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Autore: Sheep01    19/10/2014    7 recensioni
E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.
Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti ne aveva visti tanti, certo. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.
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Atlanta: un misterioso esperimento scientifico si conclude bruscamente con un incidente dalle conseguenze inaspettate.
Nel giro di pochi giorni, un'epidemia mondiale prende a serpeggiare per il paese, cominciando a decimare la popolazione...
Genere: Avventura, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury, Tony Stark/Iron Man, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 1

 

Wayne Dullop, patente della Georgia, nato nel 1979. Aveva 28 dollari in tasca quando è morto, e una foto di una bella ragazza: "Con amore, dalla tua Rachel". Un tempo era come noi, si preoccupava delle bollette, dell'affitto, del SuperBowl. Se mai troverò la mia famiglia racconterò loro di Wayne.

(The Walking Dead)

 

*

 

Warren, Maine

Una settimana dopo

 

Di nuovo quel sogno.

Un lungo corridoio, ammiccanti luci al neon, il mugolio sommesso della voce di un essere umano. E poi quello schiocco, continuo, ritmato: clack, clack, clack, del quale non era mai riuscito a comprendere la provenienza. Si svegliava sempre prima di aggirare quel maledetto corridoio. Di trovare l'origine dei lamenti. Di comprendere la natura di quegli schiocchi.

Un ruggito. Devastante. Il terrore nello stomaco e la sensazione di essere stato afferrato per la gola…

Quello... il massimo traguardo a cui riusciva ad arrivare nell'incubo.

Così come era appena successo.

Aveva riaperto gli occhi e fissato il soffitto sopra di sé.

Niente di fatto. Di nuovo un buco nell'acqua.

A volte sperava di poter arrivare almeno alla fine di quella visione onirica. Di cambiare scenario, di svelare il mistero, di godere almeno di un pizzico di adrenalina a spezzare quella devastante monotonia. Ed invece si trovava sempre lì, a fissare il soffitto grigio e il poster di quella donna nuda nella quale trovava ben poca attrattiva.

Doveva averla appesa l'ospite che lo aveva preceduto, per alleviare la solitudine di notti insonni, e non aveva avuto mai cuore, o voglia di levarla da lì.

Non faceva alcun male. E comunque meglio una donna nuda dai seni prosperosi che un paio di crepe a ricordargli che no, da lì dentro non ci sarebbe uscito, non per un bel pezzo almeno.

Si rimise seduto con un sospiro, si scostò un ciuffo di quei capelli corvini dal viso. Erano cresciuti parecchio dall'ultima volta. Si chiese se non avesse dovuto approfittare di quel barbiere che, almeno un volta alla settimana, veniva a far loro visita.

Non che fosse una persona particolarmente vanesia ma era primavera e aveva cominciato a fare caldo, soprattutto il pomeriggio, quando non era impegnato in attività del tutto inutili ed era costretto a rimanere rinchiuso nella sua stanza...

 

stanza.

Gli fiorì una risata spontanea, dritta dallo stomaco.

Da quanto aveva cominciato a pensare alla sua cella come a una... stanza?
Si era per caso rassegnato alla sua temporanea (ma sarebbe stata davvero soltanto temporanea?) dimora?

Insomma, poteva essere solo l'inizio della fine.

Avrebbe ben presto cominciato a parlare di se stesso in terza persona?

Oppure a invocare il nome di un amico immaginario, tipo Bert?

O ancora peggio ad annunciare la fine del mondo, tirandosi fuori l'uccello dai pantaloni per pisciare in giro e delimitare il territorio come uno spostato?

Spostato... lo era già. O così almeno a tutti aveva fatto comodo credere. In fondo anche a lui.

Sebbene il giudice non fosse stato affatto propenso a invocare l'invalidità mentale.

E in un certo senso la sentenza l'aveva quasi inorgoglito. Forse sarebbe stato eccessivo gridare: “no, signori miei, è stato tutto frutto della mia lucidissima iniziativa. È vero, l'ho sgozzato come un maiale ed ho invocato la legittima difesa, ma... è stata una decisione presa dopo un ponderato ragionamento. Non un raptus, signori della giuria.”

L'unica cosa che non aveva digerito, in tutta quella manfrina, erano stati gli sguardi della sua famiglia: accusatori, definitivi. Membri della sua stessa famiglia che, uno dopo l'altro, se ne erano andati e lo avevano lasciato solo, a convivere con il peso delle sue colpe.

 

Si rimise in piedi, lo stomaco in subbuglio gli suggeriva che presto sarebbero venuti a chiamarlo per la colazione. Eppure l'orologio segnava le undici. E le undici era un orario ben strano per i ritmi di quel penitenziario. In effetti... anche quel silenzio gli risultava ben strano, per i ritmi di quel penitenziario.

Che lo avessero lasciato indietro? Mentre tutti erano fuori a celebrare la loro guadagnata ora d'aria?

Si portò alle sbarre della sua cella singola (gli avevano promesso un compagno bello grosso, prima della fine della settimana, ma non si era ancora fatto vivo nessuno), e cercò di sbirciare all'esterno. Che l'orologio biologico di cui andava particolarmente fiero si fosse inceppato?

“Ehi!” gridò una sola volta. L'eco della sua voce a disperdersi nei corridoi. “Ehi, dico a voi! Qualcuno mi sente?” si sarebbe atteso almeno l'arrivo di una guardia ma di nuovo gli rispose il nulla. Anche se... ad un ascolto un po' meno superficiale...

Che diavolo era quel... mugolio? Di sottofondo. Costante, come una nenia. E quello schiocco, continuo, ritmato... una moltitudine di schiocchi, in realtà, a produrre uno scoppiettante concerto, così familiare, così simile al suo...

Sogno.

Si scostò dalla porta della cella come se il metallo fosse diventato improvvisamente incandescente. Che stesse ancora sognando?

Non c'erano altre spiegazioni. Che l'incubo avesse deciso di schiodarsi dalla sua insopportabile empasse?

Eppure...

Eppure le sensazioni erano così reali. Di solito riusciva a distinguerlo quell'effetto del tutto onirico. Riusciva a darsi una certa razionalità per comprendere che niente di tutto quello che stava vivendo era reale.

E allora che cosa diavolo stava succedendo?

I mugolii si fecero più consistenti. Come un coro. E un incedere di passi, sempre più rapidi, sempre più vicini.

Lo stupore di trovarsi di fronte uno dei secondini si mutò in orrore quando mise a fuoco chi o cosa aveva davvero risposto al suo insistente richiamo.

Quello era George la guardia, certo. Eppure non lo era per niente. Non una battuta sarcastica. Non una sola menzione di quel nomignolo, Loki, con cui erano soliti chiamarlo. La differenza sostanziale stava nel fatto che sotto quei lunghi baffi neri e la faccia di quello che, forse, una volta, era davvero stato George, ora si presentava con un viso di morte: occhiaie oscure tutt'intorno agli occhi, il viso scavato, le pupille spente, oscure, prive di luce, prive di calore, occhi apparentemente privi di vita, così simili a quelle degli squali che, da bambino, tanto lo affascinavano nei documentari su Discovery Channel.
E poi quelle mani, le dita ad allungarsi fra le fessure della cella, le ganasce a chiudersi a schiocco.

Clack, clack, clack...

Denti.

Allora erano denti quelli che sentiva nel suo sogno?

Denti.

Udì all'improvviso un grido. Violento, instabile.

Un grido che sembrava nascere dalle voragini di quell'incubo che lo aveva tormentato per giorni.

Un grido che, ci mise un po' ad elaborare, usciva direttamente dalla sua stessa gola.

 

*

 

Pikesville, Maryland

Due settimane dopo

 

Singolare come, nel giro di ventiquattro ore, possa cambiare una prospettiva.

Una convinzione.

Le avevano commissionato un lavoretto facile, una stupida operazione di intimidazione.

Ordinaria amministrazione, di quelle che Natasha Romanoff era destinata ad estinguere nel giro di un quarto d’ora.

Aveva indossato i suoi abiti migliori, acconciato i suoi capelli rossi, come il peccato, in una crocchia severa, assunto il suo più alto tono professionale e si era recata all’officina di Gordon McCallan, spinta dalle migliori intenzioni.

Non era necessario far sputare sangue proprio a nessuno: un avvertimento, di quelli che ti fanno gelare il sangue, così come solo lei sapeva fare, una rinfrescatina alla memoria, nel caso in cui il caro McCallan avesse, per caso, dimenticato a chi andasse la sua fedeltà. Era bastato un ritardo nell'operazione per far scattare il sospetto che il vecchio demonio avesse cominciato a fare il doppio gioco, a tenere il piede in due staffe.

Eppure McCallan lo sapeva bene quanto Ivan ci tenesse... alla fedeltà e alla puntualità.

Si era talmente preoccupato di assecondare l'ingrato sospetto che aveva quasi preteso che Natasha, all'appuntamento (peraltro non consapevole), ci andasse accompagnata. La donna si era rifiutata categoricamente di avere compagnia. O intralci.

Era giovane, maledettamente giovane, da poco maggiorenne secondo gli standard americani, ma aveva già abbondantemente dimostrato le sue qualità, le sue capacità. Non aveva bisogno di una balia. Non di certo di quegli energumeni tutti muscoli e stupidità di cui Ivan sembrava propenso a circondarsi.

 

Voglio un lavoro rapido, pulito.”

Ti ho mai deluso?”

 

No. Non lo aveva fatto. Mai. Si era guadagnata una posizione di spicco nell’organizzazione e non aveva certo intenzione di farsi rovinare la reputazione da un paio di russi dall’aria poco sveglia.

Ci era andata da sola.

E da sola aveva dovuto affrontare… l’incubo.

Non c’era esattamente McCallan ad attenderla. Non una coppia dei suoi, a tenderle un agguato.

Ma un paio di persone che non avrebbe mai saputo riconoscere come tali, se non per la postura eretta, in bilico su due gambe e l’espressione ebete che solo un essere umano privo di grande intelletto è in grado di sfoggiare.

Il resto… bè il resto aveva assunto tinte decisamente fosche, al limite dell’assurdo.

 

Natasha era entrata nell’officina che era ancora mattina. Il sole filtrava dai grossi finestroni della parete orientale a illuminare di foschia dorata i dintorni.

Odore di olio, benzina e fumo a dare un certo tono a quell’ambientino niente male, non adatto a una signora.

Natasha non si era mai considerata… una signora.

Abituata sin da bambina ad atmosfere come quella, allevata da uomini che l'avevano addestrata, forgiata, che ne avevano fatto la loro più fedele alleata. Una delle migliori.

Che aveva imparato ad usare armi e sotterfugi quando ancora i suoi coetanei, nel mondo reale, là fuori, imparavano a far di conto sulle dita. Lei, così come tutti i suoi fratelli. Tutte le sue sorelle. La sua famiglia… la sua… fratellanza.

 

Ben presto Natasha si era convinta che di McCallan, quella mattina, non se ne sarebbe vista traccia (che avesse subodorato qualcosa?), fino a quando non aveva avvertito l’acre ed inconfondibile odore del sangue.

Si era trascinata al centro del casermone e, nascosta dietro un vecchio pick-up Ford Ranger color petrolio, aveva trovato la sua prima sorpresa del giorno: il cadavere di un uomo. Un nugolo di mosche a ronzargli addosso fastidiose e fameliche.

Natasha aveva represso una smorfia di disgusto: a quanto pareva Ivan non erano l'unico ad avere dei conti in sospeso con McCallan. O con la sua famiglia.

A giudicare dalla fisionomia del cadavere, quello doveva essere, se non suo figlio, quantomeno un parente prossimo. Troppo simili i tratti, dal mento prominente alle orecchie a sventola, nonché quella zazzera di capelli rosso cupo.

Aveva serrato le labbra, insospettita, non del tutto certa che fosse una buona idea farsi trovare sul luogo del delitto di un altro killer, quando aveva udito dei passi.

E infine li aveva visti.

La materializzazione oscura dei suoi incubi più ricorrenti.

Non esseri umani, ma cadaveri. Gli stessi che spesso andavano a farle visita nei sogni, a ricordarle i suoi peccati, tutti i suoi peccati.

Eppure adesso non stava dormendo: non poteva essere un sogno. E allora come era possibile che la proiezione onirica delle sue paure fosse lì, di fronte a lei?

Forse si trattava di uno scherzo, un modo come un altro per depistarla, incastrarla.

Da lì... la situazione aveva preso a degenerare.

 

Quali che fossero le motivazioni non ebbe tempo o voglia di starci troppo a ragionare, quel suo atavico istinto di sopravvivenza era emerso, irascibile e prepotente: tirò fuori la pistola dalla fondina, sotto la giacca del tailleur e fece fuoco, centrando ognuno dei due individui, proprio al centro del petto. L’operazione li frenò giusto una frazione di secondo, prima che i loro lamenti e il loro incedere claudicante riprendesse.

Natasha non si fece pregare ulteriormente. Scaricò su di loro l’arma da fuoco, uno, due, dieci, venti colpi e più i proiettili li raggiungevano, rallentando momentaneamente la loro avanzata, più quelli restavano in piedi, animati da uno spirito che li spronava a raggiungerla con maggiore impeto, risvegliando una sottospecie di coscienza che sembravano non possedere… non più almeno.

“Dannazione…” esalò al limite del delirio, quando si rese conto di aver esaurito il caricatore.

Le mani tremanti, per la prima volta dopo tanti anni, a renderle difficili le operazioni.

Perché non morivano? Perché non... morivano?

Arretrò per darsi tempo e inciampò sul corpo del giovane McCallan. Si mantenne in piedi a malapena, portandosi dietro il suo braccio dopo esserci rimasta incastrata, prima di rendersi conto che la mano del ragazzo morto (ma lo era mai stato davvero?) si era indiscutibilmente, inesorabilmente chiusa sulla sua caviglia e stava stringendo la presa con una forza tale da non poter appartenere ad un essere umano.

Si calò sul polso dell'uomo, prendendo slancio con l’altra gamba, calcando il tacco sull'ulna, mentre i lamenti dei due individui si facevano sempre più vicini, sempre più spaventosi.

Il rumore dell’osso spezzato fu una liberazione, psicologica e fisica. Le dita del ragazzo la lasciarono libera e Natasha fu finalmente in grado di allontanarsi abbastanza da recuperare un grosso attrezzo da lavoro: uno di quei martelli che avrebbe visto bene giusto in qualche vecchia pellicola di Stanlio & Ollio.

Adesso, quei cosi che stavano protendendo le mani tentacolari nella sua direzione, erano in tre. Il nipote, parente, figlio illegittimo di McCallan si era rimesso in piedi e stava dando il meglio di sé esibendosi in una stonata sequenza di mugolii.

Di qualsiasi fottutissima allucinazione si trattasse, doveva uscirne alla svelta, possibilmente... viva.

Se ne stava lì, ingabbiata in un angolo, ad aspettare l'ispirazione adatta su dove colpire, quando uno sparo rimbombò per tutta l’officina e un agglomerato informe di ossa, cervello e sangue le schizzò sull’impeccabile tailleur, inondandola come disgustosa gelatina di lamponi. Uno dei tre mostri cadde a terra, finalmente sconfitto.

“Alla testa…”

Una voce, roca, smorzata, alla sua destra.

Avrebbe riconosciuto quella voce ovunque: seduto a pochi metri da lei, nascosto da un cumulo di gomme, completamente ricoperto di sangue e in pessime condizioni, c'era Gordon McCallan.

“Per ucciderli…” sibilò, “… devi colpirli alla testa.”

Il rantolo che ne seguì non fu più affar suo.

La testa, massì, la testa… perché non aveva pensato alla testa?

Alzò il braccio e calò il martello sul cranio di uno dei due putrescenti mostri rimasti, con tutta la forza che aveva in quel minuscolo corpo di donna.

 

*

Waverly, Iowa

Venti giorni dopo

 

Un solo click del caricatore sarebbe stato sufficiente a scatenarli.

Per quello avevano deciso di abbandonare le pistole, i fucili. Armi troppo rumorose.

L'orda di corpi marcescenti che si trascinavano attorno alla chiesa, sarebbe stata sufficiente a procurare una serie di blocchi coronarici per direttissima a chiunque. Per Clint Barton e per suo fratello Barney, quello non era altro che un lavoro.

Uno dei tanti che si erano procurati da quando quella sottospecie di epidemia da cannibali lobotomizzati aveva preso a dilagare, in ondate più o meno massicce, per il paese.

Quella stessa epidemia che in un paio di settimane si era fatta fuori mezza città.

Era toccato per primo al vecchio, scorbutico Logan, che viveva con quel suo cane stonato ai margini del fiume. Un vecchio pazzo che non faceva niente di più che gridare contro i ragazzini che lanciavano palloni nella sua proprietà.

Il virus lo aveva colto durante la lettura della pagina sportiva del giornale locale, dopo un’influenza o presunta tale che proprio non ne voleva sapere di andarsene via. Si era alzato in piedi, lo sguardo spento, vacuo, in preda a delirio da ubriaco, si era trascinato fino alla villetta tutta fiori dei Mitchell e aveva avvicinato i due ragazzini che stavano giocando in giardino. Clint riusciva a figurarsi lo sguardo di puro terrore dei due fratellini che, stavolta no, non se la sarebbero cavata con una sgridata. Non con un: “se trovo di nuovo qui il vostro cazzo di pallone ve lo buco! Stavolta per davvero.”

Riusciva a immaginare, con un vago rimescolio allo stomaco, la maschera di consapevolezza che si era loro dipinta in viso quando avevano sentito le ganasce di Logan scricchiolare pericolosamente accanto a loro per poi nutrirsi delle loro carni.

Era cominciata in quel modo e si era trascinata pigramente, come un olezzo di morte per tutta Waverly. Gli interventi dello sceriffo e sottoposti erano stati confusi, inutili e di un insuccesso epocale. E proprio in virtù di quella confusione e tragedia che Clint e Barney avevano messo la loro particolare... capacità a servizio dell'intera comunità. Dietro lauto compenso.

Sicari a pagamento e, per una volta tanto, di corpi già bell'è che putrefatti.

Gli unici ad aver capito, dopo diversi, frustranti tentativi, che quei mostri non si poteva abbatterli definitivamente se non distruggendo il centro nevralgico della loro ossessione: il cervello. Dovevano averlo intuito anche altri perché i telegiornali davano delle direttive piuttosto specifiche a riguardo.

Gli aveva fatto strano, la prima volta, fare fuori la dolce signora Smith. Che della signora Smith conservava giusto quell'orribile vestito a fiori. O l'invasione di massa dei bambini di quell'asilo nido che... oh, tutti quei piccoli corpi ammassati uno sull'altro a contendersi la moglie del sindaco.

E proprio dal sindaco in persona era scattata, la prima, vera richiesta di aiuto e la prima mazzetta di soldi. Tutti pezzi da cento, mica monetine.

Barney ne aveva riso, ne aveva riso e assicurato che quando quella merda di epidemia si sarebbe estinta come una scoreggia nel vento, avrebbero navigato nell'oro. Sarebbero stati eletti a eroi cittadini, magari addirittura nazionali!

Nazionali, certo... se ancora fosse rimasta una qualche nazione da recuperare, si trovò a pensare Clint, che a tutto mirava fuorché alla gloria. Ancora ce li aveva gli occhi e quei servizi ai telegiornali, proiettati in loop su tutte le tv nazionali, mondiali, davano un'idea piuttosto preoccupante della faccenda.

Molti vociferavano che fosse tutta colpa del governo, che avevano sperimentato un virus per sedare la smisurata crescita demografica degli ultimi anni e che il progetto gli era semplicemente sfuggito dalle mani.

Clint non ci capiva niente, ma se tutto aveva cominciato ad andare storto dopo l'esplosione di quei laboratori di ricerca scientifica, giù ad Atlanta, insomma non poteva essere davvero tutto una coincidenza, no?

Per questo ora si limitava a fare quello che sapeva fare meglio.

Dopo la morte dei loro genitori e una sosta in uno squallido orfanotrofio di provincia, lui e suo fratello erano incappati in un gruppo di saltimbanchi itineranti che li avevano accolti, istruendoli e allenandoli nella fine arte del tiro con l’arco. In pochi anni si erano guadagnati il titolo di stelle di punta del circo Carson. Non avevano pagato tutta quella generosità in modo troppo riconoscente: avevano aspettato di diventare maggiorenni per darsela a gambe con il bottino di un'intera stagione. Una breve, disastrosa formazione nell’esercito e un ritorno poco glorioso in terra natia. Avevano vissuto fino ad allora vivendo di piccole truffe e lavoretti che appena bastavano a mantenere la vecchia catapecchia lasciata loro in eredità dai deceduti genitori.

Barney non era un uomo di grande questioni morali, ma si era sempre preso cura di lui, fin da bambini e gli piaceva pensare di doverlo assecondare un po' per quell'affetto incondizionato che provava nei suoi confronti più che per predilezione alla criminalità.

Ma era ancora di azioni criminali che si andava discutendo? Quello che stavano facendo era un servizio di volontariato bello e buono. I soldi non erano più un problema per nessuno. Pagavano tutti e pagavano bene per assicurarsi almeno una giornata intera di sonni tranquilli.

Barney e Clint Barton avrebbero solo dovuto assicurarsi, per ventiquattro ore, di prendersi cura del loro sgradito committente. Al termine di quelle, a lavoro pagato in anticipo... avrebbero cambiato rotta, abbandonandolo al suo triste destino. A meno che non avesse sganciato cifre più consistenti.

Ed era per quello stesso motivo che ora stava in ginocchio di fronte al muretto della chiesa. Un arco fra le mani e la freccia puntata in direzione di uno di quei corpi che indolenti si trascinavano lì, sul selciato antistante la casa del Signore.

Il reverendo Carson aveva regalato loro due candelabri d'oro affinché la comunità tutta (almeno per quella fetta di fedeli o cittadini neo convertiti che ancora non se l’erano data a gambe per raggiungere chissà quale misteriosa meta) avesse la possibilità di assistere incolume alle funzioni domenicali per ingraziarsi un qualche iracondo Dio.

Un Dio che di sicuro aveva avuto molto di meglio da fare che stare a guardare il disastro umano che andava infestando il mondo. Loro che tanto parlavano di anime... che cosa, in nome di questo Dio, avrebbe potuto permettere un tale abominio?

“Io prendo il terzo a destra... quello con la faccia da scemo”, Barney lo risvegliò dal torpore sordo delle sue elucubrazioni.

“Sii più specifico... hanno tutti la faccia da scemo”, mirò, ad istinto, proprio all'uomo che il fratello gli aveva indicato.

Barney fece schioccare la lingua a rimarcare il suo fastidio.

“Camicia a quadri, budella al vento, faccia da scemo.”

“Ah, Kitt... Kitt Marshall.”

“Il figlio del macellaio?”

“Lui.”

“Cazzo se è dimagrito. Non lo avrei mai riconosciuto. La morte gli ha fatto bene!”

Ironia da quattro soldi, per stemperare la tensione.

“Dimagriresti anche tu se avessi le viscere a sgocciolare sull'asfalto.”

“Quanta soave fottuta poesia, Clinton.”

“Non chiamarmi Clinton.”

“E' il tuo nome. Non vorrai rinnegare il tuo nome… Clinton.”

E Clinton scoccò la freccia senza starci a pensare due volte: Kitt crollò a terra con un dardo conficcato dritto nel cervello.

“Sei una merda! Il ciccione era mio!”

“Avresti dovuto essere più veloce... Bernard.”

“Sei troppo una merda...”

Barney presa la mira e fece anch’egli la sua parte. Un centro bello pieno, una freccia ficcata al centro della nuca di una testa bionda. A farne le spese una ragazzina di cui Clint non ricordava nemmeno il nome.

 

*

 

Malibù, California

Ventiquattro giorni dopo

 

“Pepper! Pepper svegliati, ce ne andiamo...”

La donna aveva appena aperto gli occhi, in quelli l'apatia che da giorni non la faceva muovere, né le permetteva di comprendere la gravità della situazione.

“Ancora... cinque minuti, Tony”, biascicò in quello stato di incoscienza che rendeva le sue palpebre pesanti e i movimenti complicati.

“Non c'è tempo. Happy è qui fuori con la macchina, ce ne dobbiamo andare e dobbiamo muoverci.” Perché quel tono così urgente? Perché tutta quella... fretta?

Si sentì strattonare per un braccio e infine sollevare, un mugolio distorto, sfuggito al suo controllo, le uscì dalle labbra.

“Io... io non ce la faccio Tony... non ci riesco. Lasciami qui, vai tu... me la caverò, mi riprenderò.”

L'uomo le aveva rivolto un sguardo ostile, ma turbato; le aveva preso il viso fra le mani, stringendo la presa come se con quei movimenti brutali, stesse cercando di risvegliarla da quella preoccupante indolenza che da giorni aveva preso possesso della sua compagna.

 

Tony lo aveva sentito al telegiornale. Ci aveva preso familiarità, se lo era appuntato indelebilmente nella mente. Iniziava esattamente così. Era iniziata così per tutti.

Quella che si presentava come una banale influenza, uno stupido raffreddore, che enfatizzava quel senso di spossatezza, quella incredibile apatia... finiva per trasformarti in uno di quegli esseri orribili e totalmente antiestetici che le televisioni di tutto il mondo non si erano fatti scrupoli a mostrare a chi ancora non aveva avuto il (dis)piacere di incontrarne uno dal vivo.

“Ci dobbiamo muovere. E non ti lascio certo qui a trasformarti in uno di quei... mostriciattoli dai denti marci. Sai quanto costa oggigiorno una buona manovra odontoiatrica?”

“Che?” la sentì biascicare. Aveva la fronte bollente. Ancora accesa la speranza che si trattasse solo di una influenza, di quelle vere, di quelle che avevano solo bisogno di qualche giorno di riposo, succo d'arancia e qualche aspirina. Al pensiero di perderla, di vederla trasformarsi così come aveva visto fare al suo maggiordomo (che ora giaceva con la testa massacrata – perché solo così potevi ucciderli davvero – a galleggiare nella piscina di casa) solo qualche giorno prima, si sentiva accartocciare lo stomaco e soffocare dall'ansia che non lo aveva abbandonato un solo istante da quasi un mese a quella parte.

Non la sua Pepper.

Non dopo tutti quegli anni sprecati a giocare al playboy milionario, a dissipare le sue idee per una causa che non aveva mai sentito totalmente sua. Vittima di un'adolescenza incompresa. Dell'eredità di una famiglia troppo potente. Di un padre che era morto troppo alla svelta, senza mai dargli la possibilità di comprendere il vero valore dei sentimenti...

Non la sua Pepper.

Non la sua... Pepper.

Quando la donna gli starnutì in faccia, spargendo muco ovunque, gli sembrò che si stesse riprendendo appena.

“Buon modo per frenare il pathos di una elucubrazione.”

“C-che cosa stai dicendo, Tony?” quel tono di pigro rimprovero a rassicurarlo che era ancora lei, che era lì, presente e cosciente, “Non dovremmo muoverci?” la sentì aggrapparsi alle sue spalle per rimettersi in piedi: doveva aver compreso la gravità della situazione.

“Certo.” liquidò l'argomento, aiutandola ad attraversare la camera da letto, a scansare il disastro di vestiti e bagagli di cui, ormai l'aveva capito, non avrebbero avuto bisogno e a scendere le scale verso l'atrio.

Fu un attimo, prima che la porta d'ingresso si spalancasse con gran fragore.

“Tony!” era Happy, suo autista, guardia del corpo e amico. E per quanto il suo nome fosse presagio di buone novelle, non sembrava affatto felice... di vederlo.

“Che sta succedendo? Non dovevi aspettarci in macchina?” gli ringhiò contro, esasperato, mentre quel rimescolio allo stomaco non faceva altro che procurargli nausee affatto richieste.

“I vicini!” gridò con movimenti convulsi delle braccia.

“I vicini, cosa? Parla!”

“I vicini si stanno mangiando l'un l'altro... è uno spettacolo disgustoso!”

“Per quanto disgustoso sia... non mi pare un buon motivo per abbandonare la nave!”

“Sì che lo è, se li stanno gustando tipo cena da portar via, in processione su per il nostro vialetto di casa!”

Tony sgranò gli occhi, mentre Pepper si stringeva a lui con maggior vigore.

“Immagino che la limousine sia un'ipotesi da scartare allora.”

“Decisamente.”

“La Acura sul retro come sta messa?”

Happy sbarrò la porta d'ingresso per rallentare l'orda di camminatori morti, dandogli così la risposta che sperava di sentir arrivare.

 

*

Albany, Georgia

Ventotto giorni dopo

 

Un colpo al ventilatore e questo riprese a funzionare.

Lo sceriffo Nicholas J. Fury tornò a sbirciare fuori dalla finestra del quartier generale. La strada, fuori, era ancora deserta.

L’occhio gli pulsava, alcuni giorni erano peggio di altri e quello non era decisamente uno di quelli buoni.

Il dolore a volte, gli procurava dei febbrili mal di testa. Era stato fortunato, si diceva. Fortunato che le strutture mediche fossero ancora attive e funzionanti, il giorno dell’incidente.

Probabilmente, per come erano andate a mettersi le cose, non avrebbe recuperato mai più l’uso dell’occhio sinistro.

La cosa che più gli dava sui nervi era il non poter essere di grande utilità in tempi come quelli.

Aveva dovuto affidarsi alla collaborazione di tutte le forze rimaste: impossibile, per lui, uscire di pattuglia. Impossibile anche solo il pensiero di mettersi al volante. Il numero spropositato di farmaci che era costretto a ingerire minavano in qualche modo alla sua attenzione, alla sua lucidità.

E a volte si ritrovava a pensare fosse un bene, forse avrebbe persino dovuto ringraziare per quella straordinaria occasione.

Non era del tutto certo gli sarebbe stato facile gestire quella stracazzo di apocalisse zombie o come diavolo volevano chiamarla, senza un po’ di sano antidolorifico.

E dire che gli mancavano meno di tre mesi alla pensione. Meno di tre fottutissimi mesi. Aveva programmato tante di quelle cose da fare per soffocare l’angoscia di finire come tanti ex colleghi che andavano a smaltire gli ultimi, pigri anni di vita in qualche bettola, a sfondarsi lo stomaco di whisky a giocare a carte, a raccontare le storie dei bei tempi andati, a lamentarsi del tempo e del degrado della gioventù odierna. E invece guarda un po’ che cosa gli doveva capitare.

Una di quelle robe che era sicuro di non aver visto nemmeno in Vietnam quando non era che un ragazzino irascibile, strafatto di canne. Morti tanti. Morti che ritornavano in vita e sembravano guardarti come fossi un cheeseburger, proprio mai.

Il ventilatore smise nuovamente di funzionare. Probabilmente da lì a qualche giorno anche le centrali elettriche avrebbero smesso di fare il loro dovere. Con la crisi del personale che si era andata espandendo in quelle ultime settimane poi…

Dalla curva del vialetto vide finalmente sbucare una macchina. Aveva dovuto lottare contro un misto di senso di colpa e paura quando aveva lasciato partire la sua squadra per una ricognizione sommaria della zona, nondimeno per il recupero di beni di prima necessità e una quantità di medicinali sufficienti a tenere a bada il suo dolore per almeno un’altra settimana (sempre che fossero riusciti a sopravvivere… un’altra settimana).

Si stupì nel veder sgommare la macchina di pattuglia e inchiodare come se avessero il diavolo alle calcagna. Che fossero inseguiti da un'orda di corpi morti? Niente dava l’idea di qualcosa di consistente in corso in prossimità della zona.

Trasse un sospiro di sollievo nel riconoscere entrambi i suoi migliori agenti scendere dalla vettura e correre, letteralmente, verso la porta.

Si grattò appena sotto il cerotto della garza che gli riparava l’occhio in fase di guarigione e andò ad attenderli, mano alla pistola, alla porta… che si spalancò con gran fragore.

“Sceriffo!” l’agente Hill trasportava un borsone carico di roba, probabilmente frutto della razzia; l’agente Coulson, alle sue spalle, non meno affannato.

“Ne stanno arrivando a centinaia.”

Il panico gli serpeggiò nel petto per un lungo, interminabile istante.

“Di che cosa stai parlando?”

“Persone, centinaia di persone… stanno arrivando.”

“Morte… ?”

Coulson scosse la testa per enfatizzare le parole della collega.

“No, signore… i vivi. Sono a centinaia… sembrano una carovana… e stanno attraversando la statale, diretti…”

“Ad Atlanta.” sintetizzò Fury, il cipiglio fattosi improvvisamente serioso.

“Allora è vero...” esalò Coulson, lasciando andare i borsoni, tornando a guardarsi alle spalle, un gesto istintivo.

Quei maledetti telegiornali.

“Solo perché gli Stati Uniti pullulano di creduloni, non significa che la notizia sia vera.” Ringhiò Fury che non aveva voluto dargli credito. E mai lo avrebbe fatto.

Ad Atlanta stavano i militari che avevano messo in quarantena l’intera zona, settimane prima. Ma potevano anche essere tutti morti, per quello che ne sapeva, e di certo non era un centro di accoglienza dove stavano sperimentando una cura a quell’epidemia del cazzo.

Come poteva esserci una cura per un morto marcescente che si trascina, privo di volontà, come in uno di quegli stupidissimi film horror di serie B?

Fosse stato vero si sarebbero alzate tanti di quelle questioni morali da far impallidire un prete.

Quando avevano capito che quei cosi non si avvicinavano ai sani per chiedere aiuto, ma per mangiarseli con gusto, ne avevano fatti fuori in una quantità spropositata; questo cosa avrebbe comportato? Un servizio di pietà nei confronti di quelle anime dannate o un omicidio bello e buono?

Decise che non era qualcosa che lo interessava, non adesso. La dolorosa pulsazione all’occhio reclamava, al momento, tutta la sua più vivida attenzione.

“Avete trovato i farmaci?” domandò.

Coulson si decise, finalmente, a chiudere la porta dell’ufficio.

 

___

 

Note:

Ecco, nel riassunto alla storia avrei dovuto infilarci qualche indizio sui personaggi che popoleranno in modo più o meno attivo la fan fiction. Purtroppo ne potevo inserire cinque e come quinta opzione ho voluto infilarci quel “un po’ tutti” che pare sminuire l’importanza degli altri. Niente di più sbagliato. Come avrete notato ho deciso di parlare per punti di vista. Quelli che ritroveremo più o meno frequentemente saranno, in linea di massima cinque: Loki, Natasha, Clint, Stark e Fury. In linea generica però poi salterà fuori qualche sorpresa qua e là. Ma di base, mi sentirei di dare a questi cinque il compito di portare avanti la trama. Poi chissà. Ancora non ho finito la storia, potrei impazzire e decidere di far narrare il tutto a Coulson che nel frattempo è diventato zombie (no, non è uno spoiler, solo un esempio!).

Non mi resta che ringraziare al solito Sere, per la consulenza e betaggio. E chi mi ha lasciato il suo parere, e tutti coloro che leggono, ovviamente. Alla prossima.

  
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