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Autore: pandaisia    17/10/2014    1 recensioni
STORIA MOMENTANEAMENTE SOSPESA "« Il mio nome è Guinevere, fatene tesoro mio giovane adorato. Presto sarete un vampiro, ed il sarò vostra madre per l'eternità. » Pronunciò la donna, immobile al suo posto. Aveva le mani in grembo e gli occhi fissi in quelli del ragazzo inglese. Il suo accento infrancesito ed un poco pezzente, completamente svanito. « NO! » Urlò Adrian, coprendosi le orecchie con le mani pallide: la voce della donna pareva il suono delle unghie su una superficie liscia, delle forchette contro i piatti di porcellana buona. Non riusciva ad ascoltarla, ed ogni cosa intorno a lui vorticava. In un limbo di straziante dolore, sentiva di star sanguinando. Un dolore alle membra, un dolore all'anima, che pareva dolore fisico. « Non accetto un no come risposta. » "
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, Crack Pairing
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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02. ANCHE I LUPI PIANGONO

 

BERSACK

Il suono del sangue, così come quello dell'acqua che gocciola indisponente da alte inferiate arrugginite dal tempo e dalla copiosa pioggia, riempiva le sue orecchie in un fastidioso ticchettio. Pochi istanti ancora, lo sapeva, ed una nuova goccia avrebbe fatto tremare le sue mani. « Spostatela di lì! » Tuonò. Dalla penombra un paio di uomini dal capo chino si mostrarono. Indossavano abiti modesti: camiciole che avevano visto certo tempi migliori – molte lune addietro, per certo! - e calzoni sudici di fango e bagnati della pioggia di quell'illune notte. Due bardachta*, gli stessi che avevano portato notizie del dheis* Doran e del làmh* Abram, ed un giovane che Bersack neppure guardò coprirono il chiarore di quella pavida notte con le proprie figure. Qualunque cosa fosse avvenuta, il quel cerchio di antiche pietre nere, qualunque nefandezza avesse macchiato per sempre più di una mente, lì sarebbe rimasto un segreto. Un tacito ricordo, negli occhi di quanti quella notte avevano assistito alla venuta di un nuovo membro del gruppo. Non lo avrebbero mai accettato, una mosca bianca in mezzo a folte pellicce nere. Una piccola figura dai capelli ramati venne sollevata in maniera maldestra, tant'è che per un momento parve destarsi dal suo torpore mormorando qualcosa di non comprensibile. Un nome, forse, poche parole biascicate in quel sonno impostole. Rimase solo, il capoclan, rigirandosi nell'umido piazzale nel quale il rito si era compiuto. Incosciente, forse, che qualcuno sotto vento li stava osservando dall'alto d'una guglia non troppo lontana, Bersack si scrollò di dosso la stanchezza scuotendo la lunga chioma castana. Ribelle quanto il suo essere, quella si mostro leonina di ricci trattenuti per troppo tempo. « Mostrati! » Urlò, parlando ad una luna invisibile in quel cielo di cupo nero punteggiato di pigre stelle. Chiamava sua madre, come un infante affamato. In un sottile frusciare invece la morte si palesò, mostrando un nasino infrancesito dagli anni passati in quella terra di mangiatori di rane e due occhi felini e taglienti come rasoi. Non disse molto, incedendo silenziosa nella sua veste di seta. Sotto al pesante mantello scuro, un corsetto color borgogna nascondeva ciò che della sua cena le era rimasto aggrappato addosso. Come unghie, come fango, come sangue. Un altro passo, due ticchettii molesti. « Com'è andota? » Sussurrarono le sue labbra vermiglie, carezzandolo con lo sguardo lascivo di una gatta salottiera. Bersack, che fino a quel momento aveva trattenuto a stento il proprio disprezzo digrignando i denti dietro labbra serrate e contratte, le afferrò un polso e la strattonò. Lo sentì scricchiolare, sotto quella sua stretta. « Non dovresti essere qui, donna. Vattene! » Borbottò, lasciando sibilare la propria lingua. Maschilista, dal grutturale accento scozzese, detestava l'idea di aver quella damina uscita da una casa di bambole – maledette – al suo fianco in quell'interminabile obbligo. Ma lei non era dello stesso avviso di quel grosso cane da guardia spettinato dal vento. Lei abituata al lusso. Lei venerata come una Dea. Lei eterea ed eterna. Sollevò un sopracciglio, schioccando la lingua sul palato. « E per quale motivo, di grozia? » Per molti motivi. Tra tutti, non aveva pronunciato la verità dinanzi ai suoi fratelli di sangue e di maledizione. Non aveva detto loro con esattezza ciò che in quella landa tanto distante dalla loro dimora si stava compiendo. Le mogli di quegli uomini attendevano a casa, poche avevano ricevuto quel dono dalla forma di una pallida luna piena, e non avrebbero scaldato le loro brande per chissà quanto tempo. Non aveva raccontato, e trovare quella donna nello spazio che si erano ritagliati in una città chiassosa e polverosa, una donna come lo era Guinevere, sarebbe stato un affronto difficile da spiegare persino per lui che quel gruppo di fratelli lo domava. Ma se è vero che i cani ed i gatti si odiano, è vero anche che altre due razze si disgustano a tal punto da farsi la lotta da che il mondo è stato generato. Due razze che, occhi negli occhi, si scontravano in una piazza bagnata di fresco. « Perchè sono io che comando, nel mio quartiere. Vattene, prima che gli altri fiutino il tuo olezzo mortifero. » Guinevere sembrò esser stata punta sul vivo, ed allontanò con uno stizzoso gesto della mano il volto del suo naturale nemico: un alleato, per convenienza. Indietreggiò, con la medesima grazia di una ballerina gli girò intorno. Forse, qualche tempo addietro, aveva danzato leggiadra su un palcoscenico o due ringraziando con abili inchini e sorrisi imbarazzati. Di quel passato lontano la donna aveva rimpianti? Aveva dovuto abbandonare tutto per colpa di un infortunio mortale, o solo s'era accostata a quanto di più caro avesse? Quesiti a cui nessuno avrebbe risposto, sopratutto lei dal suo pericoloso sguardo di ghiaccio. Avrebbe voluto domandare da quando quello era il suo quartiere, quando era stato deciso, e quanti esseri pelosi avevano viaggiato in stive infestate di ratti carnivori ed immigrati clandestini – che poi, dall'alto del suo altezzoso carattere, non trovava le due cose molto diverse! - raggiungendo quella vecchia fabbrica ormai mangiata dalle fiamme. Il suo quartiere. Le venne da ridere, sadica assassina di giovani vite. « Quanti complimenti, per una sola notte. Ebbene me ne andrò, ma spero per la tua tosta pelosa che quella che i tuoi schiavi portavano fosse davvero la giovone giusta. » Due occhi neri pregarono di poterle dare fuoco, di ardere quella sua vanagloriosa presenza. Iridi scure di carbone, pece, vuoto. Iridi profonde incastonate nello sguardo di un uomo furioso. Le ringhiò di andarsene, prima di volgergli le spalle allontanandosi da quell'increscioso luogo. Mosse pochi passi, come la diva di uno spettacolo teatrale che questi non aveva mai avuto modo di vedere - troppo selvaggio, insisteva a dire, per prendere parte alla vita di uomini e donne con la cipria sulla punta del naso –, e si volse verso la femminea figura. Aveva la necessità d'avere l'ultima parola. « E' lei, prelevata direttamente dalla sua scuola. Adesso va, Guinevere. » La donna chinò il capo, silente segno di saluto che lo stesso Bersack ripropose ringhiando sottile. Ella scomparve come inghiottita dal buio suo amico, e lui ne fu lieto.
Stava per rientrare, mettere un piede davanti all'altro sino alla pesante porta di ferro battuto che li teneva tutti al sicuro, quando un gran chiasso lo immobilizzò. Immediatamente all'erta, la mano destra scivolò sul fianco alla ricerca di un pugnale conficcato nella cintura. Un pugnale d'argento dall'impugnatura di una strana pelle chiara, quasi diafana tant'era chiara. Una pelle vagamente umana. « Signore, ho sentito dei passi! » Una mezza tacca si fece largo tra tubi divelti dalle fiamme e pile di mattoni anneriti, uno di quelli obbligati a sottostare alle regole. Non gli era concesso ribellarsi, sebbene il suo athar* si trovasse altrove. Lui non avrebbe comunque potuto, perchè li temeva tutti. Temeva Bersack, e Mairì sua moglie. Temeva i lukoi*, e dunque anche se stesso. « Ero io. » Bugiardo. « Degli altri passi. » Uno sbuffo contrariato fece indietreggiare il giovane, avvezzo agli scatti d'ira dell'altro. Non vi era niente di buono, in quei soffi inattesi. « Ti ho detto che ero io, Thomas. Adesso lasciami solo. » Thomas era un giovane poco più che ventenne, azzannato in una notte di luna piena da quella che era la secondogenita del suo Signore. Si chiamava Diorbhal, ed aveva gli occhi neri di sua padre e la chioma ribelle della madre. Era scomparsa di sua volonta, fuggita chissà dove col favore della notte. Se Bersack aveva accettato la decisione della giovane figlia, il maggiore tra i suoi discendenti non aveva fatto lo stesso ed era morto nel cercarla. Mangiato dalle tenebre, riconsegnato squartato dalle stesse. Forse per quel motivo Thomas era tanto odiato, tanto ignorato e schernito e maltrattato da chiunque fosse imparentato con l'alfa per linea diretta. Colpevole di avergli distrutto la famiglia, il giovane ed inesperto lupo nero aveva corso per ore ed ore solo nella notte. Aveva imparato a vedere oltre l'osservabile e ad udire oltre l'udibile. « Sissignore! Volevo soltanto informarvi che siamo pronti per il trasporto, domani all'alba lasceremo la signorina dove avete deciso. »


 

CAROLINE
 

Piovevano gocce sottili e solitarie, cadevano ritmate quasi seguissero il rombo di una grancassa. Il cielo svettava sulle strade della cittadina come una pesante coltre di cenere fredda e posticcia, impalpabile. Avrebbe voluto sollevare una sola mano, una soltanto per acchiappare un ciuffo di quelle stesse nubi temporalesche per saggiarle: avrebbero avuto il sapore dello zucchero filato, e della neve appena caduta, della crema alla fragola e di baci gentili. Avrebbe avuto un buon sapore per lei che bramava nel vedere le saette, in lontananza, spaccare il mondo in due identiche metà. La giovane non aveva idea di dove si trovasse, ne ricordava esattamente ciò che l'aveva portata lì. Rimembrava solo di essere entrata in aula, nella scuola privata – un'università - che frequentava con il fratello, di essersi guardata intorno per poi fuggire sbattendo la porta prima ancora che l'insegnante giungesse. Era svanita. Forse qualcuno se n'era accorto, ma non le interessava granchè. Non avrebbe resistito un'ora, figuriamoci due, non sarebbe sopravvissuta e forse era ciò che l'aveva fatta scattare coi suoi lunghi capelli d'ebano e rame. Come un ricordo, come la memoria fallata di chi non ha più un passato, lei era sfuggita alle luci per cercare l'ombra, il fresco, la libertà. Quel desiderio le lambiva i fianchi come il più appassionato degli amanti, la stringeva e la ghermiva. Lei, che per nascita era una predatrice, si ritrovava ad essere invece la vittima di un qualcosa di difficilmente raggiungibile. La libertà, una dolcissima utopia. Suo padre e sua madre avevano invero imposto un veto a quella parola, decidendo a suo nome la maggior parte dei passi che avrebbe dovuto compiere. Ella sarebbe dovuta rimanere lì, come un gatto intento a graffiar porte che non si sarebbero certo aperte, attendendo e non desiderando affatto il proprio destino. Avrebbe preso marito nella media borghesia inglese, ed avrebbe generato almeno due pargoli urlanti che aveva idea l'avrebbero fatta divenire pazza. Non sapeva se, ancora una volta, sarebbe stata in grado di ribellarsi. Si mosse, i suoi abiti crepitarono e si strapparono in uno sbuffo contrariato. Scivolò sull'erba bagnata, nelle narici ancora l'odore di tempesta e di vento freddo e pungente. Non era triste, affatto, era lieta d'esistere e di poter fare della sua vita ciò che voleva, seppur per qualche ora. L'erba era fresca, sotto ai suoi piedi fasciati da scarpette nere, lucide. Gli occhi parevano velati di pianto come quelli di una ragazzina triste, bruttina, rifiutata dall'amore della propria vita. Ma che cos'era l'amore? Non lo sapeva neppure lei che tanto aveva spasimato, ed ansimato, eppure qualcosa la scuoteva, qualcosa di non ben identificato che tuttavia non profumava di violette e fiori di campo, piuttosto di guai.
Respirava, ed il suo petto si sollevava ed abbassava con una tale naturalezza che neppure se ne rendeva conto. I bambini lottano per respirare, gli adulti lo danno ormai per scontato. Quand'era piccola Caroline aveva rischiato di morire, una brutta tosse infatti l'aveva costretta a letto per mesi interi. Adrian, nel suo piccolo, le aveva fatto compagnia ogni volta che il loro padre lasciava la di lei grande stanza. Non rimembrava quasi più quelle vicende, eppure forse avrebbe dovuto. La pioggia le aveva bagnato le gambe, nude, ed il petto laddove l'abito giaceva strappato da lunghi graffi che ancora non aveva potuto vedere. I capelli si erano arricciati, molesti, scompigliati in croste e nidi in cui volentieri avrebbero fatto il nido orridi pennuti dalle piume nere come la pece. Tuttavia però, la frangetta spostata di lato le dava un'aria più bambina, innocente e spaurita Se l'avessero vista, malamente distesa sull'erba, l'avrebbero creduta morta, eppure si stava muovendo. Tutto in lei bruciava, quasi covasse una fiamma sempre eterna, ed era sveglia, vigile e silenziosa. Gli occhi verdi, più scuri che mai, osservavano il cielo e si chiudevano di tanto in tanto quando le ciglia erano troppo cariche di stille di pioggia. Non era pianto, quello che le rovinava sulla guance pallide, screziate dall'ombra di lentiggini che da tempo l'avevano abbandonata. Non riuscì ad alzarsi, quella povera figlia di Eva, da quel nefasto umore che le aveva cinto la vita. Le aveva domandato di ballare, ed ella era stata costretta ad accettare. Da quanto si trovava lì? Un pensiero oscuro tanto quanto la notte stessa le si insinuò nel capo, e non ci furono tentativi che andarono in porto. Ella non se lo scrollò di dosso come avrebbe fatto con una sudicia coperta. Invero si alzò, con gli occhi addolorati ad ogni movimento. Corse, scivolò sul verde di quel prato che non sapeva dove fosse e dove si trovasse. Caroline era una donna fatta e finita sotto espressioni fanciullesche e sguardi saccenti. Era capelli intrecciati lungo la schiena, adesso arricciati ed intrigati tra ciuffi d'erba e piccoli insietti, occhi verdi come le piante che stava osservando, adesso cerchiati di sonno e stanchezza. Era labbra piene, sorrisi stentati, risate sguaiate. Si perse diverse volte prima di calarsi il cappuccio sul capo, incontrando la pioggia che anche quel giorno avrebbe marchiato la sua vita. Quando trovò la giusta via di casa, il sole faceva nuovamente capolino tra nubi grigie ed iraconde. Non aveva idea dell'ora che fosse, ma la porta di casa sua era socchiusa. Era strano, estremamente insolito come l'ombra frusciante che le era parso di aver visto qualche volta durante quel suo lungo pellegrinare.
Mosse pochi passi al primo piano di casa Fitz-Maurice, dopo essersi chiusa la porta alle spalle, prima di notare che non vi era anima viva. Nessuna madre, nessun padre. Neppure Adrian. « C'è nessuno? Cameriere, dove siete? » Sussurrò, un fil di fiato che persino lei stessa faticò ad udire. Qualcuno però, tra quelle mura rabbuiate dalle pesanti tende di velluto, aveva sentito il suo richiamo. In religioso silenzio una mano la afferrò per un braccio, attirandola con forza nel corridoi che se percorso sino alla fine l'avrebbe condotta ad un piccolo bagno di servizio. Istintivamente cercò di proteggersi, di nascondere il volto deturpato dalle occhiaie e dalla stanchezza. Non udì alcun rimprovero, soltanto un fragoroso schiocco, il più forte che avesse mai udito. Uno schiocco che graffiò le pareti ricoperte di floreale carta da parati rosata. Uno schiocco che distrusse i cristalli celati dietro pesanti sportelli di lucido legno massello. Il volto le bruciò, e solo allora si rese conto di ciò che le era appena accaduto. « Adrian, che cosa stai facendo? » Si portò una mano ala guancia, allarmata e sorpresa. Suo fratello non aveva mai alzato una mano su di lei. Ma se il suo mantello copriva le ferite, il colletto inamidato della camicia di lui non nascondeva un collo arrossato e violaceo, escoriato da qualcosa che non poteva vedere. Cercò di toccarlo, quel lungo collo, ma non vi riuscì. Venne fermata prima, un nuovo schiaffo colpì quelle sue dita affusolate e sporche di terra. « Ti punisco! Sono giorni che ti copro, con nostro padre e nostra madre. Che nascondo la tua evanescente figura. » La voce tagliente di suo fratello la ferì più di ogni schiaffo. I suoi occhi gelidi le scavarono dentro, quasi volessero vedere da soli ciò che ella aveva combinato nella sua presunta sparizione. Eppure non aveva alcun ricordo delle ore trascorse, del tempo che l'avevano aggettivata come evanescente. Come un fantasma. Caroline soffiò, figlia dei venti, rimirandosi nelle iridi del fratello. Non comprendeva davvero che cosa quello stesse dicendo. In un primo momento aveva creduto fosse ubriaco, ma le sue labbra non odoravano di liquore, aveva allora pensato la prendesse in giro con quel suo solito modo di fare burbero ed incattivito. Aveva ancora una volta sbagliato, perchè il maggiore tra i due stava esprimendo tutta la sua preoccupazione, ed il suo orrore nel vederla in quelle condizioni. Glielo lesse nello sguardo, che non stava giocando. « Giorni? Sono uscita questa mattina insieme a te, oggi è martedì e ne sono certa perchè ogni martedì abbiamo lezione insieme. » Scosse il capo, stringendosi nel cappotto che ritrovato poco lontano dalla sua figura distesa sul prato aveva coperto ferite che lei stessa non aveva notato. Si era premurata di scappare, stringendo il proprio corpo in quel tiepido tepore. Quando suo fratello, allarmato dalla sicurezza con cui aveva parlato, si ritrovò a scuotere la testa ella sollevò le sopracciglia e si fece pallida in volto. « No, Caroline. Tu non sei mai entrata in aula con me, e oggi è giovedì. »

 

 

 

*Bardachta: guardie e sentinelle tra i lupi mannari.
*Dheis e Làmh: destro e sinistro dell'alfa.
*Athar: altro modo per definire l'alfa tra i lupi mannari.
*Lukoi: o lupi. Il modo in cui si chiamano tra di loro i lupi mannari.

Dai miei studi in merito – varie ricerche su google – ho estrapolato questa gerarchia ispirata ai libri della famosissima scrittrice Laurell K. Hamilton. I nomi, di mia invenzione, sono spiegati tra parentesi.

Alfa o Athar ( il lupo più potente del gruppo, solitamente il capobranco. Spesso con Alfa mi riferisco a colui il quale morde un umano trasformandolo in mannaro, divenendo dunque per quella persona il proprio mentore, capo o padrone. Athar significa padre, in irlandese. )
Dheis ( secondo in comando – il braccio destro dell'Alfa. Il termine porta il significato di destro, ma anche di diritto, in irlandese. )

Làmh ( secondo in comando – il braccio sinistro dell'Alfa. Il termine porta il significato di mano, o braccio, in irlandese. )
Bardachta ( i capi delle guardie e delle sentinelle tra i lupi mannari. )
Lukoi ( il nome con cui i lupi definiscono loro stessi ed i loro compagni. )
Mhathair ( la compagna dell'Alfa. Dall'irlandese, significa madre. )
Chroì ( gli spiriti dei lupi mannari passati a miglior vita. Fanno parte di questa categoria i mannari che dopo la morte sono stati mangiati dai membri del gruppo. Dal significato di cuore, in irlandese, specifica quale parte secondo i lupi mannari contenga la forza del mannaro ormai privo di vita. )

   
 
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