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Autore: Cruel Heart    17/10/2014    2 recensioni
C'è sempre un modo per raccontare le storie tristi.
C'è chi vuole addolcirla, come se si trattasse di una tazzina da caffè un po' amara, o c'è chi vuole renderla ancora più tragica di quanto lo sia già.
Sarebbe bello narrare di due adolescenti che si sono innamorati improvvisamente, magari al liceo.
Ma non è la verità, o, per lo meno, non lo è di questa storia.
I piccoli segreti sono ovunque.
Sto parlando di segreti non del tutto svelati, di argomenti tenuti nascosti e di scheletri troppo grandi per essere rinchiusi in un armadio.
E se tutto quello in cui lui credeva, si rivelasse una mera finzione?
E se tutto quello che lei riteneva impossibile, fosse la dura realtà?

Ecco: questa è la verità che voglio raccontarvi.
Genere: Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Little secrets - Missing Moments'
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Salve salvino.

Scusatemi, ancora una volta, per il ritardo.

Credo che gli aggiornamenti andranno un po’ così, almeno fino a Natale. [Sempre se ci arrivo in possesso delle mie facoltà mentali…]

Anyway, ho deciso di descrivere anche l’incontro tra Evan e Avril nella prima parte; inoltre, la canzone sarà la mia preferita di Evan, ovvero “Stubborn”. *fangirla*

E fate attenzione alle frasi scritte in grigio: quelle saranno le parole sacre ed intoccabili, udite udite, della sua coscienza. U.U

Infine, prima di lasciarvi al capitolo, volevo ringraziare tutte le persone che seguono questa ff quotidianamente [Veramente, grazie di cuore] e volevo anche dire grazie a tutte le persone che continuano a leggere Little Black Star, l’altra mia fanfiction su Avril.

Il primo capitolo ha appena superato quota 1500 visite! *me superfelice*

E comunque no, tutti questi ringraziamenti non sono dovuti ad un imminente fine della storia, non vi preoccupate lol.

Al prossimo aggiornamento [Si spera presto] <3

 

 

~ Cruel Heart.

 

***

Evan Taubenfeld - Stubborn

 

***

 

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Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 7 Giugno 2001

 

Evan's pov

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Mi rigirai, ancora una volta, nel mio letto.

Ancora una volta, in quella dannatissima settimana, non riuscivo a dormire.

C’erano sempre quegli occhi… quel viso… che mi facevano stare male.

 

Così, feci un profondo respiro e mi immersi, per l’ennesima sera, nel mio incubo.

 

Ricordavo di aver pensato questo, prima che succedesse tutto: ci sono sessanta secondi in un minuto, milleottocento in mezz’ora e tremilaseicento in un’ora.

E, proprio in uno di questi secondi, Avril potrebbe decidere di fare marcia indietro e di tornare a casa e…

 

Sospirai. Da lì, erano iniziati quegli stupidi discorsi con la mia coscienza.

 

Calmati, Evan. Stai divagando.

 

Va bene. Non è la fine del mondo, in fondo.

Lo sarebbe se, magari, lei ti rifiutasse, o non volesse venire, o ti piantasse con una qualsiasi scusa, oppure…

 

Dio mio, basta!

 

La mia coscienza sceglieva sempre i momenti meno opportuni per torturarmi.

Mi ero messo una mano tra i capelli e avevo incominciato a camminare avanti indietro sul marciapiede.

 

Sei nervoso.

 

Chi, io? Nervoso? Ma figuriamoci…

Avevo sbloccato rapidamente il cellulare e avevo visto, sullo schermo, se fossero arrivate nuove chiamate: non c’era nessun messaggio di Avril.

Ok, coscienza, hai ragione.

Forse, un po’ nervoso, lo ero.

 

Poi, all’improvviso, avevo sollevato lo sguardo e avevo scorto l’ombra di una limousine nera avvicinarsi sempre di più.

Mi spazzolai i pantaloni neri eleganti, in completo con lo smoking, e feci un rapido rewind della mia situazione:

- Vestito? A posto;

- Capelli? Si spera non arruffati come al solito. Presumibilmente, a posto;

- Sorriso? Oh, no, quello mi mancava.

 

Immediatamente, anche immaginando semplicemente di trascorrere la mia serata da solo con Avril, i 13 muscoli del mio viso si erano mossi e avevano creato un sorriso sincero.

Va bene, va bene, sapevo che, di solito, i muscoli facciali che si contraevano per sorridere erano 12, ma speravo di riservare per l’occasione un sorriso più… smagliante.

 

Evan, stai divagando. Di nuovo.

 

Maledizione coscienza, hai ragione. Di nuovo.

 

Nel frattempo, Peter aveva accostato, con la limousine, accanto al marciapiede dove mi trovavo, era sceso dal posto di guida e, dopo avermi fatto un occhiolino veloce, aveva aperto lo sportello del passeggero, aiutando Avril a scendere.

 

Istintivamente, trattenni il fiato: era bellissima.

Non indossava nient’altro che un semplice tubino nero corto, sopra il ginocchio, ma il mio occhio non poté fare a meno di notare la porzione di pelle delle gambe lasciata scoperta.

 

Distogli lo sguardo, bello mio. Credimi, è meglio così.

 

Giusto. Sai, ripensandoci, “coscienza” è troppo lungo. Ti darebbe fastidio, se da adesso iniziassi a chiamarti “Cos”? Oppure preferisci “Enza”?

 

Lasciamo perdere…

 

Avevo accantonato per un momento la conversazione con Cos e ricordavo di essermi concentrato solo su Avril. Mi ero incamminato verso di lei e le avevo proposto di aggrapparsi al mio braccio.

«Se ti dicessi che sei incredibilmente sexy con quel vestito, Ramona, cosa succederebbe?» le avevo chiesto.

 

Ma la vuoi smettere di fare il maniaco sessuale, una volta per tutte?

 

«Ti risponderei che sei un maniaco, David. Oltre che un pazzo.»

 

Vedi?

 

«Oh, ma io lo sono. Sono completamente, totalmente e irrimediabilmente pazzo di te.» le avevo risposto, guidandola verso l’entrata della villa. «E, a questo proposito, ho preparato questa piccola sorpresina.»

 

Cosa avevo organizzato per la serata? Semplice.

Avevo semplicemente “preso in prestito” il giardino di una delle innumerevoli proprietà di mio padre e, soprattutto grazie all’aiuto di Peter, avevo pensato di passare questa serata insieme a lei a modo mio.

 

Solo ora mi rendevo conto che, forse, per lei, questo non era stato abbastanza.

 

Avevamo percorso il piccolo viale e ci eravamo fermati accanto al tavolo apparecchiato per due.

 

Mi aveva guardato con la bocca spalancata. «Tu… tu hai organizzato questo?»

 

«Sì.» Il dubbio improvviso, che avessi fatto qualcosa di sbagliato, mi attanagliò lo stomaco. «Perché, non ti piace?»

 

«Stai scherzando, vero?» Avril osservava rapita ogni dettaglio, che fossero le luci, i fiori o anche le semplici posate in argento. Sembrava… felice. Almeno per il momento.

«Evan, questo è… questo è… semplicemente meraviglioso! E tu mi chiedi se non mi piace?»

 

Avevo scrollato le spalle. «Oh, beh, allora devi ancora vedere il meglio.»

 

L’avevo aiutata a sedersi e, prima di accomodarmi al mio posto, avevo tolto il coperchio argentato dal vassoio sul tavolo, svelando una gustosa e fumante…

 

«Pizza? Hai ordinato una pizza?!» mi aveva chiesto, sorridendo.

 

«E non una comune pizza! È una pizza gigante con würstel e patatine sopra. Ho pensato che informale sarebbe stato meglio.»

 

Poi, la vidi alzarsi dalla sedia e venire verso di me.

Con un sorrisino, mi circondò il collo con le sue braccia.

 «Grazie per questa serata. Ti…»

 

In quel momento, mi si era mozzato il respiro.

Per un istante, solo per un piccolo istante, avevo pensato che lei potesse dire quello che speravo.

 

«… Sei preparato molto bene.» aveva detto invece, staccandosi da me.

 

«Certo.»

Mi ero leccato le labbra, sentendo improvvisamente la gola secca. «Dai, coraggio, attacca la pizza, Tigre.»

 

Mangiammo ognuno la sua metà, in silenzio.

Alla fine, però, mi era parso di sentire uno strano senso di agitazione, in lei.

Come se stesse pensando a qualcosa di ossessivo.

Come se, proprio quel qualcosa, non volesse dirmelo.

 

E adesso capivo il perché.

 

Così, una volta finita la nostra porzione di pizza, avevo deciso di spezzare la tensione, schiarendomi la voce. «E adesso, se non ti dispiace, vorrei concludere la serata in bellezza.»

Mi ero abbassato fluidamente sotto il tavolo e avevo tirato fuori la mia chitarra dalla custodia.

Poi, avevo sistemato il lato destro della cassa sulle gambe e avevo incominciato il mio discorso.

«Sai, ho notato come molta gente pensi che stare da soli sia meglio, e che occuparsi di un’altra persona dia solo fastidi inutili. Ma, grazie a te, mi sono accorto che tutto ha un lato positivo, perfino un pugno tirato dritto sul naso. E quindi, ho capito che niente eguaglia la consapevolezza di sapere chi abbracciare o da chi farti abbracciare, che niente eguaglia quel calore che ti scalda il cuore appena senti che quella persona ti dà il buongiorno. La verità è che non si sta meglio da soli, perché tutti abbiamo bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi. Per cui… ho scritto questa canzone.»

 

E, detto ciò, avevo iniziato a suonare per lei.

Solo per lei.

 

Non ricordavo esattamente quando avevo pensato di creare questa nuova canzone, che avevo chiamato “I Love the Both of You”.

 

L’ispirazione, secondo gli antichi greci, significava dare ascolto ad un’irrazionale ed incomprensibile esplosione di creatività.

Ed era ciò che era capitato a me.

Quella parte totalmente illogica di me stesso era sgorgata fuori e, beh… io non avevo fatto altro che raccogliere i miei pensieri e imprigionarli su un foglio di carta.

Ogni fatto, ogni avvenimento, ogni strada, nella mia testa, aveva una melodia.

Dovevo solo farla venire fuori con le parole più adatte.

C’era una cosa, però, di cui mi vergognavo un po’, quando ho iniziato a prendere sul serio quello che, per me, all’inizio, era solo un hobby e nient’altro.

La gente non m’ispirava.

Le persone, infatti, così noiose e così fastidiosamente prevedibili, non potevano costituire una fonte d’ispirazione, per me.

Lo erano i gesti: quelli sì che mi colpivano.

 

E non parlavo metaforicamente, anzi: quando dicevo “colpire”, intendevo proprio letteralmente.

Credevo che, proprio quel pugno, assestatomi dritto lì, esattamente al centro del naso, mi avesse fatto capire quanto lei fosse importante per me.

 

Quanto noi fossimo importanti l’uno per l’altra.

 

Stronzate. Solo stronzate.

 

Ed era proprio per inseguirle, queste stronzate, che, dopo aver pizzicato le ultime corde della mia chitarra, le avevo confessato quello che sentivo. «Ti amo, Avril Ramona Lavigne.»

 

Ero stato testardo, troppo testardo.

 

Poi, avevo tenuto lo sguardo sulle corde e tutto quello che feci fu… aspettare.

Avevo aspettato, aspettato, aspettato.

Volevo solo una sua risposta.

Quando, però, mi ero reso conto che avevo aspettato molto, forse troppo, avevo alzato lo sguardo.

 

E lei si era decisa a parlare. «Evan, io… non… non posso. Vorrei tanto dirti quelle due parole che vuoi sentirti dire, ma non posso. Credimi, queste due settimane sono state le più belle di tutta la mia vita. E questo solo perché c’eri tu. E forse mi sto solo facendo problemi inutili, o forse è troppo presto per me, ma, io… io… non ci riesco.»

 

In quel momento, mi ero chiesto che cosa fare.

Ed era strano, perché, nei libri per il collage, non c’era un manuale d’istruzioni che potevo consultare, in casi come questi.

Ero solo.

Così, avevo annuito, con le labbra contratte, ed ero tornato a guardare la sua chitarra.

Lei, almeno, non mi aveva mai abbandonato.

 

Ritornai con la mente al presente, stanco dell’incubo che si presentava puntualmente ogni sera da una settimana, ormai.

 

Ma non riuscivo a dimenticarmi dell’espressione di Avril.

Non riuscivo a scordarmi della sua voce mentre mi rifiutava.

 

Mi sfuggì un gemito di disperazione.

 

Era questo il rumore di un cuore spezzato?

 

 

***

 

Harrisburg, Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 14 Giugno 2001

 

Avril's pov

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Guardavo Wilson gesticolare: tentava di enfatizzare la sua spiegazione su “Cime tempestose”, il romanzo di Emily Brontë, ma niente, non c’era verso.

Non avevo memorizzato un’acca dall’inizio della lezione.

Ero riuscita solo a captare qualche frase, come “scritto a metà del 1800” oppure “ambientato nello Yorkshire”.

 

Poi, però, prestai attenzione appena Wilson analizzò il tema del romanzo.

«Il sentimento che, sicuramente, predomina in questa lettura, è l’amore. E non un tipo di passione qualsiasi, ma la forma più difficile da comprendere: vedete… si tratta di un amore così forte, che va al di là delle regole e delle convenzioni dell'amore stesso. Si intreccia con la vendetta, ma ne esce sempre puro. Nonostante i protagonisti siano pieni di difetti e nessuno dei due possa essere di certo essere eletto come “Mr. buono dell’anno”, il loro sentimento è vero. Supera i confini del tempo e della morte. Perché, alla fine, è il loro amore che li rende buoni, anche se non avranno mai l'occasione di viverlo.»

 

Il loro sentimento è vero.

 

Supera i confini del tempo e della morte.

 

Anche se non avranno mai l’occasione di viverlo.

 

Una fitta al petto mi fece mancare il respiro.

Sentivo il dolore nelle mie vene come il sangue: vivo, pulsante e costante.

Non mi lasciava mai.

 

Continuavo a sentire ancora quel dannato groppo in gola: era come se fossi ancora lì, con lui, quella sera.

 

Era inutile girarci intorno, tanto valeva accettare la realtà: il nostro rapporto si era completamente interrotto.

Da più di due settimane, ormai.

 

Anche solo guardarlo di sfuggita mentre entrava in classe significava… sofferenza.

Non sapevo neanche io cosa fossimo.

Era troppo desiderare che fossimo ancora amici?

O, magari, anche scambiarsi un semplice “buongiorno”?

 

Forse sì.

Forse, era troppo per me.

Era troppo, per chi aveva la colpa di tutto questo.

 

Ma volevo provare lo stesso: non volevo farmi sfuggire il suggerimento che, indirettamente, Wilson mi aveva dato.

Così, proprio mentre la campanella suonava e tutti gli studenti si riversavano fuori dalle aule, chiusi lo zaino e cercai di seguire con lo sguardo i suoi capelli biondi tra le altra migliaia di teste presenti nel corridoio.

Impresa non facile, per una che è alta 1,56 cm.

 

Dopo qualche secondo, riuscii ad individuarlo.

Stava appoggiato con la schiena sul muro. Sembrava triste, con gli occhi rivolti verso il basso.

Mi fermai, senza fiato: vederselo davanti così, con lo sguardo perso, faceva male.

 

Poi, però, notai qualcosa che mi era sfuggito: al suo fianco, c’era Camille Miller, la ragazza che ci aveva reclutato per quello stupido gioco del “Baciato e Baciatore”.

Lei si stava attorcigliando attorno al dito una ciocca di capelli neri, mentre gli parlava di chissà cosa.

 

Lui mi sembrava perplesso, dato che increspava più volte le sopracciglia, ma, nel complesso, era tranquillo.

Non sembrava… infastidito dalla sua presenza.

 

Certo, la sua fidanzata la evita, mentre le smorfiose le accoglie a braccia aperte!

O, forse, dovrei dire semplice conoscente?

 

Strinsi forte i pugni e sentii le unghie penetrare nel palmo della mia mano.

«Evan! Evan, aspetta!»

 

Non sapevo se avessi fatto bene o no, a seguirlo di corsa e a gridare quella frase.

Lui la sentì di sicuro, perché lo vidi fermarsi di scatto e immobilizzarsi.

 

Poi, vidi Camille parlargli con un’espressione a metà tra l’imbarazzato e l’insicuro. «Ehm… forse è meglio se vado, Evan. Cerca di risolvere i tuoi problemi, d’accordo»

 

Oh, benissimo. E così le aveva detto anche di quello che era successo.

Incominciai ad incamerare più aria nei polmoni, nel tentativo disperato di calmarmi.

 

«Sì. Forse è meglio se vai. Ci vediamo domani.»

 

Indicai in direzione di Camille con uno sguardo furente. «Le hai raccontato tutto. Ogni cosa. Cos’è, ti sei fatto anche l’amichetta del cuore, adesso?»

 

Mi fulminò con un’occhiataccia. «Il mondo non gira tutto intorno a te.»

 

Resistetti all’impulso di indietreggiare ed incrociai le braccia al petto, cercando protezione in me stessa. «Me ne sono accorta, visto che ci hai messo così poco per dimenticarmi.»

 

Avevo voglia di prendermi a schiaffi da sola.

Non avrei dovuto dire questa cosa.

Non avrei dovuto fargli male. Un’altra volta.

 

Ma era troppo tardi. Mi guardò, torvo e furibondo. «Ma cosa vuoi che faccia, eh?»

 

Non l’avevo mai visto così arrabbiato, così fuori controllo. Non era l’Evan che conoscevo.

 

«Vuoi che torni tutto come prima dopo l’altra sera? Beh, ti do una notizia fresca di stampa: non si può. Sì, magari con il passare dei giorni, la situazione potrebbe tornare ad avere una “parvenza” di normalità… ma non sarà più la stessa cosa.»

 

Lo fissai, e lui, a sua volta, mi lasciò guardare i suoi occhi azzurri di cui mi aveva privato per due settimane.

Permisi alla mia mente di rielaborare le sue parole.

Facevano male.

Facevano veramente male.

 

Ma, nonostante questo, ingoiai il groppo che avevo in gola e le lasciai adagiare sul fondo della mia coscienza.

Perché sapevo che me le meritavo.

Perché sapevo quanto avesse ragione.

 

«Mi hai ferito, e questo non potrà mai essere cancellato. La ferita non guarisce in profondità. Non qui. Non adesso.»

 

Mi guardò ancora negli occhi, e ne approfittai per imprimermi ogni dettaglio del suo viso nella mente: i capelli biondo cenere, che risplendevano sotto i riflessi delle luci al neon; le folte ciglia scure, che impreziosivano i suoi occhi color ghiaccio; il naso dritto e aquilino, che arricciava ogni qual volta era perplesso; e, per finire, le labbra: quella bocca che avevo baciato così tante volte, adesso, l’avevo lasciata per ultima, come se si trattasse di un semplice ricordo.

Sapevo che ne avrei avuto bisogno.

 

«Non con me.» sussurrò.

 

E poi, si girò di spalle e, con le mani in tasca, incominciò a incamminarsi verso l’uscita.

 

Sentivo le lacrime bruciarmi gli occhi.

Mi appoggiai con una mano al muro in cartongesso del corridoio e cercai di ricompormi.

Non piangere, non farlo, dicevo a me stessa.

 

Ma diventò un’impresa non cedere, quando anche le labbra incominciarono a tremare, travolte da piccoli ma costanti singhiozzi.

Sapevo che questo fosse il minimo, dopo quello che gli avevo fatto.

 

Non potevo dimenticarlo.

Non potevo dimenticare quando lui mi aveva confessato il suo amore e io l’avevo ricambiato con una semplice occhiata di dispiacere.

 

Eppure, tra i miei pensieri, in queste due settimane, era riapparso costantemente il suo viso.

E anche in quel momento, mentre tentavo di respirare a fondo, per evitare di scoppiare a piangere davanti a tutti, ripensavo a quello sguardo che mi scrutava, fino a pochi secondi fa.

Riuscivo a vederlo con tanta chiarezza che mi sentivo stringere il petto da un dolore straziante.

 

Ero rimasta travolta da come Evan, solo qualche giorno fa, mi avesse fatta sentire desiderata e sì, anche amata, con i suoi baci, con i suoi sorrisi, con le sue attenzioni.

Niente a che vedere con ciò che ero in quel momento: una ragazza vuota, inutile, degna solo di essere disprezzata e lasciata lì, a crollare, persino davanti a se stessa.

 

***

 

Things used to be great, now we can’t relate.
And everyday is a struggle.
Something
’s not right, you just want to fight.
Well, go find someone else,
‘cause you’re not my type anymore.

I don’t wanna play your games.
I don’t care, if I lose you today,
‘cause you can’t be satisfied by anything.
So try life without me.

Nothing I do ever pleases you,
I wonder how you’d like that.
What should I say, you’ve made it this way.
And I’m supposed to fix this.

[…]

 

 

It’s over now, we’re finally through.
It’s all because of you.
Don’t know why I tried, you never cared.
I don’t think that’s fair.

[…]

 

I don’t wanna play your games.
I don’t care, if I lose you today,
‘cause you can’t be satisfied by anything.
So try life without me.

Just try life without me.

 

 

Le cose erano fatte per andare bene,
adesso non abbiamo a che fare l'uno con l'altra.
Ed ogni giorno è una lotta.
C'è qualcosa che non và,
tu vuoi soltanto litigare.
Beh, vai a cercare qualcun altro,
perché tu non sei più il mio tipo.

Non voglio fare i tuoi giochi.
Non m’importa, se ti perdo oggi,
perché tu non sei mai soddisfatta di niente.
Quindi prova a vivere la tua vita senza di me.

Niente di quello che faccio ti soddisfa,
e penso a come farebbe a piacerti.
Che cos’altro dovrei dire, l'hai messa in questo modo.
Ed ho intenzione di aggiustare tutto.

 

[…]

 

È finita adesso, l’abbiamo superato.
È stato tutto per colpa tua.
Non so perché ci ho provato,
non te ne è mai importato niente.
Non credo sia giusto.

[…]

Non voglio fare i tuoi giochi
Non m’importa, se ti perdo oggi
Perché tu non sei mai soddisfatta di niente
quindi prova a vivere la tua vita senza di me

Quindi prova a vivere la tua vita senza di me.

~ Evan Taubenfeld – Stubborn

 

   
 
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