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Autore: Deliquium    15/10/2014    6 recensioni
«Mi state mettendo alla prova?»
«Vedila così... Essere un Saint di Atena non è cosa da poco, tu lo sai molto bene, Angelo. E la costellazione che veglia sull'Etna non è una costellazione come tutte le altre...»
«Il Cancro, lo so.» Angelo si era gonfiato in petto. Sapeva tutto del Cancro. Era il suo segno ed era stata la costellazione di Manigoldo.
«Già, il Cancro.» aveva confermato il vecchio greco, con un sospiro.
Storia di come il Saint di Cancer divenne la Maschera di Morte.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cancer DeathMask, Nuovo Personaggio
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Sincretismo'
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Aetna


[ Alienazione ]


«Guardate. Guardate... lo straccione che viene dalla montagna. Dì un po' straccione, ce li hai i soldi?»
Era da più di un anno che in paese lo accoglievano in quel modo.
Avrebbe dovuto esserci abituato …
Incassò la testa e ficcò le mani in tasca. Le dita lacerarono il tessuto già liso e le monete che Petre gli aveva lasciato caddero a terra con un tintinnio agghiacciante.
Angelo si affrettò a raccoglierle, ma non era stato abbastanza veloce.
Le risate lo colpirono alle spalle come le scudisciate di Calò e i silenzi di Petre.
«Ehi, straccione che fai? Queste non le prendi?»
Angelo si voltò di scatto. Già gliene aveva date poche di monete Petre e alcune avevano pure pensato bene di ficcarsi sotto la scarpa di Michele.
Strinse i denti, così forte che poco mancava se li facesse partire tutti.
Avevano pressapoco la stessa età, ma Michele era di una spanna più alta e picchiava duro.
Una volta Angelo aveva reagito, in un modo che gli era stato vietato. Quella volta non ce l'aveva fatta a resistere. I calci erano stati più dolorosi delle volte precedenti e il sapore del sangue gli aveva fatto venire da vomitare.
Quando era ritornato a casa, Petre l'aveva picchiato fino a lasciarlo senza fiato.
«Mai e poi mai dovrai usare il tuo cosmo contro un normale essere umano. Mai.»
Quel mai aveva rimbombato nella sua mente per giorni.
«Che senso ha, maestro, possedere la forza, se non la posso usare? Come posso essere un Cavaliere se quei bastardi mi ammazzano prima?»
Petre l'aveva guardato con la piega delle labbra ridotta in una linea sottile.
«Se non sei in grado di fronteggiare i tuoi coetanei con le tue sole forze, allora non sei degno di essere un Cavaliere di Atena.»

«Allora, non le vuoi queste monete?»
Angelo assottigliò gli occhi.
Puoi pestarmi fino quasi ad uccidermi, ma non ti darò mai la soddisfazione di vedermi abbassare lo sguardo.
Michele piegò le labbra in una smorfia, poi si sporse verso il suo compagno e gli sussurrò qualcosa all'orecchio.
I due scoppiarono a ridere, poi Michele tornò a fissarlo.
Angelo sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Si vergognò e provò rabbia verso se stesso.
Un giorno...
«Il mio piede non vuole sapere di muoversi, però se lo lecchi potrebbe farlo. Avanti... Leccalo.»
«Leccalo. Leccalo.» incalzarono i suoi amici.
Era pronto a sopportare un'altra punizione da parte di Petre. Anche se questa volta lo avrebbe ucciso, era pronto.
Si guardò le mani.
La forza? Non la possedeva.
Aveva il cosmo... sì, ma non era potente... non era forte. Un ragazzino poteva spaccargli la faccia quando voleva. Se fosse stato più forte, gli altri lo avrebbero rispettato, lo avrebbero temuto...
Sentiva gli sguardi di tutti. Gli amici di Michele, gli uomini seduti fuori dai bar che circondavano la piazza come vedette, le ragazze che passeggiavano, le donne con i loro sacchetti di carta, i muratori che sistemavano il tetto del Comune. Persino i gatti e i cani lo guardavano.
A denti stretti, fissava Michele negli occhi. Neri come la pece. L'unica cosa che vedeva.
Lentamente, azzardò un'occhiata attorno a sé.
Il mondo continuava.
Gli uomini giocavano a carte attorno ai tavoli sotto le verande dei bar; le ragazze ciabattavano, le labbra strette attorno alle cannucce per bere le granite al limone sciolte dal caldo; le donne camminavano veloci, la loro bellezza sfiorita nella quotidianità dei bambini urlanti, delle pentole incrostate, del bucato odoroso di Marsiglia; e il rumore degli scalpelli non si era mai fermato. Persino i gatti e i cani lo ignoravano.
E provò dolore.
Per essere invisibile.
Per essere parte di questo mondo abituato a non vedere.
Soprattutto le cose che non andavano. Le ingiustizie. L'applicazione della legge del più forte.
Di sensi l'uomo ne aveva cinque, se gli andava bene “sentiva” le cose, guidato dal sesto senso, ma a Linguaglossa la gente di sensi ne aveva al massimo due. E forse nemmeno quelli. Perché sarebbe stato un problema se avessero sentito l'odore del sangue o della legna bruciata.
Ed era così ovunque, se non peggio.
Il male della sua terra.
Di cui non voleva parlare.
Il male che lui non poteva estirpare perché apparteneva a questo mondo. E lui era sospeso nel mito.
E provò rabbia.
«Tienitele e ficcatele nel culo.»
Si girò. Meglio digiunare per tre giorni, piuttosto che dare una simile soddisfazione a quel bastardo. E si fermò.
Ogni pensiero era scappato via. C'era solo il vuoto e due occhi che parevano il pozzo dell'Ade.
Lei aveva capelli come onde di petrolio e una bocca che era come una fragola matura. Guardava verso di lui, ma non era lui che guardava. Un lieve movimento delle labbra, un sorriso impercettibile.
«Levati dal cazzo, straccione. Non vedi che stai in mezzo... »
Michele lo spintonò via.
«Rosalia, sei tornata. Non me lo avevano detto.»
«E perché avrebbero dovuto dirtelo?» rise lei.
Angelo arretrò.
Rosalia.
Abbassò lo sguardo.
Le mie scarpe.
Le vide come se non le riconoscesse. Vide la pelle mangiata dal tempo, le cuciture allentate. Poteva sentire i sassi camminando.
I pantaloni che indossava erano stati lavati così tante volte, che presto non solo la fodera delle tasche si sarebbe lacerata.
Alzò la testa di scatto.
Lei lo stava guardando.
Rosalia, la bella. La regina di maggio di Linguaglossa, della quale aveva solo sentito parlare. Partita per la Corsica quando lui era arrivato.
Sta guardando le mie scarpe bucate, i miei pantaloni lisi, la giacca con le toppe.
Si girò.
Le voci dei ragazzi di paese gli giungevano alle spalle. Non si sforzava nemmeno di evitarle. Si lasciava colpire, poiché non poteva sentire.

«Credevo di averti mandato a Linguaglossa per le provviste.»
Petre lo accolse con un'occhiata dal tavolo al quale era seduto.
Angelo si voltò a chiudere la porta.
«Ho avuto un problema.» disse senza alzare lo sguardo.
«Mhh...» si limitò a borbottare Petre.
Angelo si azzardò a sollevare la testa, non appena sentì il rumore della sedia che si spostava.
Petre era strano.
Ci mise un po' a capirlo.
Non aveva bevuto. Era perfettamente sobrio.
Angelo sbarrò gli occhi per la sorpresa.
Ad essere sinceri, non c'era molta differenza tra un Petre sobrio e un Petre ubriaco, salvo qualche dettaglio.
Quando beveva, gli occhi gli diventavano lucidi, come se fosse perso in un sogno tutto suo; il corpo ondeggiava lievemente, quando stava in piedi; strascicava le sillabe giusto quel poco da rendere il suo lieve accento straniero, più marcato.
Petre trasse un respiro profondo.
«Avete finito il vino, maestro?» chiese Angelo.
L'uomo abbozzò un lieve sorriso, guardando la superficie del tavolo, sgombra da qualsiasi cosa potesse suscitare interesse.
«Per il divino Dionisio, no, Angelo. Di vino ne ho in abbondanza, ma per un po' sarà meglio che io non beva.»
«Perché, maestro?»
Petre questa volta lo guardò.
«Perché sei qui da troppo tempo e c'è troppo poco tempo.»
Angelo avanzò di scatto, i denti stretti.
«Ho fatto qualcosa che non va, Maestro? Volete cacciarmi?»
Petre lo fissò. Lo sguardo addolcito. Angelo si sentì venire meno, non era abituato ad essere guardato in quel modo.
«No, Angelo. Tu non hai fatto nulla.»
L'uomo si alzò e gli diede le spalle. Si diresse verso la credenza e la scatola di latta che teneva sopra il ripiano.
«Ecco, tieni.» disse, tendendo la mano verso di lui. «Domani mattina, torna a Linguaglossa.»
La mente di Angelo era bloccata, ma non il suo corpo. Scattò in avanti e prese i soldi dalla mano di Petre.
L'uomo tornò a sedersi, e si immerse nuovamente in quei pensieri che lo avvolgevano quando Angelo era tornato.
Pensieri che lui avrebbe tanto voluto conoscere.
Linguaglossa... tornarci di nuovo. Dopo quell'affronto, dopo quel giorno...
Angelo sentì una morsa allo stomaco. Se la ricordava molto bene quella sensazione. L'aveva provata la prima volta che gli spiriti erano venuti da lui. Paura e eccitazione. E quell'emozione non l'aveva mai provata in tutte le volte che era stato in paese, fino ad ora.

«Ti ho visto, l'altro giorno. Perché sei fuggito?»
Angelo fece l'unica cosa che il suo corpo poteva fare in quel momento. Trasalì.
Aveva sentito la sua voce una sola volta.
La ricordava.
Le dava le spalle e la vedeva. Come se l'avesse guardata per anni.
Avrebbe potuto descriverla con la precisione di un ritrattista.
Il suo cuore, i suoi pensieri...  Non gli appartenevano. Sentiva dentro di sé, altro. Ricordi e esperienze lontane.
“A vent'anni un Saint è vecchio. A quindici, un adulto fatto e finito.”
Ma lui non aveva ancora quindici anni.
Si voltò, accogliendo il suo destino.
«Non sono fuggito. Avevo delle commissioni da fare.»
Rosalia arricciò il naso.
L'abito leggero, spruzzato di fiori. Le ballerine con qualche centimetro di tacco. La caviglia sottile e i polpacci, lisci come quelli di una statua greca.
«Non ti ho mai visto da queste parti?»
Angelo si strinse nelle spalle.
Stava imparando a uccidere con il cosmo e stava imparando a gestire il potere del Cancro, anche se Petre si era guardato bene dal dargli spiegazioni precise.
Esercitava i sensi, l'equilibrio, la rapidità.
Percorreva il tragitto Buco-Linguaglossa più volte alla settimana perché Petre faceva apposta a dargli liste della spesa sbagliate.
Sarebbe stato più semplice ordinargli di correre avanti e indietro, ma Angelo sapeva che il suo Maestro controllava i suoi tempi. Per questo voleva che facesse sempre lo stesso giro e entrasse sempre nelle stesse botteghe.
Petre gli stava insegnando molte cose. E, suo malgrado, anche Calò gliele aveva insegnate.
E se era per quelle cose che si facevano con le donne, anche quelle, Angelo, le aveva già imparate, a Catania.
Quindi sapeva dove mettere le mani.
Ma a quello che sentiva ora, nessuno lo aveva mai preparato.
Si accorse in quel momento, con imbarazzo, di non aver ancora aperto bocca.
«Sono di... vengo da Catania.»
Rosalia sorrise.
«Meno male. Credevo che avessi perso la lingua. Michele» Angelo si irrigidì, ma Rosalia non prestò attenzione al suo cambiamento d'umore. «Dice che vivi sull'Etna, con lo zingaro pazzo.»
Lo “zingaro pazzo”. Già... era così che i ragazzi di Linguaglossa chiamavano Petre.
«Petre non è uno zingaro. Le gente si sbaglia.»
«No... scusami. Non volevo essere offensiva.. io...» balbettò Rosalia.
Angelo si pentì subito di aver usato quel tono seccato.
«È che qui la gente lo chiama così.» s'interruppe pensierosa. Gli occhi bassi. «Io non sapevo nemmeno il suo nome. Pietro.»
Angelo rise.
«No, non è Pietro. Ci tiene molto alla pronuncia del suo nome... Petre.»
Rosalia ripeté il nome più volte, prima di produrre un suono corretto.
«Non è difficile.» rise. «Però, che buffo... non so ancora il tuo nome.»
Angelo sentì il cuore spalancarsi.
Glielo disse.
«È un bel nome. Un nome che fa stare bene. Io sono...»
«Sì lo so.» la interruppe, senza volerlo. Poi, resosi conto che lei poteva fraintendere un interesse che chiaramente c'era, si affrettò a precisare. «L'ho sentito l'altro giorno. Michele... Cioè, volevo dire. Rosalia.»

Rosalia la rivide.
Tre giorni dopo e poi di nuovo domenica mattina, all'uscita da messa.
Petre aveva capito che c'era qualcosa e, tutte le volte che Angelo gli chiedeva se dovesse andare a Linguaglossa, gli faceva notare «Ci sei già stato, l'altro giorno.», con uno sguardo complice che diceva più di mille parole.

Lui e Rosalia s'incontravano nei vicoli bui di Linguaglossa, a ridosso dei portoni. All'ombra delle arcate.
Nei cortili abbandonati e in fondo alle scale.
«Ti vergogni di me?» gli aveva chiesto lei, una volta, mentre allontanava il viso per fissarlo negli occhi.
Angelo aveva scosso la testa, ma non le aveva risposto.
Non lo sapeva bene nemmeno lui, perché si comportasse in quel modo. Perché cercasse le ombre per amarla, e perché preferisse che gli altri non sapessero.
«È meglio.» aveva detto dopo un po'. «Per te.»
Lei lo aveva guardato con durezza, le labbra strette.
Angelo si era allontanato da lei.
«Guardami.» le aveva detto. «Cosa credi che accadrebbe se sapessero che tu stai con me? Formeremmo proprio una bella coppia... La Regina di Maggio e il Pezzente della Montagna.»
«Sei un vigliacco.»
Lo schiaffo.
Una carezza per il corpo temprato dagli allenamenti.
Rosalia era così.
Dolce e impetuosa.
Folle nei suoi cambiamenti d'umore.
Per questo l'amava. Perché con lei l'amore si tramutava in ossessione e lui sperimentava sentimenti che non dovevano appartenergli.
«Un guerriero vive con intensità ogni suo istante, perché sa che quello dopo potrebbe essere morto.» questo gli era stato detto e questo consiglio scandiva lo scorrere dei suoi di istanti. Così Angelo viveva, divorato dalla fame.
Rosalia piangeva, la fronte contro il muro.
«A te non importa niente di me.»
Non è vero.
Angelo alzò la mano, per appoggiarla sulla sua spalla ma non lo fece.
«Sei come tutti gli altri. Vuoi solo infilarti tra le mie cosce.»
Sei ingiusta.
Pensieri.
Angelo taceva, mentre Rosalia lo accusava.
«È tardi.» le disse.
Tra tutte le cose che avrebbe potuto dirle, due parole che esprimevano impazienza.
Lei si voltò di scatto.
Il volto arrossato, gli occhi lucidi. Le labbra tumefatte perché non aveva fatto altro che morderle per la frustrazione.
Gli volò addosso.
«Scusami. Ti prego. Mi dispiace. Non volevo.»
Corte parole, inframezzate dai singhiozzi.
Perché ti scusi? Non hai fatto nulla.
Le prese il volto tra le mani.
«È meglio che vada, Petre avrà bisogno di me.»
Si lasciò il vicolo alle spalle. Come molte altre volte. I loro incontri, lunghi o brevi che fossero, attraversavano sempre tutti gli aspetti dell'amore. La felicità di rivedersi, la passione dei corpi, la gelosia del possesso, le accuse, e la frustrazione.
Dipendeva da lui, da quello che era, da quello che sarebbe stato? O da lei, da quel suo vedere le cose sempre più grandi di come in realtà erano?
Angelo scosse la testa.
Non lo sapeva, ma una cosa la sapeva.
Lei era la sorgente a cui l'assetato giungeva dopo essersi abbeverato in un deserto con i suoi fluidi.
Era il paradiso alla fine dell'inferno. E la perla nel letamaio dei porci.

Petre sedeva davanti alla casa. Angelo lo vedeva socchiudere gli occhi, per colpa della luce del sole.
«Un'altra volta.» ripeté.
Angelo si piegò in avanti e con uno slancio ripeté la verticale.
«Molto bene.» disse Petre. «Ora solleva il braccio sinistro.»
Preferirei il destro, pensò Angelo, mentre sollevava il braccio sinistro.
«Il tuo braccio più debole, vero? No, lavoreremo proprio su quello. Adesso distribuisci il peso del corpo sulle dita della mano destra.»
Angelo fece quello che gli era stato detto, contraendo i muscoli per conservare l'equilibrio.
«Ottimo. Stai andando bene.»
Petre si era alzato.
«L'equilibrio è importante, per te, Angelo. Devi imparare a conservarlo. Devi imparare a non lasciarti guidare dalle emozioni. Il potere che stai ricercando, Angelo, è molto forte. È un potere assoluto. Se imparerai a possederlo completamente, esso ti consentirà di vincere i tuoi nemici, senza combattere.»
Senza combattere?
«Senza combattere.» assentì Petre che gli aveva letto il pensiero. «Libera la mente, Angelo. Concentrati.»
Sono concentrato, accidenti.
«No. Tu non sei concentrato, tu credi di essere concentrato. Ma io leggo la tua mente. Essa vaga, Angelo.»
La mia mente?
Angelo strinse i denti. Di colpo quella finta concentrazione che credeva di aver raggiunto si spezzò e lui sentì che non sarebbe più riuscito a mantenere la posizione.
Lo sentì ancor prima che il suo corpo si inclinasse.
«Hai visto, Angelo? La tua mente era troppo piena e i pensieri creano ingorghi che impediscono al tuo cosmo di fluire. Ascolta.»
Angelo si era rimesso seduto e si massaggiava la schiena.
«Cosa devo...»
«Shhhh.» lo interruppe Petre.
Angelo tese le orecchie. Non sentiva niente. Niente all'infuori dei rumori che possono sentirsi sul versante di un vulcano, mai del tutto assopito.
«Odi?»
«Che cosa? Cosa devo sentire? La lava che borbotta? I massi che rotolano? Le fronde degli alberi smosse dal vento? Il canto degli uccelli o il frullio delle loro ali?»
Petre aveva il volto sollevato in direzione del sole, gli occhi chiusi.
Restava in silenzio. Segno che quel qualcosa che Angelo doveva sentire c'era ancora e Petre lo stava ascoltando.
Angelo fece come il suo maestro. Chiuse gli occhi e si mise in ascolto.
I rumori che aveva elencato si intrecciarono ad altri suoni. Diversi, più sommessi, ma non sconosciuti.
Angelo si concentrò. Gli venne facile questa volta. Si concentrò sui rumori di sottofondo. Il brusio che udiva era appena percettibile. Non ci avrebbe mai fatto caso. Se avesse continuato ad ascoltare senza cercare. Il brusio si fece più intenso, come se il rumore si stesse avvicinando. No, non era esatto. Era lui che scendeva in profondità, sempre più in profondità...
Aprì di scatto gli occhi.
«Non è possibile.» balbettò, mentre arretrava.
Da cosa? Da cosa stava arretrando?
Si guardò le mani. Guardò Petre.
L'uomo aveva riaperto gli occhi. Era tornato a fissarlo.
«Te lo avevo già detto, Angelo. Quando eri venuto qui per la prima volta. Ti ricordi?»
Angelo scosse la testa, senza smettere di arretrare.
Petre appoggiò la mano sulla spalliera della sedia e cominciò a trascinarla verso la porta della casa.
«Stai diventando più forte Angelo. Ciò che sei... ciò che rappresenti. Il tuo legame con i morti.»
Angelo girò la testa lentamente. Il sentiero, lungo il fianco dalla montagna. E poi il bosco. E Linguaglossa. E poi... lontano... ancora più lontano...
«Non puoi fuggire, Angelo.» Petre parlava dandogli la schiena. Il volto rivolto verso l'interno della casa. «Tu credi di poterlo fare, ma non accadrà. Loro sono con te, sempre. Devi imparare a comandare sulla morte, Angelo. Diventa ciò per cui sei nato. Ascolta la loro voce e guidali.»
«Chi? Chi devo guidare, Petre? Chi devo essere?»
Petre non rispose. Entrò nella casa, lasciando la porta aperta.
Angelo non si mosse.
Le voci dei morti erano tornate ad essere inudibili.
Non mi lasciano mai. Mai.
Voleva correre via. Lasciare tutto. Era la scelta migliore. Lasciare questo posto. Che senso aveva restare?



Nota dell'Autrice – Il rapporto tra Angelo e Rosalia evolve rapidamente e sembra parecchio incompleto. Ne sono consapevole, ma non mi andava di mettermi a parlare dell'innamoramento, del gioco di sguardi, del tu mi piaci, non lo so, se mi piaci pure tu... e il primo bacio e il primo questo... e bla bla bla...
Rischiavo di allungare il brodo e di mettere troppo in rilievo la storia d'amore, che è importante sì, ma non  in quanto storia d'amore.
Comunque, se alla fine di questo capitolo la vostra sensazione è quella di incompletezza, di disagio, di alienazione di fronte a questo Angelo (ancora non è Deathmask) che prova vergogna, sentimento stranissimo per come diventerà in futuro ... non preoccupatevi. È esattamente così che deve andare.
Ah, dimenticavo... una precisazione sull'età. L'incontro con Rosalia avviene più o meno un anno, un anno mezzo circa dall'arrivo di Angelo a Linguaglossa. L'età che Angelo in questo capitolo è più di 12 e meno di 15. Anche questa vaghezza è voluta.

   
 
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