Salve
salvino.
Scusatemi,
ancora una volta, per il
ritardo.
Credo
che gli aggiornamenti andranno un po’
così, almeno fino a Natale. [Sempre se ci arrivo in possesso
delle mie facoltà
mentali…]
Anyway,
ho deciso di descrivere anche
l’incontro tra Evan e Avril nella prima parte; inoltre, la
canzone sarà la mia
preferita di Evan, ovvero “Stubborn”. *fangirla*
E
fate attenzione alle frasi scritte in
grigio: quelle saranno le parole sacre ed intoccabili, udite udite,
della sua
coscienza. U.U
Infine,
prima di lasciarvi al capitolo,
volevo ringraziare tutte le persone che seguono questa ff
quotidianamente
[Veramente, grazie di cuore] e volevo anche dire grazie a tutte le
persone che
continuano a leggere Little
Black Star,
l’altra mia fanfiction su Avril.
Il
primo capitolo ha appena superato quota
1500 visite! *me superfelice*
E
comunque no, tutti questi ringraziamenti
non sono dovuti ad un imminente fine della storia, non vi preoccupate
lol.
Al
prossimo aggiornamento [Si spera presto]
<3
~
Cruel Heart.
***
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 7 Giugno 2001
Evan's pov
Mi
rigirai, ancora una
volta, nel mio letto.
Ancora
una volta, in quella
dannatissima settimana, non riuscivo a dormire.
C’erano
sempre quegli occhi…
quel viso… che mi facevano stare male.
Così,
feci un profondo respiro e mi immersi, per
l’ennesima sera, nel mio incubo.
Ricordavo
di aver pensato
questo, prima che succedesse tutto: ci
sono sessanta secondi in un minuto, milleottocento in
mezz’ora e tremilaseicento
in un’ora.
E,
proprio in uno di questi secondi, Avril potrebbe
decidere di fare marcia indietro e di tornare a casa e…
Sospirai.
Da lì, erano
iniziati quegli stupidi discorsi con la mia coscienza.
Calmati,
Evan. Stai divagando.
Va
bene. Non è la fine del
mondo, in fondo.
Lo
sarebbe se, magari, lei ti rifiutasse, o non volesse
venire, o ti piantasse con una qualsiasi scusa, oppure…
Dio
mio, basta!
La
mia coscienza sceglieva
sempre i momenti meno opportuni per torturarmi.
Mi
ero messo una mano tra i
capelli e avevo incominciato a camminare avanti indietro sul
marciapiede.
Sei
nervoso.
Chi,
io? Nervoso? Ma
figuriamoci…
Avevo
sbloccato rapidamente
il cellulare e avevo visto, sullo schermo, se fossero arrivate nuove
chiamate:
non c’era nessun messaggio di Avril.
Ok,
coscienza, hai ragione.
Forse,
un po’ nervoso, lo
ero.
Poi,
all’improvviso, avevo sollevato
lo sguardo e avevo scorto l’ombra di una limousine nera
avvicinarsi sempre di
più.
Mi
spazzolai i pantaloni
neri eleganti, in completo con lo smoking, e feci un rapido rewind
della mia
situazione:
-
Vestito? A posto;
-
Capelli? Si spera non arruffati come al
solito.
Presumibilmente, a posto;
-
Sorriso? Oh, no, quello mi mancava.
Immediatamente,
anche
immaginando semplicemente di trascorrere la mia serata da solo con
Avril, i 13
muscoli del mio viso si erano mossi e avevano creato un sorriso sincero.
Va
bene, va bene,
sapevo
che, di solito, i muscoli facciali che si contraevano per sorridere
erano 12,
ma speravo di riservare per l’occasione un sorriso
più… smagliante.
Evan,
stai divagando. Di nuovo.
Maledizione
coscienza, hai ragione. Di nuovo.
Nel
frattempo, Peter aveva
accostato, con la limousine, accanto al marciapiede dove mi trovavo,
era sceso
dal posto di guida e, dopo avermi fatto un occhiolino veloce, aveva
aperto lo
sportello del passeggero, aiutando Avril a scendere.
Istintivamente,
trattenni il
fiato: era bellissima.
Non
indossava nient’altro
che un semplice tubino nero corto, sopra il ginocchio, ma il mio occhio
non
poté fare a meno di notare la porzione di pelle delle gambe
lasciata scoperta.
Distogli
lo sguardo, bello mio. Credimi,
è meglio così.
Giusto.
Sai, ripensandoci, “coscienza” è troppo
lungo. Ti
darebbe fastidio, se da adesso iniziassi a chiamarti
“Cos”? Oppure preferisci
“Enza”?
Lasciamo
perdere…
Avevo
accantonato per un
momento la conversazione con Cos e
ricordavo
di essermi concentrato solo su Avril. Mi ero incamminato verso di lei e
le avevo
proposto di aggrapparsi al mio braccio.
«Se
ti dicessi che sei
incredibilmente sexy con quel vestito, Ramona, cosa succederebbe?»
le avevo chiesto.
Ma
la vuoi smettere di fare il maniaco sessuale, una
volta per tutte?
«Ti
risponderei che sei un
maniaco, David. Oltre che un pazzo.»
Vedi?
«Oh,
ma io lo sono. Sono
completamente, totalmente e irrimediabilmente pazzo di te.»
le avevo risposto, guidandola verso l’entrata della villa.
«E, a questo proposito, ho preparato questa piccola
sorpresina.»
Cosa
avevo organizzato per
la serata? Semplice.
Avevo
semplicemente “preso
in prestito” il giardino di una delle innumerevoli
proprietà di mio padre e,
soprattutto grazie all’aiuto di Peter, avevo pensato di
passare questa serata
insieme a lei a modo mio.
Solo
ora mi rendevo conto che, forse, per lei, questo non
era stato abbastanza.
Avevamo
percorso il piccolo
viale e ci eravamo fermati accanto al tavolo apparecchiato per due.
Mi
aveva guardato con la
bocca spalancata. «Tu… tu hai organizzato questo?»
«Sì.»
Il dubbio improvviso, che avessi fatto qualcosa di sbagliato, mi
attanagliò lo
stomaco. «Perché,
non ti piace?»
«Stai
scherzando, vero?»
Avril osservava rapita ogni dettaglio, che fossero le luci, i fiori o
anche le
semplici posate in argento. Sembrava… felice.
Almeno per il momento.
«Evan,
questo è… questo è…
semplicemente meraviglioso! E tu mi chiedi se non mi piace?»
Avevo
scrollato le spalle. «Oh,
beh, allora devi ancora vedere il meglio.»
L’avevo
aiutata a sedersi e, prima di
accomodarmi al mio posto, avevo tolto il coperchio argentato dal
vassoio sul
tavolo, svelando una gustosa e fumante…
«Pizza?
Hai ordinato una
pizza?!»
mi aveva chiesto, sorridendo.
«E non una comune pizza! È una
pizza gigante con würstel e patatine
sopra. Ho pensato che informale sarebbe stato meglio.»
Poi,
la vidi alzarsi dalla sedia e venire
verso di me.
Con
un sorrisino, mi circondò il collo con le
sue braccia.
«Grazie
per questa serata. Ti…»
In
quel momento, mi si era mozzato il respiro.
Per
un istante, solo per un piccolo istante, avevo pensato che lei potesse
dire
quello che speravo.
«…
Sei preparato molto bene.»
aveva detto invece, staccandosi da me.
«Certo.»
Mi
ero leccato le labbra, sentendo improvvisamente la gola secca.
«Dai, coraggio,
attacca la pizza, Tigre.»
Mangiammo
ognuno la sua metà, in silenzio.
Alla
fine, però, mi era parso di sentire uno strano senso di
agitazione, in lei.
Come
se stesse pensando a qualcosa di
ossessivo.
Come
se, proprio quel qualcosa, non
volesse dirmelo.
E
adesso
capivo il perché.
Così,
una volta finita la nostra porzione di pizza, avevo deciso di spezzare
la
tensione, schiarendomi la voce. «E adesso, se non ti
dispiace, vorrei
concludere la serata in bellezza.»
Mi
ero abbassato
fluidamente sotto il tavolo e avevo tirato fuori la mia chitarra dalla
custodia.
Poi,
avevo sistemato
il lato destro della cassa sulle gambe e avevo incominciato il mio
discorso.
«Sai,
ho notato come molta gente pensi che stare da soli sia meglio, e che
occuparsi
di un’altra persona dia solo fastidi inutili.
Ma,
grazie a te, mi sono accorto che tutto ha un lato
positivo, perfino un pugno tirato dritto sul naso. E quindi, ho capito
che
niente eguaglia la consapevolezza di sapere chi abbracciare o da chi
farti
abbracciare, che niente eguaglia quel calore che ti scalda il cuore
appena
senti che quella persona ti dà il buongiorno. La
verità è che non si sta meglio
da soli, perché tutti abbiamo bisogno di qualcuno che si
prenda cura di noi. Per
cui… ho scritto questa canzone.»
E,
detto ciò, avevo iniziato a
suonare per lei.
Solo
per lei.
Non
ricordavo esattamente quando avevo
pensato di creare questa nuova canzone, che avevo chiamato “I
Love the Both of
You”.
L’ispirazione,
secondo gli
antichi greci, significava dare ascolto ad un’irrazionale ed
incomprensibile
esplosione di creatività.
Ed
era
ciò che era capitato a me.
Quella
parte totalmente illogica di me stesso era sgorgata fuori e,
beh… io non avevo
fatto altro che raccogliere i miei pensieri e imprigionarli su un
foglio di
carta.
Ogni
fatto, ogni avvenimento, ogni strada, nella mia testa, aveva una
melodia.
Dovevo
solo
farla venire fuori con le parole più adatte.
C’era
una cosa, però, di cui mi vergognavo un po’,
quando ho iniziato a prendere sul
serio quello che, per me, all’inizio, era solo un hobby e
nient’altro.
La
gente non m’ispirava.
Le
persone, infatti, così noiose e così
fastidiosamente prevedibili, non potevano
costituire una fonte d’ispirazione, per me.
Lo
erano
i gesti: quelli sì che mi colpivano.
E
non parlavo
metaforicamente, anzi: quando dicevo “colpire”,
intendevo proprio letteralmente.
Credevo
che, proprio quel
pugno,
assestatomi dritto lì, esattamente al centro del naso, mi avesse fatto capire quanto lei fosse importante
per me.
Quanto
noi fossimo
importanti l’uno per l’altra.
Stronzate.
Solo stronzate.
Ed
era proprio
per inseguirle, queste stronzate, che, dopo aver pizzicato le ultime
corde
della mia chitarra, le avevo confessato quello che sentivo.
«Ti
amo, Avril Ramona Lavigne.»
Ero
stato testardo,
troppo testardo.
Poi,
avevo tenuto lo sguardo sulle corde e tutto quello
che feci fu… aspettare.
Avevo
aspettato, aspettato, aspettato.
Volevo
solo una sua risposta.
Quando,
però, mi ero reso conto che avevo aspettato
molto, forse troppo, avevo alzato lo sguardo.
E
lei si era decisa a parlare.
«Evan, io… non… non posso. Vorrei tanto
dirti quelle due
parole che vuoi sentirti dire, ma non posso. Credimi, queste due
settimane sono
state le più belle di tutta la mia vita. E questo solo
perché c’eri tu. E forse
mi sto solo facendo problemi inutili, o forse è troppo
presto per me, ma, io…
io… non ci riesco.»
In
quel momento, mi ero chiesto che cosa fare.
Ed
era strano, perché, nei libri per il collage, non
c’era un manuale d’istruzioni
che potevo consultare, in casi come questi.
Ero
solo.
Così,
avevo annuito, con le labbra contratte, ed ero tornato a guardare la
sua
chitarra.
Lei,
almeno, non mi aveva mai
abbandonato.
Ritornai
con la mente al presente, stanco dell’incubo che si
presentava puntualmente
ogni sera da una settimana, ormai.
Ma
non riuscivo a dimenticarmi dell’espressione di Avril.
Non
riuscivo a scordarmi della sua
voce mentre mi rifiutava.
Mi
sfuggì un gemito di disperazione.
Era
questo il rumore di un cuore
spezzato?
***
Harrisburg,
Pennsylvania, Stati Uniti d’America, 14 Giugno 2001
Avril's pov
Guardavo
Wilson gesticolare: tentava di enfatizzare la
sua spiegazione su “Cime tempestose”, il romanzo di
Emily Brontë, ma niente,
non c’era verso.
Non
avevo memorizzato un’acca dall’inizio della lezione.
Ero
riuscita solo a captare qualche frase, come “scritto
a metà del
Poi,
però, prestai attenzione appena Wilson analizzò
il
tema del romanzo.
«Il
sentimento che, sicuramente, predomina in questa lettura, è
l’amore. E non un
tipo di passione qualsiasi, ma la forma più difficile da
comprendere: vedete… si
tratta di un amore così
forte, che va
al di là delle regole e delle convenzioni dell'amore stesso.
Si intreccia con
la vendetta, ma ne esce sempre puro. Nonostante i protagonisti siano
pieni di
difetti e nessuno dei due possa essere di certo essere eletto come
“Mr. buono
dell’anno”, il loro sentimento è vero.
Supera i confini del tempo e della
morte. Perché, alla fine, è il loro amore che li
rende buoni, anche se non
avranno mai l'occasione di viverlo.»
Il
loro sentimento è
vero.
Supera
i confini del
tempo e della morte.
Anche
se non avranno mai l’occasione di viverlo.
Una
fitta al petto mi fece mancare il respiro.
Sentivo
il dolore nelle mie vene come il sangue: vivo,
pulsante e costante.
Non
mi lasciava mai.
Continuavo
a sentire ancora quel dannato groppo in gola:
era come se fossi ancora lì, con lui, quella sera.
Era
inutile girarci intorno, tanto valeva accettare la
realtà: il nostro rapporto si era completamente interrotto.
Da
più di due settimane, ormai.
Anche
solo guardarlo di sfuggita mentre entrava in classe
significava… sofferenza.
Non
sapevo neanche io cosa fossimo.
Era
troppo desiderare che fossimo ancora amici?
O,
magari, anche scambiarsi un semplice “buongiorno”?
Forse
sì.
Forse,
era troppo
per me.
Era
troppo, per chi
aveva la colpa di tutto questo.
Ma
volevo provare lo stesso: non volevo farmi sfuggire il
suggerimento che, indirettamente, Wilson mi aveva dato.
Così,
proprio mentre la campanella suonava e tutti gli
studenti si riversavano fuori dalle aule, chiusi lo zaino e cercai di
seguire
con lo sguardo i suoi capelli biondi tra le altra migliaia di teste
presenti
nel corridoio.
Impresa
non facile,
per una che è alta
Dopo
qualche secondo, riuscii ad individuarlo.
Stava
appoggiato con la schiena sul muro. Sembrava triste,
con gli occhi rivolti verso il basso.
Mi
fermai, senza fiato: vederselo davanti così, con lo
sguardo perso, faceva male.
Poi,
però, notai qualcosa che mi era sfuggito: al suo
fianco, c’era Camille Miller, la ragazza che ci aveva
reclutato per quello
stupido gioco del “Baciato e Baciatore”.
Lei
si stava attorcigliando attorno al dito una ciocca di
capelli neri, mentre gli parlava di chissà cosa.
Lui
mi sembrava perplesso,
dato che increspava più volte le sopracciglia, ma, nel
complesso, era
tranquillo.
Non
sembrava… infastidito
dalla sua presenza.
Certo,
la sua
fidanzata la evita, mentre le smorfiose le accoglie a braccia aperte!
O,
forse, dovrei dire semplice
conoscente?
Strinsi
forte i pugni e sentii le unghie penetrare nel
palmo della mia mano.
«Evan!
Evan, aspetta!»
Non
sapevo se avessi fatto bene o no, a seguirlo di corsa
e a gridare quella frase.
Lui
la sentì di sicuro, perché lo vidi fermarsi di
scatto
e immobilizzarsi.
Poi,
vidi Camille parlargli con un’espressione a metà
tra
l’imbarazzato e l’insicuro.
«Ehm… forse è meglio se vado, Evan.
Cerca di
risolvere i tuoi problemi, d’accordo»
Oh,
benissimo.
E così le aveva detto anche di quello che era successo.
Incominciai
ad incamerare più aria nei polmoni, nel
tentativo disperato di calmarmi.
«Sì.
Forse è meglio se vai. Ci vediamo domani.»
Indicai
in direzione di Camille con uno sguardo furente. «Le
hai raccontato tutto. Ogni cosa. Cos’è, ti sei
fatto anche l’amichetta del
cuore, adesso?»
Mi
fulminò con un’occhiataccia. «Il
mondo non gira
tutto intorno a te.»
Resistetti
all’impulso di indietreggiare ed incrociai le
braccia al petto, cercando protezione in me stessa. «Me ne
sono accorta, visto
che ci hai messo così poco per dimenticarmi.»
Avevo
voglia di
prendermi a schiaffi da sola.
Non
avrei dovuto
dire questa cosa.
Non
avrei dovuto fargli
male. Un’altra volta.
Ma
era troppo tardi. Mi guardò, torvo e furibondo.
«Ma cosa
vuoi che faccia, eh?»
Non
l’avevo mai visto così arrabbiato, così
fuori
controllo.
Non era l’Evan che conoscevo.
«Vuoi
che torni tutto come prima dopo l’altra sera? Beh,
ti do una notizia fresca di stampa: non
si può. Sì, magari con il passare dei
giorni, la situazione potrebbe tornare
ad avere una “parvenza” di
normalità… ma non sarà più
la stessa cosa.»
Lo
fissai, e lui, a sua volta, mi lasciò guardare i suoi occhi
azzurri di cui mi
aveva privato per due settimane.
Permisi
alla mia mente di rielaborare le sue parole.
Facevano
male.
Facevano
veramente male.
Ma,
nonostante questo, ingoiai il groppo che avevo in gola e le lasciai
adagiare
sul fondo della mia coscienza.
Perché
sapevo che me le meritavo.
Perché
sapevo quanto avesse ragione.
«Mi
hai ferito, e questo non potrà mai essere cancellato.
La ferita non guarisce in profondità. Non
qui. Non adesso.»
Mi
guardò ancora negli occhi, e ne approfittai per imprimermi
ogni dettaglio del
suo viso nella mente: i capelli biondo cenere, che risplendevano sotto
i
riflessi delle luci al neon; le folte ciglia scure, che impreziosivano
i suoi
occhi color ghiaccio; il naso dritto e aquilino, che arricciava ogni
qual volta
era perplesso; e, per finire, le labbra: quella bocca che avevo baciato
così
tante volte, adesso, l’avevo lasciata per ultima, come se si
trattasse di un
semplice ricordo.
Sapevo
che ne avrei avuto bisogno.
«Non
con me.»
sussurrò.
E
poi, si girò di spalle e, con le mani in tasca,
incominciò a incamminarsi verso
l’uscita.
Sentivo
le lacrime bruciarmi gli occhi.
Mi
appoggiai con una mano al muro in cartongesso del corridoio e cercai di
ricompormi.
Non
piangere, non farlo,
dicevo a me stessa.
Ma
diventò un’impresa non cedere, quando anche le
labbra incominciarono a tremare,
travolte da piccoli ma costanti singhiozzi.
Sapevo
che questo fosse il minimo, dopo quello che gli avevo fatto.
Non
potevo dimenticarlo.
Non
potevo dimenticare quando lui mi
aveva confessato il suo amore e io l’avevo ricambiato con una
semplice occhiata
di dispiacere.
Eppure,
tra i miei pensieri, in queste due settimane, era riapparso
costantemente il
suo viso.
E
anche in quel momento, mentre tentavo di respirare a fondo, per evitare
di
scoppiare a piangere davanti a tutti, ripensavo a quello sguardo che mi
scrutava, fino a pochi secondi fa.
Riuscivo
a vederlo con tanta chiarezza che mi sentivo stringere il petto da un
dolore
straziante.
Ero
rimasta travolta da come Evan, solo qualche giorno fa, mi avesse fatta
sentire
desiderata e sì, anche amata, con i suoi baci, con i suoi
sorrisi, con le sue
attenzioni.
Niente
a che vedere con ciò che ero in quel momento: una ragazza
vuota, inutile, degna
solo di essere disprezzata e lasciata lì, a crollare,
persino davanti a se
stessa.
***
Things
used to be great, now we can’t relate.
And everyday is a struggle.
Something’s not right, you just want to fight.
Well, go find someone else,
‘cause you’re not my type anymore.
I don’t wanna play your games.
I don’t care, if I lose you today,
‘cause you can’t be satisfied by anything.
So try life without me.
Nothing I do ever pleases you,
I wonder how you’d like that.
What should I say, you’ve made it this way.
And I’m supposed to fix this.
[…]
It’s over now, we’re
finally through.
It’s all because of you.
Don’t know why I tried, you never cared.
I don’t think that’s fair.
[…]
I don’t wanna play your
games.
I don’t care, if I lose you today,
‘cause you can’t be satisfied by anything.
So try life without me.
Just try life without me.
Le
cose erano fatte per andare bene,
adesso non abbiamo a che fare l'uno con l'altra.
Ed ogni giorno è una lotta.
C'è qualcosa che non và,
tu vuoi soltanto litigare.
Beh, vai a cercare qualcun altro,
perché tu non sei più il mio tipo.
Non voglio fare i tuoi giochi.
Non m’importa, se ti perdo oggi,
perché tu non sei mai soddisfatta di niente.
Quindi prova a vivere la tua vita senza di me.
Niente di quello che faccio ti soddisfa,
e penso a come farebbe a piacerti.
Che cos’altro dovrei dire, l'hai messa in questo modo.
Ed ho intenzione di aggiustare tutto.
[…]
È
finita adesso, l’abbiamo superato.
È stato tutto per colpa tua.
Non so perché ci ho provato,
non te ne è mai importato niente.
Non credo sia giusto.
[…]
Non
voglio fare i tuoi giochi
Non m’importa, se ti perdo oggi
Perché tu non sei mai soddisfatta di niente
quindi prova a vivere la tua vita senza di me
Quindi prova a vivere la tua vita senza di me.
~ Evan
Taubenfeld – Stubborn