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Autore: _Alexis_    16/10/2014    3 recensioni
Ripetuti e imbarazzanti incontri davanti ai cassonetti dell'immondizia pongono le basi per la nascita di un rapporto tra Levi, ex-detenuto, ed Erwin, un tipo strano.
per la serie socially awkward eruri.
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Irvin, Smith
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Una casa pulita, ampia e anche piuttosto vuota. Un vicinato silenzioso nei limiti del sopportabile. Non c’erano locali di particolare spicco o mal frequentati nei dintorni.
Più di quanto si potesse mai aspettare, se proprio doveva essere sincero con se stesso. Era una stringa di casette praticamente buttate sul ponte di Brooklyn, dal lato di China Town in quella periferia dove “statemi lontano, mi faccio gli affari miei”.
Era stato fortunato, Levi. Molto fortunato. Non aveva la benché minima intenzione di farsi coinvolgere ancora nei traffici illeciti della grande mela, cosa peraltro abbastanza difficile… ma non era uno da lasciarsi scoraggiare da tali difficoltà.
Aveva cambiato nome, creato una nuova identità completamente da zero, tagliato i capelli e si era trasferito il più lontano possibile dalla sua vecchia zona. Aveva pianificato tutto dal momento stesso in cui aveva messo piede in prigione: si sarebbe trovato un lavoro quantomeno rispettabile, avrebbe vissuto in pace e in tranquillità, praticamente in pensione.
Stronzate, si era anche ripetuto mentre faceva quei progetti. Tutte belle stronzate, ci sarebbe ricaduto e sarebbe ripartito da dove aveva lasciato prima di essere sbattuto dentro. Magari non lo avrebbero beccato di nuovo, ma avrebbe avuto sulla coscienza la vita di qualche testa di cazzo come lui.
-Buongiorno.
Voltò il capo di scatto, risvegliato dal suo flusso di pensieri nella maniera più rozza che potesse venirgli in mente.
In prigione nessuno gli rivolgeva la parola così dal nulla, quello al massimo lo faceva lui.
Nel mondo reale, Levi era il nuovo vicino con un’espressione molto poco sveglia, un aspetto non proprio curato e un sacco della spazzatura più grosso di lui –non che fosse un’impresa ardua in ogni caso.
-Ah… ‘giorno.
Batté le palpebre un paio di volte, fece volare il sacco nel cassonetto e decise di troncare un’eventuale conversazione prima ancora che uno dei due potesse anche solo pensare di iniziarla: girò sui tacchi e procedette verso la porta del condominio sentendosi addosso gli occhi del tipo che l’aveva salutato per tutto il tragitto.
Non si era dato neanche il tempo di memorizzare la faccia di quell’uomo, tanto l’aveva messo nel panico l’idea di dover rimettere in moto gli ingranaggi della sua testa per socializzare.
E poi, a dirla tutta, non trovava niente in comune tra un topo di fogna sociopatico come lui e il palestrato biondo dall’acconciatura del cazzo che l’aveva salutato prima. Lo immaginava in chiesa ogni settimana mentre cercava disperatamente di nascondere il suo essere dell’altra sponda.
Si ritrovò a scuotere la testa a vuoto: quei giorni sarebbero stati i più difficili, i primi giorni in cui avrebbe dovuto sistemare da cima a fondo l’appartamento e immediatamente trovarsi un lavoro, dal momento che i soldi che aveva a disposizione sarebbero bastati a stento per una spesa al Walmart. Dopo avrebbe anche potuto prendere un letto e un tavolo, se non altro.
 
Dopo un giro veloce nei dintorni riuscì miracolosamente a trovare un Subway e istantaneamente si ricordò di quanto gli mancasse uno schifoso panino più grosso di lui: fu così che poté consumare la sua prima cena fuori nel migliore dei modi che potesse immaginare, seguita da una sigaretta fuori dall’ingresso del condominio, appoggiato alla ringhiera delle scalette.
Non era il tipico viale New Yorkese, con case piccole e compattate tra loro, le scale che portavano agli ingressi piene di piante e fiori, la strada alberata ai lati: ci aveva passato molto tempo e ne aveva molti ricordi, ma non le aveva vissute come avrebbe voluto.
Quella via, invece, era molto più stretta e decisamente molto più spoglia, sporca… era anche silenziosa e tranquilla e ci si sarebbe ambientato facilmente. Sporgendosi un po’, poteva anche vedere l’East River, in fondo non era poi così male.
Aspirò e poi soffiò dalle labbra e dalle narici, uno sguardo quasi disattento e in mezzo alla coltre di fumo vide sbucare la figura del proprio vicino, fuori dalla porta e poi nel marciapiede. Si irrigidì di scatto non appena lo riconobbe, ma poté dedicargli anche uno sguardo un po’ più attento: gli sembrò meno snob e meno perfettino di quella mattina… o forse era colpa dei capelli meno leccati e più lasciati andare. Tutto ciò non lo aveva comunque reso più socievole, e non gli avrebbe di certo rivolto la-
-Oh, sembra che continuiamo ad incontrarci.
Fece roteare gli occhi e sospirò pesantemente.
-Già, eh… neanche fossimo vicini di casa… o qualcosa del genere.
Lo sentì ridacchiare, aveva una voce profonda.
Spostò lo sguardo da un’altra parte sperando che ciò gli facesse capire quanta poca voglia avesse di intrattenere una conversazione con qualcuno.
-Buona serata.
Non gli rispose. Lo sentì allontanarsi, entrare nella macchina per poi fare manovra e guidare chissà dove. Non gli interessava comunque, anche se non riuscì a frenare la fantasia e lo immaginò in qualche pub probabilmente con degli amici, probabilmente con una fidanzata.
 
La mattina seguente la stessa situazione si ripresentò: scese le scale assonnato per gettare un sacco di spazzatura più piccolo –di grazia- rispetto al giorno prima, nell’attimo in cui stava per tornare in appartamento per rendersi presentabile sentì una voce profonda e leggermente roca rivolgersi in maniera fastidiosamente diretta a lui:
-Buongiorno, Levi.
Si bloccò a metà del suo tragitto verso la porta d’ingresso mentre cercava di processare il tutto. Essendo passato solo un giorno, nessuno lo aveva mai ancora chiamato con il suo nome, il suo nuovo nome. E se in prigione era abbastanza normale che tutti lo conoscessero, non lo era altrettanto fuori.
-Come cazzo sai il mio nome?
Sbottò mentre scendeva un gradino e lo guardava negli occhi forse per la prima volta. Sembrava divertito.
-Dubito il tuo nome possa essere Maria Espinoza. Non è così?
Il suo battito cardiaco iniziò a rallentare e si calmò, sentendosi allo stesso tempo incredibilmente paranoico e incredibilmente stupido. Diede uno sguardo veloce al campanello davanti la porta d’ingresso e i due nomi stampati: Levi Ackerman al primo piano, Maria Espinoza al piano terra, e poi sopra tanti altri spazi vuoti per altrettanti possibili inquilini.
Scosse la testa mentre pensava che non esistesse alcun motivo al mondo per cui quell’uomo potesse avere un legame con il suo passato.
L’uomo fece qualche passo verso di lui e gli tese la mano.
-Erwin Smith.
Non senza esitazione gli strinse la mano, ritenendo inutile presentarsi a sua volta e non disse una parola.
Profumava di pulito e aveva di nuovo i capelli leccati in quella maniera ridicola.
Erwin Smith annuì scrutandolo con attenzione.
-Sei uscito di prigione da poco… mi sbaglio?
Levi mandò giù a stento un grosso peso, come un incredibile desiderio di lanciare un pugno dritto in uno degli occhi blu dell’uomo davanti a lui.
Percepì una grossa vena pulsargli nella tempia.
-Non sono affari tuoi, mi sbaglio?
Erwin sorrise appena, abbassando lo sguardo. In qualche modo dalla sua espressione non sembrava volerlo deridere, né tantomeno sembrava volerlo giudicare. Levi d’altra parte non aveva voglia o tempo di mettersi a interpretare sguardi e intenzioni.
Ad essere sincero era parecchio seccato.
-Scusa, era una cosa strana da chiedere.
-Buona giornata, Erwin Smith.
Non aspettò di ricevere una risposta tanto si era già stancato di discutere. Fare conversazione non era una cosa sua e a quanto pare non lo sarebbe diventata.
Doveva cercare un lavoro, doveva mettere a posto il suo appartamento e così smettere di dormire su di un materasso con un plaid e una felpa come cuscino.
 
Da quel giorno, non proprio per sua decisione ma più per il senso di disagio che provava al solo pensiero di dover sentire ancora la voce di quell’uomo, semplicemente evitò di incontrarlo.
Raggiunta la porta d’ingresso sempre al solito orario –era un fottuto abitudinario e non riusciva ad evitarlo neanche impegnandosi- osservava fuori dal vetro sfumato la figura, non perfettamente distinguibile, ma chiaramente visibile del suo vicino che andava ai cassonetti o che semplicemente entrava in macchina per fare qualunque cosa facesse nella vita. Dopodiché, sicuro di essere rimasto da solo, usciva a sua volta e faceva qualunque cosa dovesse fare –fumare, gettare la spazzatura, scappare ad un altro colloquio sperando fosse la volta buona.
Lo evitò per una settimana buona e davvero non ne sentì la mancanza, sebbene fosse perfettamente conscio della sua presenza appena ad un muro dal suo appartamento.
Per un attimo gli era passato per la mente di chiedersi come avesse fatto a capire, quel tipo, che lui fosse un ex detenuto. Comunque il dubbio passava ogni volta avesse la possibilità di guardarsi allo specchio.
Una volta, godendosi la sua solita sigaretta post cena, lo vide uscire di corsa dal suo appartamento, visibilmente di fretta per quella che doveva essere stata una notizia dell’ultimo minuto, dato che era davvero conciato male. Forse qualche parente in procinto di partorire, qualcuno a lui vicino aveva forse avuto un infarto o chissà che cosa, si disse.
Gli concesse poca considerazione e continuò a pensare ai fatti suoi, riuscendo finalmente a trovare un posto –ancora temporaneo- come contabile. La cosa gli piaceva, così come gli piaceva avere a che fare con cose semplici e certe come lo era la matematica, mettere a posto, in ordine. Era come crearsi uno spazio sicuro.
 
-Ehi Levi!
Il suo cuore mancò un colpo mentre per poco non cacciava un urlo e lanciava il sacco di spazzatura nel cassonetto con violenza.
Cercò di calmare i suoi nervi prima di voltarsi.
Quell’uomo era letteralmente apparso dal nulla e Levi poteva giurare che si fosse appostato dietro la trave che separava gli ingressi delle due case solo per coglierlo di sorpresa.
Si era detto di non essere paranoico e comportarsi come qualsiasi essere umano sano di mente, ma c’era qualcosa di inquietante nell’immaginare che Erwin si fosse accorto del suo tentativo di evitarlo e che avesse deciso di tendergli un’imboscata. Cos’era, una specie di stalker?
-Buongiorno Erwin.
L’uomo gli sorrise e gli si avvicinò. Per un po’ non pronunciò una parola, quasi si aspettasse qualcosa da lui.
-Allora, che vuoi?
Non si curò di essere gentile, anzi si impegnò parecchio per non essere più scortese. Quell’uomo lo indisponeva, lo metteva a disagio.
-Abiti da solo, non è vero? Quand’è l’ultima volta che hai consumato un pasto decente? È passato parecchio, immagino.
Erwin, cosa cazzo vuoi.
-Ascolta… sono qui per farmi gli affari miei. Non voglio tornare dentro e non ho intenzione di fare nulla che possa-
-No, non fraintendermi. Non mi sembri affatto quel tipo di persona… ad essere sincero volevo solo invitarti a casa mia. Mi piaci, Levi.
Levi batté le palpebre più volte, incredulo dopo quello che aveva sentito. Quel tipo era uno psicopatico, fine della storia.
A quel punto toccò a lui ridacchiare, amareggiato e senza realmente cambiare la sua espressione. Quello che uscì dalla sua bocca fu nient’altro che uno strano suono roco simile a qualche colpo di tosse.
-Cos’è, ora… vuoi dirmi che tipo di persona sono? O vuoi semplicemente portarmi a casa tua, farmi qualche smanceria e poi legarmi alla testiera del tuo letto e scoparmi per tutta la notte?
L’espressione sul viso di Erwin cambiò drasticamente e Levi capì di aver colpito nel segno. L’aveva offeso, finalmente aveva visto nella faccia di quell’uomo un’espressione diversa dall’irritante accondiscendenza che l’aveva caratterizzato sin dal primo momento i cui l’aveva visto.
La cosa l’aveva quasi compiaciuto.
-Senti, Levi. Se non sei interessato ad un appuntamento ti basta rifiutare. Ho passato i trent’anni e non ho davvero bisogno di giocare o usare trucchetti subdoli sulle persone. Volevo essere gentile ma a quanto pare non riceverò lo stesso trattamento.
Scusami per il disturbo e buona giornata.
Erwin girò sui tacchi e tornò dentro casa sua.
Nonostante l’iniziale soddisfazione che aveva tratto da quella conversazione, le ore che seguirono nella sua giornata furono una tortura. Evitava e sviava il pensiero in continuazione, ma l’immagine di quell’uomo, di quel faccia di cazzo che gli diceva Mi piaci, Levi, era fissa nella sua mente.
Era uscito di prigione per cercare di essere una persona normale. Aveva avuto relazioni, sia prima che durante il periodo di reclusione. Relazioni più o meno ambigue. Nel complesso, tuttavia, aveva sempre evitato le persone che gli si avvicinavano, le allontanava, allo stesso modo di come aveva fatto con Erwin.
Ciò che in più lo spaventava era che possibilmente, se avesse cercato di sforzarsi per una volta e provare a conoscere qualcuno che si era interessato a lui nonostante il suo atteggiamento totalmente di merda, alla fine quel qualcuno avrebbe potuto essere davvero il pervertito che lo avrebbe legato come un salame per farci strani giochetti. O ancora peggio: poteva essere lui quello a fargli del male, a ferirlo… cosa alquanto probabile, si disse.
Sospirò pesantemente mentre puliva il bagno del suo appartamento per forse la quarta o quinta volta quel giorno.
 
-Ehi Smith!
Il cuore gli batteva ad un ritmo incredibile, gli tremavano le mani, si sentiva leggero come avesse perso il controllo su tutto il suo corpo.
Il tutto si era risolto in un tono decisamente rozzo. E soprattutto aveva chiamato Erwin per cognome, proprio come usava fare in prigione con gli altri detenuti.
La sua espressione era sorpresa, curiosa per certi versi.
Si schiarì la voce, cercando di essere quanto più cortese poteva.
-Scusami, è l’abitudine.
Non si curò neanche di accertarsi che Erwin avesse capito a cosa si riferiva.
Guardò in basso, ai suoi lati e quando finalmente riuscì a stabilire un contatto visivo con l’altro parlò di getto.
-Mi dispiace per ieri. Erwin.
Per quanto sentisse il suo stomaco ribollire e probabilmente la faccia andargli in fiamme, era sicuro che la sua espressione apparisse più menefreghista e distaccata di quanto realmente volesse. Non poteva farci nulla, aveva una gran faccia di cazzo anche lui.
-Nessun problema, Levi. Ho reagito nel modo sbagliato, hai tutto il diritto di rifiutarti ad andare a casa di uno sconosciuto.
Buona giornata.

Non riuscì a tenersi dentro un sospiro seccato e forse anche deluso. Se lo sapeva lui, cosa si aspettasse da quella discussione.
A quel punto si voltò anche lui e si preparò mentalmente a riprendere le cose come erano prima. Il che non sarebbe stato difficile.
-C’è qualcos’altro, Levi?
C’era un certo freddo pungente quel giorno, di quelli che preannunciavano il tipico inverno New Yorkese, ma il brivido che gli attraversò la schiena –ne era sicuro- non era dovuto a quello.
Lo guardò in un misto tra incredulità e sorpresa. Erwin lo guardava sorridendo e in un modo o nell’altro sembrava aver già capito cosa stesse per dire. Levi si era preparato un discorso appositamente e tuttavia neanche una parola riuscì a tirare fuori in quel momento.
Deglutì rumorosamente.
-Pensavo che questo Sabato riceverò degli extra per gli straordinari… e che potrei spenderli per mangiare bene… forse conosci qualche posto. Non mi va di chiedere ai miei colleghi, mi stanno tutti sul cazzo.
Erwin ridacchiò ancora. Si chiedeva spesso che cosa lo facesse ridere esattamente, Levi.
-Offro io.
Levi annuì, significativamente più tranquillo e sollevato.
-Appuntamento oggi al solito orario davanti i cassonetti, allora?

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Non prendetela sul serio. Davvero. è una delle cose più a caso che abbia mai scritto, sono tornata da una giornataccia iniziata alle 5 del mattino, non che vi freghi, ma è per farvi capire lo stato mentale xD
e non ho mai scritto una descrizione più stupida, giuro.
vabbene, Hope you enjoyed,
_Alexis_

P.S. sentitevi in dovere di farmi notare se ci sono errori :)
P.P.S. mi sono ricordata di una cosa. Mi sento in dovere di dire che questa fanfiction è ispirata ad una fan art che ho visto su tumblr e che purtroppo non riesco più a trovare (se qualcuno la riconosce che me lo faccia sapere)!
   
 
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