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Autore: DonnieTZ    19/10/2014    5 recensioni
Serena.
Un padre freddo e distante, una madre scomparsa nel nulla e una solitudine difficile da digerire. Proprio come il cibo che non riesce a mangiare o le parole che non riesce a dire.
Finché non finisce in un altro inferno e tutto perde contorno, sconvolgendo ogni cosa che dava per certa e facendole trovare conforto nel più inaspettato dei modi.
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Un grido esce dai miei polmoni senza che possa controllarlo.
In un istante vengo afferrata alle spalle. Mi agito, scalcio, non capisco cosa stia succedendo e cado al suolo, sbattendo con forza la testa. Una marea di puntini galleggiano davanti ai miei occhi, subito seguiti dal dolore pulsante nel punto in cui la superficie dura del pavimento ha incontrato la mia tempia. Non riesco ancora a mettere a fuoco ciò che ho davanti, ma un peso mi schiaccia al suolo e un’ombra nera si tende verso la mia faccia.
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È un'ombra gigantesca, si frappone fra me e il camino, oscurandomi. La sua mano raggiunge il mio viso e lo alza, perché possa guardarlo.

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Genere: Introspettivo, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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3 - Sei Mesi Vicini
 
Ogni giorno scorre via uguale: mi sveglio, mi lavo, infilo una maglietta e un maglione sulla pelle nuda e attendo. Mi ha portato qualche vecchio libro, qualche foglio, una corta matita. In realtà aspetto solo i pasti, quando posso scendere e guardare oltre le finestre il panorama che la prima sera, a persiane chiuse, non ho potuto assaporare. Montagne con le vette già spruzzate di bianco, pini alti il cui profumo arriva fino in casa e Cerbero che corre fuori, inseguendo chissà cosa. Non sembra esserci altra civiltà, nei dintorni.
Sono tenuta costantemente d'occhio, quando non sono chiusa in camera. Ogni mia mossa, ogni mia occhiata, ogni gesto e, soprattutto, ogni boccone che arriva alle mie labbra. All'inizio si è trattato di pasti magri, facili da gestire, che si sono poi trasformati in vere e proprie porzioni. L'uomo che mi tiene prigioniera, pare quasi imboccarmi con i suoi occhi fissi su di me e, piano, sto riuscendo a mangiare sul serio. Sembra diventata una strana missione, la sua, e cedergli il potere di decidere cosa fare di me ha sollevato dalle mie spalle un peso che conoscevo a memoria, ma non avevo mai realizzato esistere. Di tanto in tanto mi capita di vomitare, ma lui mi sente e corre dentro la mia stanza, con i soliti movimenti calmi e decisi, squadrandomi con freddezza.
«Tutto bene?» la sua domanda.
Un'alzata di spalle la mia risposta.
Intanto il tempo passa. Settimane, poi mesi. Una sola, costante domanda: mio padre pagherà? Con lo sbiadire dei giorni, però, un'altra le si sostituisce: voglio che mio padre paghi?
Certo, a livello razionale desidero tornare alla mia stanza, alla mia vita, alle poche e superficiali amicizie, alla solitudine, alla tristezza, all'abbandono...
No, non voglio.
Voglio.
Non voglio.
A volte mi sembra quasi la mia testa stia per scoppiare, mentre nelle tempie pulsa solo confusione.
L'albino è una presenza assidua, ma silenziosa. Parliamo poco, forse niente, e le sue frasi brevi mi tengono poca compagnia. Cerbero, al contrario, sembra davvero affezionarsi a me, con la sua festosa spontaneità e il suo veloce scodinzolare.
Qui, senza il giudizio esterno, senza la vita vera a pretendere io sia all'altezza, vestita di abiti larghi, mi sento in un comodo limbo. Non posso decidere nulla, non posso fare niente, non posso sbagliare davvero. Questo posto dovrebbe sembrarmi l'inferno e invece non mi sono mai sentita tanto accudita, non mi sono mai sentita così... in pace. Senza pressioni, senza giudizi, senza obblighi. Di tanto in tanto penso a mio padre, o a Lisa, e allora piango o mi sveglio nel bel mezzo della notte, sudata sotto la moltitudine di coperte.
Come questa notte, quando un urlo lancinante mi esce dalle labbra e vengo svegliata dalla mia stessa voce, confusa e spaventata. L'incubo riguardava proprio Lisa, i suoi occhi vitrei, pallidi e assenti in cui sono affondata fino a riemergere per accorgermi che erano i miei, fino a realizzare che il cadavere ero io.
La luce si accende e subito l'albino è nella stanza, con Cerbero alle spalle.
«Che succede?» domanda, affannato.
Non l'ho mai visto davvero preoccupato – se non per qualche lampo nei suoi occhi, una scia di emozione dentro le iridi pallide –, mai lo è stato come in questo momento.
«Io... ho solo avuto un incubo» riesco a spiegare, con la voce ancora tremante e rauca.
Le sue spalle avvolte dalla maglietta grigia si rilassano appena, svelando una ritrovata tranquillità che mi stupisce sia stata persa del tutto.
Si avvicina e si siede sul bordo del letto.
«Tuo padre non ha chiamato» ammette, senza che il suo tono di voce sia colorato da pietà o tenerezza.
«Immaginavo» rispondo, mettendomi seduta.
«È questo a preoccuparti?» continua a chiedere.
Ci penso, lo faccio sul serio, tentando di trovare una vera risposta, un'affermazione accettabile, invece mi esce solo la verità.
«No» ammetto.
«Cosa, allora?»
Fissa dritto davanti a sé con un'ostinazione che ormai mi è familiare. Cerbero sale sul letto e lui appoggia la sua mano sulla sua testa, carezzandolo pigramente.
«Lisa» dico.
Emette un piccolo suono di comprensione.
Restiamo in silenzio, poi, mentre il cane passa dalle sue attenzioni alle mie. Non voglio restare sola, perché l'incubo è ancora vivido e pare aleggiare nell'aria, appiccicarsi alla mia pelle, strisciarmi addosso.
«Ti pagano per uccidere?» domando, all'improvviso.
Probabilmente è una domanda sciocca – pericolosa, perfino – dal momento che posso benissimo immaginare la risposta, eppure voglio sapere con certezza, voglio conoscere, capire.
«A volte.»
«Perché hai chiesto altri soldi a mio padre? Insomma perché non mi hai semplicemente...»
Abbasso lo sguardo e mi ritrovo a giocare con il bordo della coperta, nervosa. Il sogno ritorna alla mia mente, ma cerco di ricacciarlo indietro.
«Ho valutato le conseguenze possibili. Se ti avessi uccisa avrei corso più rischi, tutto qui.»
«Tutto qui» gli faccio eco.
Finalmente si volta e i suoi occhi incontrano i miei. Qualcosa di simile all'agitazione mi serpeggia dentro. La stessa assurda sensazione che ho avuto da piccola, sulle montagne russe, appena iniziata la discesa. Un vuoto di stomaco e di pensieri, una leggera paura, accompagnata dalla certezza di essere al sicuro.
«Buonanotte, Serena» conclude alzandosi.
«Tu sai il mio nome, ma io non so il tuo.»
«E non lo saprai» dice quando ormai è sulla porta. «Lascio Cerbero qui, magari ti farà bene.»
 
♦⸎♦
 
Mi risvegliano le umide leccate del cane. Probabilmente è tardi, vista la luce che entra dalla finestra, ma non mi sento molto riposata. Tutti i pensieri delle settimane precedenti mi hanno tenuta sveglia a lungo e non riesco a dare ordine a questa confusa nube di se e ma. Ho smesso di chiedermi che fine abbia fatto mio padre, non voglio sapere quanto tenga a me, perché non si sia fatto avanti per riportarmi a casa. Non voglio pensare alla morte o a cosa potrebbe accadermi se lui non dovesse mai pagare. Quello che mi ossessiona davvero, infatti, è la strana sensazione di questa notte. L'uomo pallido che entra nella stanza e invade i miei pensieri. Il suo sguardo, la sua preoccupazione e ciò che si è smosso dentro di me. Più ci penso e più sembra stupido e folle, ma se mi soffermo sull'idea mi rendo conto di qualcosa di terribile: è l'unica persona che si sia mai preoccupata per me.
L'unica.
In tutta la mia vita.
Sono consapevole, in una parte ammutolita dei miei pensieri, che si tratti di un meccanismo di difesa, di qualche assurdo ingranaggio che si inceppa quando puoi vedere solo una persona per giorni, settimane, mesi, ma non ho la forza di razionalizzare.
«Ok, ho capito, Cerbero, mi alzo.»
Scosto le coperte e mi dirigo spedita al bagno. Sotto la doccia cerco di non rimuginare troppo e in pochi minuti sono pronta. Quando esco, già avvolta in uno dei grossi maglioni che mi sembrano ormai una seconda pelle, quasi mi scontro con l'albino.
È in piedi, in mezzo alla stanza.
«Colazione» mi informa, lapidario.
Non rispondo, limitandomi a seguirlo silenziosa. Perfino il suo fidato amico a quattro zampe sembra cogliere l'inspiegabile tensione che ci circonda.
Sediamo a tavola e mi prendo i soliti minuti necessari per scendere a patti con l'idea di mangiare. Lui non mi guarda, neanche per sbaglio.
«Se non dovesse pagare cosa ne farai, di me?» domando, prima di mordere la fetta di pane cosparsa di marmellata, masticando a forza.
Fa fuoriuscire l'aria dalle narici in uno strano sospiro, quasi esasperato. Non che le emozioni siano davvero manifeste sul suo viso, ma ho imparato a coglierne i piccoli segnali.
«Cosa vuoi che dica?» chiede, mantenendo sempre la stessa controllata calma.
Alzo le spalle anche se lui non può vedermi.
«Penserò a quest'eventualità fra qualche giorno» confessa, alla fine.
La prima vampata di gelo riguarda la paura, subito seguita da una quieta rassegnazione.
«Stai davvero pensando di... di...» cerco un termine adeguato che non suoni terribile, senza riuscirci.
Di uccidermi?
«No» risponde.
Lo fa in modo troppo veloce, troppo deciso, troppo assoluto. Tanto che qualsiasi sensazione mi si sia agitata dentro finisce per implodere. Tanto che è costretto finalmente ad affondare i suoi occhi gelidi nei miei per capire se ho colto il significato della sua risposta, per capire quanto sia stato irreparabile pronunciare quella sillaba.
E sul mio viso dev'esserci scritto tutto. Dev'esserci dipinto troppo.
«Finisci di mangiare» conclude, tornando a fissare il vuoto.
 
 
Ringrazio tutti quelli che sono passati per lasciare una traccia nei capitoli precedenti, chi legge, segue, preferisce...
Grazie mille!
Spero continui a piacervi e spero vorrete farmi sapere cosa ne pensate! 
A presto! 
EDIT: come sempre (mi ripeto, lo so), se volete continuare la lettura offline, sul mio sito potete scaricare la storia agggratis.
DonnieTZ
 
   
 
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