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Autore: Shewrites220898    17/10/2014    0 recensioni
Giulia è una ragazza come tutte, che divide le sue giornate tra scuola, casa, famiglia e amici. Tutto cominciò la sera della vigilia di Natale, quando ricevette dai genitori un regalo inaspettato che cambierà per sempre la sua vita ...
Genere: Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Caspita, quanto ho dormito! Stanotte sono decisamente crollata, tanto più che stamattina avevo ancora le occhiaie. Mamma, vedendo che alle undici ero ancora tra le braccia di Morfeo, venne in camera e aprì le tende.
-No, dai, ancora cinque minuti!- Mi lamentai io, coprendomi gli occhi con l’avambraccio e girandomi scocciata dall’altra parte.
-Ma oggi è il giorno di Natale, non puoi stare tutta la mattina a letto! Ricordati che a pranzo abbiamo …-
-Sì sì, lo so, i nonni … uff!-
Praticamente i nonni, specie durante le vacanze pasquali e natalizie, vivevano da noi, e a me questo fatto scocciava un po’. Uno, perché nonna rompe un sacco riguardo alle buone maniere ed è probabilmente la donna più ansiosa che abbia mai conosciuto in vita mia: ogni volta che esco, per esempio con gli amici, vuole che mi porti sempre dietro la carta d’identità, o comunque un qualsiasi foglietto che indichi il mio nome e cognome, così che in caso di perdita o di furto io sia rintracciabile. Una palla! Ma è possibile che a sedici anni una ragazza non può girare per la città senza portare un cartellino?! E’ vero che Roma è enorme e che le probabilità di perdersi non sono poche, ma, in primo luogo, abbi un po’ di fede, dopotutto non sono così stupida e, secondo, ho un discreto senso dell’orientamento, perciò “scialla” (così si dice dalle mie parti al posto di “nessun problema”). Tornando al discorso di prima, nonostante io voglia un mondo di bene ai miei nonni, non capisco perché debbano venirmi dietro così tanto, gli basti calcolare che tra due anni prenderò la patente, diventerò maggiorenne e finalmente potrò andare in giro per il mondo a fare tutte le foto che voglio. La fotografia è il mio hobby preferito: adoro cogliere l’attimo, immortalare un momento, vedere che tutto cambia, ma in realtà il ricordo rimane immutato. Ho questa passione da quando ero bambina, sin da piccola mi è sempre piaciuto stare con la fotocamera in mano e premere tasti a casaccio; fatto sta che, dopo aver imparato a maneggiare quell’arnese da autodidatta finalmente ho cominciato a diventare una sottospecie di fotografa: ad esempio, una volta una ragazza che conoscevo mi ha chiesto di farle un servizio fotografico e che mi avrebbe pagata. Da lì sono entrata, o almeno si fa per dire, nel mondo del business, e ho cominciato a racimolare un bel po’ di quattrini. In tre anni di duro lavoro sono riuscita a metter su un bel gruzzoletto, che vorrei spendere per il mio futuro. Infatti, ho intenzione di lavorare come fotografa libera e, se capita, aprire anche un mio studio dove esporrò i miei lavori più convincenti. Ma purtroppo i sogni non sempre si avverano. Tornando a noi, ero rimasta all’ansia di vita di mia nonna, che forse è il suo punto debole più catastrofico. Nonno invece è molto meno apprensivo, ma allo stesso modo è un tipo all’antica e molto ma molto severo: pensa sempre e solo al lavoro e, nel caso di me e mia sorella, alla scuola. Ogni volta che prendo un’insufficenza anche non grave, comincia a tirar fuori discorsi sul futuro, sul fatto che se non si studia non si guadagna bene eccetera, e, spesso e volentieri, a me questi discorsi annoiano. A parte il fatto che io sono sempre stata una studiosa, a differenza di quella sfaticata di mia sorella che invece è brava solo nelle materie umanistiche (e, con la sua stupidità, è andata a scegliere il linguistico), tutto sommato l’unica materia in cui non me la cavo più di tanto è il latino: non so voi, ma per me “cogito ergo sum” vuole dire “pizza e patatine” (e vi giuro che non è la fame). Detto questo, rimane il fatto che avremmo dovuto passare un altro lunghissimo pomeriggio in compagnia dei nonni, quindi mi è toccato alzarmi. Ora mi sembra d’obbligo parlare della mia pigrizia, anche se non è esattamente un argomento che reputo interessante: da piccola ho sempre fatto sport, mi piaceva un sacco andare a nuoto o a pallacanestro, che ho praticato per molti anni, arrivando addirittura al terzo turno (il penultimo, in pratica); negli ultimi anni, causa studio (o semplicemente non mi andava), mollai tutto all’improvviso e mi ritrovai con papà che mi criticava continuamente (lui è un grande sportivo) per aver lasciato basket, e mamma che insisteva con la danza, che personalmente odio (non so se si era già capito, ma sono un po’ “maschiaccio”). Fatto sta che, sia per tenermi in forma, sia per far contenti i miei, quest’anno ho cominciato zumba: una specie di aerobica mista a balli di gruppo, faticosissima, ma per fortuna ho trovato l’orario e i giorni perfetti (solo due volte a settimana, meglio di così!). Nonostante questo, però, a meno che non si tratti di una partita a basket o di un’escursione fotografica, l’unico tragitto che percorro è quello per andare dal letto alla sedia di scuola e dalla sedia di scuola al divano (fortuna che Chiara prende l’autobus con me all’andata e al ritorno, altrimenti non trovo neanche la motivazione per alzarmi). Il sabato e la domenica, invece, la motivazione è mamma che entra furtivamente dentro la mia camera e si mette a far confusione e ad aprire le tende senza che io le dica niente (odio quando si entra in camera mia senza il mio permesso, anche se si tratta di papà o mamma). Fatto sta che quel giorno, 25 Dicembre 2012, dopo essermi alzata, mi andai a stravaccare sulla sedia della cucina e mi misi a mangiare la prima cosa che trovai sul tavolo, ovvero i corn flakes (che solitamente non mangio, perché mi seccano la bocca). Ma non mi importava, avevo fame punto e basta. Subito dopo andai a lavarmi e dopo ancora arrivò il momento della scelta epocale della giornata: cosa mi metto oggi? Dopo minuti e minuti di ripensamenti vari, optai per una maglia a pipistrello nera e dei pantaloni giallo canarino, aderentissimi ma comodi. Dopo essermi sistemata e passato, come ogni mattina, minimo venti minuti davanti allo specchio, andai dritta dritta verso il salotto, col preciso intento di mettermi sul divano a leggere qualcosina, o a guardare la TV. Poi, improvvisamente mi ricordai: Macy! Corsi subito in camera e mi sedetti alla scrivania. Tirai un sospiro di sollievo e mi diedi una pacca sulla guancia, come per dire che sono stata un’emerita stupida a dimenticarmi del mio regalo preferito. Premetti immediatamente il pulsante di accensione e, proprio come la sera prima, il computer si accese repentinamente e si aprì direttamente sul desktop. Non sapevo ancora cosa fare, ma sicuramente avrei utilizzato il browser, quindi andai a cliccare due volte sull’icona di Google. Un minuto. Due minuti. Niente. Provai a cliccare una terza volta, ma ancora nessun risultato. Come ho già detto in precedenza, io sono molto impaziente e oltretutto non riuscivo a tollerare il fatto che un portatile che ha sì e no un giorno di vita non risponda già ai comandi. Premetti il tasto sinistro quattro, cinque, sei volte. Giuro, stavo per mandare tutto per aria. All’improvviso, però, qualcosa accadde: il computer si spense. Così, senza che io abbia fatto nulla. A quel punto stavo per mettermi a ridere: ma che razza di Mac è questo? Se funzionassero tutti così  la Apple non avrebbe fatto tanto successo. Stavo a metà tra le lacrime e le risate, quando comparve una scritta giallognola: “No signal”. E ti pareva! Con la sfiga che ho, ovviamente, il computer doveva rompersi proprio il secondo giorno, bene! A un tratto, mentre stavo per urlare e mandare a quel paese Steve Jobs, lo sfondo tornò nero. La mia faccia diventò perplessa e inquietata allo stesso tempo. Io sono un tipo abbastanza coraggioso, ogni volta che vedo un film horror con gli amici sono l’unica a non coprirsi gli occhi, e l’unica che al parco divertimenti ha voluto provare l’ebbrezza di partire da 0 a 160 chilometri orari in poco più di tre secondi (non per niente erano le montagne russe più veloci d’Europa). Nonostante questo, se c’è qualcosa che mi tiene almeno un po’ col fiato sospeso, sono le cose inaspettate, tutto ciò che un momento fa pensavi non sarebbe mai successo. Questa era una di quelle. In ogni caso, provai a premere un tasto, tanto per cambiare qualcosa, ma, come immaginavo, rimase tutto come prima. Premetti insistentemente il tasto A, finchè non mi stancai altamente. Ero stata tollerante fin troppo in quella tarda mattinata, era arrivato il momento di sfogarsi; diedi un pugno alla tastiera. Fu un pugno così forte che mi feci addirittura male da sola. Chiusi gli occhi e gemetti, per un attimo avevo temuto il peggio. Quando li riaprii, vidi qualcosa che mi lasciò senza parole. Sul monitor era comparsa un’altra scritta, giallognola, in inglese, che diceva “Ehi, Ti sei fatta male?”. Che sia una specie di scherzo? Sono una persona abbastanza scettica, dunque sirene, extraterrestri, Babbo Natale, non hanno mai avuto una grande influenza su di me. Ora ci manca solo una tastiera sensitiva! Rimasi lì a fissare la scritta per un lasso di tempo indeterminato, per poi storcere la bocca in un’espressione di stupore. Alla fin fine, dopo un lungo e contorto ragionamento, concordai con me stessa che avrei dovuto “rispondere”. Per fortuna, me la cavo bene a inglese, quindi risposi senza problemi:”Chi sei tu?”
Fui molto diretta perché volevo arrivare subito al sodo. Comparve una scritta arancione sotto la mia risposta, in corsivo, che diceva “H is typing…”. Perfetto, un altro mistero, e ora chi è (o cos’è) quest’H? Cosa sta a significare? Dopo una manciata di minuti, la risposta arrivò: “Mi chiamo Heather”. Wow, davvero esauriente come risposta; beh, almeno avevo capito chi era H. Arrivò un'altra risposta da parte di Heather: “Tu chi sei piuttosto?”
Riflettei un attimo se rispondere o no, dopotutto poteva anche essere un estraneo sotto mentite spoglie, o un semplice virus; in tal caso non avrei fatto altro che peggiorare le cose. Ma dato che ho la testa dura come il muro e quando inizio qualcosa devo portarla a termine fino alla fine, decisi lo stesso di scrivere:
“Mi chiamo Giulia” scrissi “sei forse una specie di virus o roba del genere?”
Devo ammettere di essere stata forse un po’ troppo diretta, ma, come ho già detto, sono parecchio testarda, e quindi ho preferito arrivare al dunque.
“Virus? Naah, tranquilla, non voglio darti fastidio, se è questo che intendi, anzi, se lo desideri me ne vado…”
“No, dai tranquilla, rimani. I miei amici sono tutti impegnati il giorno di Natale e non ho nessuno con cui parlare”
A quel punto la cosa non era più inquietante, ma piuttosto si era fatta alquanto curiosa e volevo vedere come si evolveva la faccenda.
“Direi che siamo pari, ahah, anch’io non ho niente da fare” scrisse lei. Sembrava fosse contenta. “Quanti anni hai?”
“Sedici, compiuti da poco, tu?”
“Lo stesso”
Però! Strano che Heather (qualunque cosa fosse) avesse la mia stessa età. Beh, tanto valeva, ormai, fare conoscenza.
“Allora Heather” scrissi io a quel punto “che mi racconti?”
“Mah, solite cose, mi sveglio, passo la giornata come capita e mi rimetto a dormire ahah. Poi per me, che sono molto pigra, il riposo è fondamentale!”
Appena lessi la parola “lazy” (=pigra) gli occhi mi si illuminarono. Siamo entrambe sedicenni ed entrambe pigre. Chissà se la “ragazza” dall’altra parte del computer aveva altre cose in comune con me.
“Beh, se la mettiamo così, io ho vinto il primo premio in pigrizia, ahah!”
“Ahahah, dubito che mi si possa battere!”
“Per il resto? Che mi dici di te?”
“Eh, che dire di me? Sono una ragazza abbastanza solare e spiritosa, e, se devo ammetterlo, sono davvero golosa: amo i dolci natalizi e soprattutto i biscotti al cocco e, pur essendo buongustaia, non mi piace la pasta al sugo.”
Gli occhi mi si spalancarono ancora di più: avevamo anche gli stessi gusti.
“Poi, dal punto di vista degli hobby, beh, adoro stare con gli altri, chiacchierare e, più di tutto, amo la fotografia!”
Non ci vedevo più dalla gioia. Nonostante Heather scrivesse in inglese e, di conseguenza, non vivesse nel mio paese, sentivo di avere davvero molto in comune con lei e quel dialogo scritto ne era la prova.
“Davvero ti piace la fotografia?” scrissi io raggiante “Ma io ti adoroo! Non dirmi che hai anche una sorella più grande che ti scassa sempre le scatole!?”
“No, sono figlia unica ahah!”
“Menomale, non sai che martirio!”
Devo ammettere che, nonostante l’alone di mistero che suscitava in me, Heather era davvero simpatica, oltre che spiritosa e gentile. Rimanemmo a parlare dalle undici e mezza fino a quando i nonni non bussarono alla porta. Quante risate che mi feci! E quanto si divertì lei! Ridemmo entrambe un sacco e ci conoscemmo così a fondo in sole due ore che sembrava ci conoscessimo da anni. Ne ero sicura, saremmo diventate grandi amiche. 
   
 
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