Minotauro era completamente di toro e aveva istinti animali e feroci, così Minosse decise di rinchiudere il poverello all’interno di un labirinto per non creargli problemi. Tuttavia, quando il figlio di Minosse Androgeo perì ad Atene perché era troppo bravo nei loro giochi e gli ateniesi si sentivano un po’ presi per il c*lo, lui decise di vendicare il povero figlio chiedendo agli stessi di inviare al mezzo bovino sette bambini e sette bambine ogni anno per farlo mangiare. Ci andava giù leggero. Così, di punto in bianco spuntò Teseo, figlio del re di Atene Ègeo, che si offrì volontario per far fuori la bestia. Arianna, figlia di Minosse e Pasifae, s’innamorò di lui, non voleva che crepasse in maniera orribile e l’aveva appena conosciuto, così offrì al giovane un gomitolo (il famoso “filo di Arianna”) per non perdersi lungo il labirinto. Una delle versioni del mito dice che il Minotauro era invulnerabile, così Teseo, che non poteva semplicemente abbatterlo con la sua spada, staccò un corno al Minotauro stesso e poi lo pugnalò con quello.
Non potevo riprendere il mito pari pari, non solo perché sarebbe stata una scelta infelice, ma perché Teseo mi è sempre stato un po’ antipatico, mentre ho sempre pensato che il povero Minotauro in verità è un buono. A suo modo. Dunque è già troppo se non ho fatto crepare Hugh Thomas, che “interpreta” Teseo nel mio scritto. Al contrario ho dato più risalto ad Arianna, in questo racconto è la protagonista, Andrea. Invece che dare un semplice gomitolo, ho reso le cose un po’ più fighe (?) rendendola la Bussola. Poi ho voluto giocare con Julian e Kit, che sono entrambi sia il Minotauro che Androgeo.
Alla fine del racconto, Hugh Thomas parla di un viaggio, ebbene questo c’è anche nel mito: Arianna salpa in volta di Atene con Teseo, solo che poi lui, come un pirla, l’abbandona su un’isola deserta e da quel punto in poi il destino della ragazza dipende dalle varie versioni del mito, da quello che la vede promessa sposa del Dio Dioniso, a quello che la vede piangente e sola perché Teseo era cotto di un’altra. Simpatico, il tipo.
Beh, la mia versione del mito è diversa, com’è giusto che sia: in questo caso, lei rifiuta perché deve prendersi cura di Kit. Tanto i genitori sono due babbei, perciò…
 
Allora. Diciamo che questo mio piccolo racconto è una specie di “esperimento”. Normalmente, io una storia del genere l’avrei scritta in almeno cento paginette, con passi in più, dettagli e morti. Una long, non certo una shot. Sono prolissa ed è stato davvero difficile per me riuscire a scrivere così tanto in poco spazio! Queste sono appena nove pagine e mezzo.
Ebbene, questa piccola storiella partecipa a ben due contest; ho cercato di prendere due piccioni con una fava. Un contest doveva essere un horror di massimo dieci pagine di word, l’altro aveva come tema i miti greci, che io ho sempre adorato. Ho fuso le due cose, anche perché non avevo abbastanza tempo per pensare a due trame diverse se ci tenevo a partecipare ad entrambi.
Il contest sui miti greci s’intitola Dal passato al presente., ha come giudice Shinkari e si trova sul Forum di EFP; l’altro è un contest di un gruppo su Facebook, di artisti nottambuli. È la prima volta che partecipo a un contest di Shinkari, è la prima volta che partecipo a un contest di quel gruppo e su Facebook in generale… ed è la prima volta che tento di contenermi in così poche pagine! È tutto un grande esperimento °-° Vedremo come andrà…
 
 
Grazie per aver letto fin qui e, se volete, lasciatemi un parere in recensione ^_^
 
Chu!

 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Horror / Vai alla pagina dell'autore: Ghen