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Autore: Drago Rosso Sangue    19/10/2014    1 recensioni
Djibril Moore è una giovane maga degli Elementi, la quale compito è proteggere, assieme al padre bibliotecario, uno specchio magico che apre la porta alla dimensione Neutrale tra Cielo, Terra e Inferi, il Labirinto, la dimora di Yggdrasil. È un'avventura mozzafiato tra angeli, demoni, shinigami e creature insolite, in un'atmosfera carica di spiritualità.
Spero che gradiate questa fanfiction (anche se lo è solo in parte). Drago Rosso Sangue. Meow (?) Roar
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Grell Sutcliff, Nuovo personaggio, Ronald Knox, Undertaker
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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CAPITOLO DUE "È tutto buio. Non si vede niente. Avanzo alla cieca, passando le mani sui muri stretti che mi circondano. Una luce. La seguo, come un naufrago che trova la sua salvezza su un'isola. Si fa più intensa. Appena la tocco, questa corre sulle pareti, illuminando l'insolita costruzione. Lo vedo, un labirinto. Immenso, oscuro. Davanti a me si erge una fontana. Ha una forma insolita, una grossa lucertola raggomitolata,su un albero, le zampe e la coda aggrovigliate tra i rami, scolpita con maestria in una pietra verde. È marmo. Anche l'acqua è verde, e ha un profumo così dolce che mi viene una dannata voglia di berla. Sento una risata inquietante. - Non toccarla. È acido. - la voce roca e profonda mi parla. Ancora una risata. Mi volto nella direzione da cui proviene. Sotto un fungo enorme, mi dá le spalle un uomo pallido, vestito di nero, con lunghi capelli argento, che gli fluttuano attorno al capo, avvolgendosi in spirali. Come sono solita fare, lui mi guarda, con gli occhi coperti da una folta frangia, da sopra una spalla, come se mi imitasse, un ghigno crudele dipinto sul volto sfregiato. Mi tende la mano, quelle unghie nere mi fanno ribrezzo. - Vieni da me... - Non ride più, anzi, la sua voce si è fatta sensuale. Mi avvicino. Le mie dita stanno per sfiorare le sue. Chiudo gli occhi. Ma i miei polpastrelli non incontrano niente. Lui è scomparso. Al suo posto, Belial sta uscendo da una porta, comparsa sul gambo del fungo. - Devi stare lontana dagli estranei, Djibril. - È davvero lui? Da quando si rivolge a me con il mio nome e dandomi del 'TU'? Lo osservo bene. I suoi occhi sono rossi, e i disegni attorno agli occhi sembrano sangue fresco. Mi spaventa. Sembra diverso. Mi prende la mano e con l'altra apre una finestra. - Guarda, Djibril, cosa sto facendo per te." - Inizio a tremare, mentre la paura mi,schiaccia al suolo. Mi trovo in ginocchio a fissare nauseata ciò che vedo al di là della finestra. Ho paura. Quelli sono i malefici muri dell'Inferno." I fumi pestiferi, neri come la pece e rossi come il sangue appena versato, lo avvolsero, dando il benvenuto a quel demone che conoscevano bene. Ma a Belial venne la nausea. In cuor suo era certo che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe solcato,il suolo dello Sheol, il livello più basso dell'Inferno. Quello era il luogo più malefico di tutti i Sette Cerchi, la dimora di Lucifero, il Re delle Tenebre. Belial sapeva con esattezza dove andare, ormai erano le sue gambe a condurlo alla sala del trono, nelle viscere della terra marcia, con la quale era composto il suolo degli Inferi. Ecco, la dannata arcata che l'avrebbe portato alla rovina, scavata con le unghie da Lucifero in persona, imbrattata del suo sangue demoniaco. L'aveva varcata solo di un passo quando avvertì quella presenza nauseabonda dietro di lui. Appeso al soffitto a testa in giù, l'immensa figura nera ammantata di Asmodeus, lo osservava beffardo con tutte le sue tre teste: al centro quella da uomo, sulla quarantina, emaciato, i folti capelli lisci legati in una coda corta; a destra quella da ariete, con le corna ritorte a spirale; e a sinistra quella,da toro, minacciosa, le narici fumanti. Erano una maschera di scherno, i sei occhi del Conte del Giudizio. - vai ad osannare il tuo Signore, Belial? - disse beffardo. La sua bocca era coperta dal colletto del mantello, ma il Cappellaio,seppe con certezza che stava sorridendo. - Oppure a estorcergli qualche parola infame su di te per sentirti realizzato? - ora stava ridendo. E Belial si,stava irritando. Quel maledetto sapeva tutto sul suo conto, lo spiava in tutto quello che faceva, ci avrebbe scommesso che Asmodeus era a conoscenza anche della farfalla, tatuata sulla coscia. Comunque, il demone rosso rimase impassibile, immobile nella sua posizione, come una statua magnifica d'altri tempi. Un'ultima occhiata ad Asmodeus e si voltò verso l'entrata della sala del trono, varcandola senza indugi, dietro alla figura in ombra di Lucifero, in lontananza, determinato al massimo nel percorrere la sua strada lontano dalle tenebre. Sì, l'avrebbe fatto, per la salvezza della sua anima, per l'amore verso,il Re Malefico, il,quale mai l'avrebbe ricambiato, per Djibril, la sua creatura da proteggere con tanto affetto, senza tradirla mai. La sala era immensa, tanta maestosità per un demone solo, radici nere si,aggrappavano con forza ai muri, formando macabri grovigli di legno, ossa e sangue. Il tanfo di putrefazione riempì le narici di Belial che, senza controllo, corse in un angolo, protetto da alcune radici malefiche, vomitando. Dipingi stato, si pulì la bocca con le mani, sudato. Pregò - insolito,per un Satana - che il suo Lucifero non avesse assistito a quel momento di debolezza, ma in realtà era conscio della Bista del Re Malefico, i suoi occhi grigi scrutavano tutti,i suoi demoni, sempre. - Patetico, Belial - Asmodeus. Patetico, Belial. Quelle due parole gli fecero,montare la rabbia a dismisura. Quel leccapiedi del Conte del Giudizio gli aveva dato del patetico. Non lo poteva tollerare, non questa volta. Gli aveva permesso di etichettarlo in molti modi, di rinfacciargli tutte le sue qualità - che erano assai poche - e i suoi difetti, accettando il tutto senza il minimo lamento. Ma che quell'egocentrico pervertito e osceno gli,desse del patetico... Si girò di scatto verso Asmodeus, in piedi a qualche metro da lui, austero e impettito nel suo mantello di pece, una sola testa - come fosse una persona normale, alzando una mano. Il cilindro cadde. Non guardò nemmeno Asmodeus, anzi, il suo volto era rivolto dalla parte opposta del Conte, ma il suo metodico fendente cemtrò il bersaglio. Belial sentì sul braccio il sangue di Asmodeus, sorridendo soddisfatto. Come se non fosse successo nulla, il Cappellaio si raddrizzò, ma non prima di aver raccolto,il suo prezioso cappello. Guardò dritto davanti a sé, il cilindro rovesciato stretto nelle mani, come un prestigiatore, gustandosi i lamenti d'agoniamdi Asmodeus, un po' sovrappeso ero, lo sguardo perso nella volta dell'immensa sala dello Sheol. -...ledetto...Maledetto...La pagh-era-i... - Lo disse trai gorgoglii del suo sangue amaro in bocca. Quel dannato era davvero duro a morire, da bravo e rispettabile - ma era davvero bravo e rispettabile? - Satana qual era. Con una mossa teatrale, Belial si posò il cilindro in testa e, prendendo un respiro rinvigorente, per autori fondersi coraggio, si avviò lentamente verso lo scranno di Lucifero, il quale gli batteva le amni, quel sorriso inquietante sulle labbra. Il Cappellaio Matto si lasciò dietro delle orme insanguinate. Asmodeus giaceva riverso a terra, la gola tranciata in un mare di sangue. Attorno a Lui le ombre is dissipavano man mano che Belial si avvicinava, il suo amato Lucifero stava composto e altezzoso sul trono di pece, decorato da piccoli teschi con le corna, avvolto nel suo nero mantello, gli sorrideva maligno con quel bellissimo volto che tanto amava e desiderava, incorniciato da serici capelli neri lunghi fino alle spalle e spettinati, come se il vento degli Inferi gli accarezzasse di continuo il capo. I suoi occhi grigi erano freddi e inespressivi, incapaci di lasciar trapelare alcun sentimento. Eppure Belial era attratto da quello sguardo di ghiaccio che lo trafiggeva con disprezzo ogni volta che Un si presentava al Suo cospetto. Il Cappellaio, giunto ai piedi del trono, si inginocchiò in un profondo inchino, levandosi il cappello con un'altra mossa ben studiata per tentare di impressionare Sua Maestà. Lo osservò di sottecchi, dal basso della sua posizione. Niente. Sempre impassibile e composto dietro la sua maschera indecifrabile, che gli nascondeva alla vista degli altri le sue emozioni e i suoi sentimenti. Se ne aveva. Se ne provava. Allora il demone iniziò a parlare, scorgendo il consenso negli occhi spenti di Sua Maestà. - Signore, Re Malefico, permettetemi di dirvi che voi siete una persona a cui tengo più della mia vita. - Lucifero rimaneva lo stesso, immobile, come se la dichiarazione d'amore celata da quelle parole non l'avesse nemmeno sfiorato. Belial si sentì davvero male. Lui, il quale aveva sempre servito con dedizione e fedeltà, il Suo Signore, non gli era concesso nemmeno una briciola di quel cuore oscuro che tanto bramava con ardore. Sorrise con malizia. Ora era giunto il momento della sua vendetta, di riprendersi il proprio cuore da quei tentacoli d'ombra che lo ripudiavano e cederlo a qualcuno che l'avrebbe davvero saputo amare. - MA...esiste qualcuno a cui tengo maggiormente, non offendetevi. Qualcipuno per cui vale la pena morire...- Belial si alzò con una rapidità disarmante e si scostò appena in tempo per evitare che le unghie metalliche di Lucifero lo dilaniassero all'altezza del cuore. - Traditore! - sbraitò il Re Malefico, alzatosi dal suo scranno, furioso. Il suo lungo mantello fluttuava attorno a quella figura oscura, dalla quale is sprigionavano dei velenosi fumi neri. Ecco, l'essenza del Re Malefico. Quei sottili occhi grigi si erano tinti di un rosso sanguigno terrificante, che atterrì Belial, il quale si immobilizzò sotto quello sguardo gelido che spruzzava scintille di rabbia. Belial non credeva ai suoi occhi. Il suo Signore era infuriato perchè lui...perchè lui se ne stava andando, lo stava abbandonando, dopo tanti anni di intenso servizio. Si sentiva colmo di gioia, e in quel momento il sorriso gli affiorò sulle labbra. Pensò persino, in un istante appena di dissennatezza, di ritirare ciò che aveva appena detto e rimanere al Suo servizio, abbandonando così la piccola Djibril. Ma questo pensiero venne subito travolto e scacciato dalla cieca furia di Lucifero, devastante e terrificante come un tornado, la quale si abbattè stipula Belial come le onde del mare in tempesta si abbattono sugli scogli appuntiti e sulle navi sciagurate, affondandole, facendole cadere a picco tra le braccia di Leviathan. Anche se preso alla sprovvista, il Cappellaio reagì parando il fendente metallico del Re malefico con il cappello, il quale aveva assunto una vaga forma di scudo. E si sentiva potente, invincibile. La prima volta che is ribellava al suo Signore. Con un urlo belluino, Lucifero si fiondò ferocemente su Belial, colpendolo ripetutamente con quelle tremende unghie di metallo, ferendolo. Ma il Cappellaio non si diede per vinto. Reagì con efficacia agli attacchi di Sua Maestà, parandoli con gli artigli affilati come rasoi e con i suoi stessi polsi. Sembrava l'antica lotta tra i Titani e gli Dèi dell'Olimpo della mitologia greca. In quell'immensa sala, due creature, simili a uomini, ma dall'essenza divina, combattevano spietatamente, tra urla, acqua e sangue, due demoni magnifici e terrificanti come uomini di altri tempi, come Dèi dell'Ombra. La potenza di Lucifero spinse il Cappellaio verso il corpo martoriato di Asmodeus, il quale stava rigenerandosi lentamente, traendo,sollievo e nutrimento dal terreno di Sheol. Ma il suo sangue lo imbrattava, incapace di ritornare nel suo corpo originario. Così Belial lo sfruttò a suo vantaggio, tra le imprecazioni del Conte del giudizio. Tra le dita del Cappellaio, il sangue si condensò in una frisata rossa, fulgida e guizzante, come se quel sangue scorresse ancora nelle vene del suo vecchio portatore. Schioccò la macabra frusta verso Lucifero, colpendolo all'altezza dell'addome. In una miriade di schizzi brunastri, la ferita si aprì sul corpo perfetto di Lucifero, strappandogli un grido di dolore. Belial rise, trionfante, gettando la testa all'indietro e chiudendo gli occhi rossi, in un impeto di gioia indescrivibile. Il suo dannato idolo, il Re Malefico, stava ora in ginocchio a qualche metro da lui, un suo sottoposto, premendosi la ferita, in agonia. Patetico. - Tu sei pazzo! - sbraitò Asmodeus alle sue spalle.Il Conte stava malamente in piedi sulle sue gambe, appoggiato con una spalla ad una radice nera, la quale faceva da gabbia a una decina di bianchi teschi ghignanti, aggrovigliati in essa, respirando a fatica. La ferita alla gola era quasi rimarginata del tutto, ma Asmodeus non aveva ancora recuperato tutte le sue forze. E ora fissava Belial con uno sguardo a metà tra l'ammirato e il terrorizzato. Forse perché nessuno l'aveva mai sconfitto, all'infuori di Dio, ovviamente. Ma era consigliabile non trattare questo argomento in presenza dell'interessato, in quanto questo diventava oltremodo irritabile e di cattivo umore. Il Cappellaio si voltò appena verso Asmodeus, il viso intrappolato in una maschera di crudele trionfo, di inquietante felicità, deformando le labbra in un ghigno storto. - Sì, caro vecchio Asmodeus, hai pienamente ragione. Sono talmente pazzo da fare ciò... - Ritornò ad osservare il Re Malefico, tremante di dolore sul malefico terreno di Sheol. Vibrò la sua frusta ad una velocità impressionante, andando a colpire più e più volte il volto di Lucifero, ridendo di una gioia maligna e perversa. - Lo vedi, Asmodeus, quanto sono pazzo? - Iniziò ad avanzare verso il Conte, il quale si,immobilizzò, atterrito dallo sguardo crudele dell'altro demone e dalla frusta imbrattata del sangue di Sua Maestà. - Asmoodeuus...- cantilenò Belial con voce soave, avvicinandosi a un soffio dal volto del Conte, maledettamente sensuale. Fece passare l'estremità della frusta sulle guance del Conte, lascivo come solo un demone sa essere, sogghignando malizioso. Eh, sì. La luce splende nelle Tenebre. Ma le Tenebre non l'hanno accolta. Ad un tratto Asmodeus iniziò ad agitarsi, irrequieto. Il Cappellaio si bloccò, guardandolo interrogativamente con quegli occhi rossi. - Aaah...Belial? Dietro di... - Il Conte non finì nemmeno la frase che già Belial si era voltato, scoprendo, così, la minaccia. Lucifero stava piombando,su di lui, feroce come non mai, brandendo la,sua tremenda spada nera. Se non fosse stato per i riflessi del Cappellaio, quel colpo l'avrebbe ucciso. Invece il demone si scansò rapidamente e vibrò la frusta in direzione della spada di Lucifero. Ma appena questa si,avvolse attorno alla lama nera, si distrusse, ritornando sangue. Colto alla sprovvista, Belial decise di seguire una nuova tattica. Con il sangue di altri, le sue armi erano fragili, inutili, proprio come il significato del suo nome. Con il suo stesso sangue, invece...Velocemente si tagliò all'altezza del cuore, in modo che il sangue fuoriuscisse, e lo modellò come una spada, dall'impugnatura a due mani, come uno spadone, dalla lama scarlatta, lunga e affusolata, letale. In tempo per parare la nuova stoccata del Re Malefico. Quando la lama nera e la lama rossa si scontrarono, tra mille scintille e lacrime di sangue, si creò un'esplosione, un boato assordante, che attraversò tutto l'Inferno, come un scarica elettrica. Scosse tutto lo Sheol, facendolo tremare e gemere di dolore e scaraventò i due combattenti l'uno dalla parte opposta dell'altro. Imprecando, Belial si levò dal busto qualche calcinaccio e qualche radice che si,era staccata dal soffitto per la violenta esplosione. Si alzò a fatica, le gambe e la schiena un poco indolenzite dall'impatto. Stava cercando di riordinare la testa frastornata, le orecchie gli fischiavano, quando Lucifero bucò le polveri sospese, che si erano sollevate a seguito dell'esplosione, come un drago nero e malefico, la spada alzata dritta di fronte a lui, puntando al cuore del traditore Belial. Ma il Cappellaio fu più rapido del Re Malefico: con un balzo si alzò da terra liberando le sue diaboliche ali, le quali uscirono dalle sue scapole con il suono secco di uno sciame di libellule. Erano enormi, magnifiche e terribilmente ipnotiche, in quanto le piume nere come la notte di pece si intervallavano ritmicamente a piume gialle, rosse e blu sgargianti, conferendo ad esse un aspetto magico, quasi fatato. Si librò in aria come una farfalla demoniaca, muovendo ritmicamente le ali per allontanarsi il più possibile da Lucifero, il quale, con le sue quattro ali completamente nere, mirava solamente alla distruzione di Belial. Fu uno scontro tremendo, di una violenza inaudita, uno scontro all'ultimo sangue, talmente potente da essere avvertito in tutti i sette Livelli. Piansero le anime nell'Hades, e tremarono i demoni di Gehenna e di Evvoh, i Cancelli della Morte si aprirono di scatto dal terremoto che si era generato dallo scontro tra il Signore Lucifero e Belial, in una disperata battaglia aerea. Lame, ali e sangue sopra lo Sheol. Le radici malefiche si ritiravano al passaggio dei due demoni, inquietate dalla rabbia delle due figure. Ormai, le pareti dello Sheol stavano per crollare, crepe smisurate comparvero su di esse, mentre le piante nere si radunavano tutte lontane dalla battaglia, avvinghiandosi al metallo infuocato dei Cancelli. Ma Belial riuscì ad artigliarne una, trascinandola lontano dalla salvezza, sradicandola per un pezzo dal soffitto. La terra impigliata in essa volò sul volto di Lucifero, accecandolo un istante, quel tanto che bastava per farlo distrarre. Così Belial vibrò la radice come fosse una frusta letale, fendendo l'aria, la quale sibilò indispettita da quel gesto inaudito verso di lei, e verso il suo creatore. La pianta malefica, guidata dalla potenza del Cappellaio, si avvolse alle ali del Re Malefico, spezzandole. Con un urlo lacerante, Lucifero cadde. Cadde come fece allora, le ali immobili, il vento nelle orecchie, quando venne scacciato dal Cielo Proibito. Ma invece di atterrare illeso, nel centro della terra, l'impatto con il terreno dello Sheol, fu tremendo. Dall'alto della sala, Belial udì il rumore terribile delle ossa infrante, in una dolcissima sinfonia di dolore, che lo inebriò, tanto da fargli,chiudere gli occhi e alzare il volto al cielo, in un momento meraviglioso solo per le sue orecchie di demone, solo per lui. I gemiti di dolore del Re Del Terrore, infransero quel momento di tranquillità, facendo montare la rabbia di Belial. Quel verme doveva assolutamente morire, non desiderava altro. Sembrava una mosca fastidiosa, un insetto schiacciato, lì, solo e immobile al centro della sala dello Sheol, le ali e le ossa in frantumi, incapaci ormai di sostenere quello,splendido corpo giovane e maledettamente attraente. Eppure, in quell'immensa dolore, Lucifero riuscì ancora a trafiggere Belial con i suoi occhi inespressivi, grigi come le ceneri, ma, nel giro di pochi secondi, rossi come il sangue, i veri occhi di un demone, in uno sguardo profondo e disarmante carico di odio, ma allo stesso tempo di scherno. Non potendo sopportare un minuto di più quella tremenda vista, il Cappellaio, alzando semplicemente un braccio, fece crollare il soffitto dello Sheol sul Re Malefico. Con un grido di maledizione, Lucifero venne sepolto dalle macerie. E il silenzio si impadronì dell'Inferno, con i demoni incapaci di reagire, atterriti, ammirati. Solo uno siera avvicinato al cumulo che sovrastava Sua Maestà. Belial, l'Inutile. Accarezzò distrattamente un blocco di terra e calce, lo sguardo dolce e distratto di un amante. Un lieve sorriso gli affiorò alle labbra, mentre i suoi occhi si schiarirono fino a diventare di quel colore talmente chiaro da essere indecifrabile. - Mi dispiace tanto...Lucifero... - marcò il Suo nome, il nome proibito, dell'uomo che amava ciecamente, ma che aveva irrimediabilmente tradito. E nel suo cuore nero non provava rimpianti. Nell'ultimo addio, si chinò a baciare i calcinacci, aprendo le labbra come se stesse assaporando il suo irraggiungibile Lucifero. - Arrivederci - Un paio di passi leggeri alle sue spalle, i quali strisciavano un poco sulla terra provocando un suono simile a quello di un serpente. - Non mi fermerai, Astaroth - sussurrò tristemente, lo sguardo fisso sul tumulo. Due braccia sottili, ma assai forti, fasciate in un cappotto, in perfetto stile britannico, avvolsero le sue spalle, calde e confortanti, e il volto pallido più di un cadavere, del suo amico di sempre si appoggiò a lui. Girando un poco la testa, incrociò gli occhi affranti di Astaroth, bordati di nero, enormi, appena allungati, dalle iridi cangianti gialle luminose, tagliate al centro da una stretta pupilla verticale, molto simile a quella di una serpe, infinitamente dolci nel guardare il suo amico, nel percepire le sue emozioni contrastanti e i suoi tormenti interiori, aggrovigliati come solo i pensieri dei demoni potevano essere. - Lo so. - Erano solo due semplici monosillabi. Ciononostante, giunsero come aghi nel cuore di Belial. E lo spezzarono. Il Cappellaio crollò a terra in ginocchio, il cappello gli scivolò dal capo, rotolando a un paio di metri da lui, disperato, in lacrime, coprendosi il volto con le mani. Ad un tratto, sentì qualcosa di morbido sfiorargli la sommità dei capelli. Con le lacrime agli occhi, alzò la testa fino ad incrociare nuovamente lo sguardo di Astaroth. E capì. Quelle erano le lunghe ciocche rosso-brune del suo amico, l'osceno colore brunastro del sangue rappreso. Il demone serpente stava chino su Belial, con un accenno di sorriso. - Non ti abbandonerò, Belial. Anche se sarai lontano, io sarò con te. - Si girò alla sua destra. - Ea anche Asmodeus ti sosterrà . - Il Cappellaio osservò il Conte del Giudizio, ormai completamente guarito, appoggiato con la schiena a una fetta di muro intatto, e le braccia incrociate. Annuì mestamente, facendogli intuire con l'espressione del volto che l'aveva perdonato. Poi, Astaroth, gli prese le mani e lo aiutò ad alzarsi. - Ora vai, Belial - disse commosso, un poco imbarazzato. E lo abbracciò con impeto, stringendolo. - Mi mancherai, Belial - pianse al suo orecchio. - Anche tu, Astaroth. - Si allontanò, senza mai voltargli le spalle. Con un cenno della mano salutò anche il Conte. Quando fu sotto l'arco della Porta di Sheol, si voltò di scatto e iniziò a correre a perdifisto, salendo tutti i Livelli dell'Inferno. E pensò. "La Luce splende nelle Tenebre. Ma le Tenebre non l'hanno accolta. Loro. Ma io no. La mia Luce risplende fulgida e perpetua, illuminando le Tenebre dell'Inferno. Ecco, l'Hades. Ancora un poco esono fuori. Come è dolce la brezza sul mio viso... Ora sono solamente tuo. Aspettami Djibril" - BELIAL! - Si svegliò di soprassalto, turbata dagli incubi, frastornata nel cuore enella mente. Si tirò su a sedere lentamente, come de provasse dolore da quel semplice gesto, lasciandosi scivolare la coperta leggera sulle ginocchia. Sentì un fruscìo sospetto, ben diverso da quello delle lenzuola pulite. Sembrava che qualcuno sfogliasse i libri nel buio...E ridesse! Attonita, Djibril rimase in ascolto: erano voci sottilissime, gioiose, ma lei non riusciva a capire cosa dicessero. Così chiuse gli occhi, concentrandosi. Silenzio assoluto. Appena li riaprì, un'ombra immensa sfrecciò sulla sua testa, facendola cadere all'indietro, sul freddo parquet della sua stanza, con un grido. Ansante, spaventata, con il cuore a mille, iniziò a guardarsi attorno febbrilmente, come un'anima maledetta sotto tortura all'Inferno. I suoi occhi dorati, i quali brillavano al buio come quelli dei gatti, come se, quando,osservava il sole, un raggio di luce le rimaneva intrappolato nelle iridi preziose, che tanto lo ricordavano, si posarono su ogni oggetto della stanza: la tenda blu notte, che separava il pianoro di legno, nel quale si trovava la sua camera, dal resto della biblioteca; questi infatti si protendeva dal muro, come un promontorio a picco sul mare, direttamente sugli scaffali stracolmi di libri, collegato ad altri attraverso scale e camminamenti. La tenda blu si muoveva appena, in una sottilissima danza orchestrata dalla finestra un poco aperta; i libri erano immobili e tranquilli sugli scaffali, ordinati per altezza tra i preferiti di Djibril, tutti libri antichi di fiabe, ricamati con miniature ai bordi delle pagine, impregnati di polvere dal tempo; e anche le sue bambole, riposte con cura su uno,scaffale aperto, rimanevano comodamente sedute, assorte in sogni e pensieri nascosti ai viventi. Persino Lui, il suo magico amico, di legno grezzo, pitturato di blu e rosso, come un generale di tempi antichi, se ne stava buono e tranquillo, il suo Schiaccianoci, osservandola dalla sua postazione sulla terza mensola, ridendo beffardamente con il ghigno un po' malefico, quasi animalesco, mostrando una chiostra di bianchi denti quadrati. Tutto era al suo posto, preciso, immacolato, come sempre. Ma l'occhio le cadde su un particolare insolito. Era sì tutto al suo posto. Tutto, tranne...Una rosa. Rossa come il sangue, giaceva, bella e spaventosa, sul suo comodino. Il suo,cuore mancò un paio di battiti, mentre, tremante per l'emozione, si accinse a raccogliere la rosa tra il pollice e l'indice, come uno stilo,di,cristallo, fragilissimo, o un veleno, letale, invitante ma mortale. Trattenne il,respiro, notando un biglietto di pergamena grezza, legato al,gambo da ipun nastro di seta nera, morbido, chiuso con un fiocco vaporoso. Chiunque le aveva lasciato quel fiore, l'aveva preparato con una cura maniacale. E Djibril si compiacque di avere un ammiratore segreto...No. Si era sbagliata di grosso. Leggendo il biglietto, capì tutto. In una calligrafia lunga e raffinata, anche piuttosto difficile da decifrare, con tutti quei filamenti lunghi e intricati, con l'inchiostro di un rosso paurosamente simile a quello dei petali vellutati, così intenso da sembrare sangue, la pergamena recava scritto: - È TUTTO A POSTO, PRINCIPESSA. SOGNI D'ORO - Belial. Doveva essersi accorto del,contatto,avvenuto tra le loro mani, il quale si era trasformato in un sogno nella testa,di Djibril, mentre il suo protettore sistemava le sue faccende all'Inferno per lei, per proteggerla al massimo. Le venne il magone. Il suo Belial le voleva davvero,bene, e tutto quello che aveva fatto,negli Inferi, l'aveva fatto solo per rimanere al suofianco, rinunciando alla sua carica di Satana, alla sua dimora, al suo amore. Sorridendo appena, Djibril si portò la rosa al volto, inspirando il suo dolce profumo, inebriante, colmo dell'affetto di Belial verso di lei. Confortata, con il cuore svuotato da tutta l'ansia e dalle preoccupazioni che l'avevano attanagliata nel sogno, tornò a stendersi nel suo letto, cercando di riaddormemtarsi. Invano. Gelide raffiche di vento le accarezzavano il volto e sentiva ancora quell'insolito chiacchiericcio attorno a lei. E più Djibril,affondava nei cuscini e nella spessa coperta, più le voci aumentavano di volume, offuscandole la mente con mi loro discorsi insensati. Esasperata, la giovane maga gettò le lenzuola ai piedi del letto, alzandosi di malumore. Osservò la sveglia. Era mezzanotte. Quando,era bambina, si ricordò, suo padre le raccontava che la Mezzanotte era l'Ora delle Streghe e dei Demoni, degli Spiriti e dei Folletti dei Sogni. Secondo lui, si radunavano nei cimiteri a confabulare e compiere stregonerie fino all'alba del giorno seguente, quando, al primo raggio di sole, si dileguavano nelle case disabitate in periferia. Lei, ormai diciannovenne, era conscia delle menzogne di quella favola. Eppure l'inquietudine si impadronì di lei mentre, con lievi passi incerti, si avvicinava al finestre e, con l'intento di chiuderlo, sperando con tutta se stessa che era solo il vento dispettoso, il quale si intrufolava nella sacra biblioteca dallo spiraglio aperto a provocarle quelle allucinazioni uditive. Man mano che si avvicinava, l'aria gelida della notte londinese le avvolgeva le ossa in una morsa di ghiaccio. Aveva freddo, molto, anche perché era vestita in modo davvero leggero per il rigido autunno inglese, con una canottiera bianca, abbinata a un paio di shorts verde mente, tagliati sui fianchi e decorati con un grazioso nastrino rosa. Sembrava una bambina curiosa, avanzando in punta di piedi verso l'enorme finestra, un poco curva, come se qualcuno nascosto nell'ombra potesse vederla. Ma invece di chiudere le ante di vetro, le aprì completamente, lasciandosi investire da una folata di vento che la lasciò senza fiato. Abituatasi presto alla brezza fredda, Djibril iniziò a far vagare il suo sguardo d'oro tra le fronde degli ippocastani del giardino frontale, simile ad un bosco incantato. Le foglie si muovevano come pesci nell'acqua, cullate dal vento della notte; i rami intricati conversavano con il vento, in un suggestivo muggío gioioso, il quale riportava l'ascoltatore rapito da questo suono struggente, in tempi remoti, in quel periodo immacolato e arcano, nel quale la natura trionfava sull'uomo distruttore del Creato. E conviveva con esso in armonia con la Terra stessa e l'immensità dell'Universo. Djibril allargò le braccia e gettò la testa all'indietro, inebriata dalla brezza che le serpeggiava attorno al corpo, e dalla voce del vento, profonda, magica. - ...Guarda cosa mi ha fatto fare..- - ...Le ali non mi reggono...- - ...Tranquille...È solo la forza del Signore Vento...- Le voci. Sottili, disumane, come se ogni timbro fosse composto da almeno sei voci, mescolate tra di loro. Allora, la giovane maga si mise ad osservare nuovamente il bosco scuro sottostante. Le voci cessarono. Tutto era silenzioso, il vento stormiva tra le foglie, provocando una lieve melodia, le ombre delle piante si allungavano, strisciando sul terreno come serpi malefiche, appena la luna faceva capolino dalla spessa coltre di nubi, illuminando un poco una tranquilla Londra assopita. Il buio era quasi completo, spezzato soltanto dal cono di luce del lampione, a qualche metro dalla biblioteca, molto antico, dalla tipica forma a lanterna, dall'inconfondibile stile ottocentesco. Improvvisamente, l'attenzione di Djibril venne attratta da un fruscio sospetto, proveniente da un cespuglio di more appena sotto la sua finestra. Tre minuscoli puntini bianchi bianchi sbucarono dalle foglie scure, svolazzando in cerchio. Dall'alto, assomigliavano a piccoli insetti alati, dalle membrane simili a foglie novelle, candide e un poco frastagliate. Trattenendo il fiato, Djibril si accucciò, il mento sul davanzale, per evitare di essere vista da quelle creature e, allo stesso tempo, per poterle osservare meglio. Quegli strani insetti si rincorrevano velocemente e si parlavano in una lingua diversa dall'inglese, che lei aveva sentito poco prima. Ascoltando più attentamente, ferita nell'orgoglio, si,accorse che ridevano di lei, con le loro irritanti voci infantili. Uno degli esseri bianchi incrociò lo sguardo della maga, penetrandola con quello sguardo di ghiaccio, abbacinante e fatato, incantandola con una magia arcaica, potente e ammaliante, la quale durò un attimo solo, struggente, un dolcissimo canto nella testa, come un mantra, un ronzio malinconico al quale non potevi - e non riuscivi - a resistere. Djibril volle disperatamente seguire quelle creature incantate, ascoltarle nuovamente, per l'eternità, le loro voci soavi. Ma un'altra voce la bloccò. Era profonda, antica quanto il mondo, maledettamente familiare. E a questa se ne aggiunsero, altre, confuse, ma estremamente amichevoli. La guidarono lontano dalla sua stanza, giù per la scala, dritta nel cuore della biblioteca, sussurrandole all'orecchio in una lingua antica, carica di magia. Nella semioscurità, gli scaffali imponenti apparvero a Djibril come gli alberi di un bosco, i quali si chiudevano attorno a lei con fare minaccioso. Eppure li conosceva da sempre, e comprendeva il loro essere assai terrificante, segreto. La notte, la biblioteca si mostrava nella sua vera essenza, appariva avvolta da una luce mistica, la,quale illuminava i singoli libri, mettendone in risalto il titolo e l'autore, raccontando sottovoce le storie contenute in quelle pagine. Le voci le consigliavano di toccare il dorso dei libri che incontrava. E lei lo fece, come guidata da loro, sfiorando i dorsi con la punta dell'indice. Li sentì, vividi accanto alei e quasi irreali. Loro. I libri. Perché la notte, i libri parlavano tra di loro, in un sussurro, un dialogo impercettibile tra pagina e pagina. Era questa l'essenza della biblioteca, una cosa viva, un ricettacolo di potenze non dominabili da una mente umana, tesoro di segreti emanati da tante menti e sopravvissuti alla morte di coloro che li avevano prodotti, o se ne erano fati tramite. Coinvolgevano Djibril nei loro racconti, portando la sua anima all'interno delle loro storie, guidandola in un viaggio irreale, tra spazio e tempo, nella dolce, folle perdizione della lettura. Quando passava accanto ai libri, continuando a sfiorarli, questi le parlavano, fabulando allegramente, e le loro voci si mischiavano alle altre, in un coro arcano, angelico, e allo stesso tempo, demoniaco, simile alle voci degli spiriti nei cimiteri, i quali raccontavano alla gente che vi entrava, le loro tristi morti, percepiti come dolorosi venti gelidi. Djibril vagava per la biblioteca, la SUA biblioteca, come un'invasata, stordita da tutte le parole che le turbinavano nella testa, drogata dalla dolcezza e dalla profondità delle storie che incontrava nel suo assurdo, e allo stesso tempo, dotto errare. Neanche si accorse di essere entrata in quell'ala della biblioteca, avvolta da un alone scuro carico di magia, la parte proibita, quella sala dagli scaffali colmi dei Libri Neri, quaranta volumi in tutto, immensi tomi rilegati da spesse copertine di cuoio nero, ornate agli angoli da raffinate placche d'argento triangolari e decorate sui bordi e al centro, ghirigori festosi, a racchiudere il titolo arcano. Perché arcani erano quei libri: Bestiari, Almanacchi, Oracoli antichi, pagine e pagine scritte da dita divine, racconti di vite soprannaturali o maledette. In quella luminosità oscura, tre libri attirarono l'attenzione di Djibril: Le Chiavi di Enoch, il libro del profeta angelico, Il Necronomicon, scritto dalla Morte in persona, frutto della sua penna di sangue e dalla sua mente contorta, e un libro che pareva vedesse per la prima volta, nero anch'esso. Sul dorso ampio lettere d'argento recitavano come una musicale poesia, un articolo, una preposizione e due nomi. Quei nomi... Le Cronache del Labirinto. Come attratta da una calamita, la mano sottile della maga si posò sul libro, disturbandolo dal suo riposo, lasciando una voragine d'ombra al posto delle sue infinite pagine. Appena vide la copertina, lo fece cadere, allarmata. Non poteva essere lui... Il suo libro doveva essere sul basso tavolo, coperto da un panno rosso, come era sempre stato, aperto,sulle pagine dello specchio, come lo aveva sempre trovato. E mai lo aveva violato oltre. Girò la testa in direzione dello scrittorio. Il panno rosso stava lì, coprendo un libro. Possibile che c'è ne fossero due? Titubante, si avvicinò al tavolino a parete e, fulminea, sollevò il panno di velluto, quella notte simile a sangue. Impossibile. Il disegno dello specchio le rimandava, come per magia, la sua immagine un poco sfocata. Confusa, iniziò a sfogliarlo. Bianco. Non una parola in quel candido mare di carta. Allora si affrettò ad aprire 'L'Altro'. Nelle stesse pagine 4500-4501 l'immagine dello specchio e la sua incomprensibile spiegazione in rune la accolsero con allegria, apparendo nella loro magnificenza. Colori più vividi, reali, da far quasi uscire il disegno dal foglio, le lucertole come vere lucertole, quegli splendidi animaletti verdi, le scritte più marcate, come se la stessa mano che le aveva tracciate in precedenza, le avesse ripassate per renderle più leggibili. Ma ciò che la colpì fu la veridicità disarmante del vetro dello specchio. Il volto pallido di una giovane donna, dagli occhi dorati e dai capelli corvini, simili a onde di petrolio, ammiccava verso di lei, con un'espressione incredula dipinta su quei dolci lineamenti. Sfiorando il vetro dipinto, si sentì avvolgere dal calore di un amante, e una miriade di parole auliche e arcaiche le avvolsero la mente, trasportandolaall'interno del volume che l'aveva accompagnata ogni notte di ogni giorno. Era il suo libro. Lo SENTIVA in ogni centimetro di pelle, in ogni meandro nascosto della sua mente. Come in uno stato di trance, si mise a sfogliarlo lentamente, assaporando il delizioso fruscío della pagina sotto le sue dita, mentre la girava per scoprire i segreti delle Cronache. Ad ogni foglio le si apriva tutto un mondo fatto di rune misteriose e meravigliose miniature. Persino le rune iniziali erano miniate, al impune avvolte da piante indescrivibili per la loro bizzarra forma, altre simili a creature fantastiche, draghi, basilischi, lucertole. E i disegni non erano da meno in stranezza: erano minuscole fate dalle ali simili a petali di fiori, fauni danzanti, creature acquatiche dalla coda di gambero, ma dal busto da uomo, sirene, grifoni, e ancora draghi, viverne, idre e altre creature magiche. E più Djibril sfogliava le Cronache, più si sentiva parte del mondo che esse descrivevano. Si accorse così che la prima parte del libro era un bestiario, e si rammaricò di non saper leggere le marine Celtiche. In realtà lei sapeva leggere solo un tipo di rune: le Rune Enochiane, l'alfabeto angelico, la lingua che la sua famiglia di Guardiani - di cosa? Djibril era all'oscuro del segreto che suo padre custodiva - era tenuta a conoscere con rigore, in quanto, in caso di pericolo per il misterioso oggetto in custodia, si veniva contattati dagli Arcangeli in persona. Continuò a sfogliare il bestiario, avvolta dall'estasi del sapere. Ogni miniatura la,trasportava nel mondo che le Cronache descrivevano, magnifico, capovolto. Come osservare un quadro a testa in giù, dove cielo e terra si incpvertono. E le ultime pagine del bestiario le si schiusero dinnanzi agli occhi con una miriade di cristalli d'argento. Un albero gigantesco si avvolgeva in volute contorte di rami e placche argentee, rilucendo di magia e sapienza, come fosse reale. E tra le sue radici altrettanto intricate, quasi quell'albero avesse due chiome, una lucertola verde stava raggomitolata, la coda avvolta attorno al corpo longilineo, osservando il visitatore con gli occhi minati di giallo. Quello sguardo dipinto era per Djibril una dolce malinconia, come se quegli occhi le ricordassero,qualcosa, uno sguardo già visto. Distolse a fatica gli occhi da quelli della lucertola miniata, la,attiravano, cercavano di entrare nella sua mente per cercare una possibile didascalia. Bramava un nome, un'identità per quelle due misteriose figure. Entrambe le pagine si univano perfettamente come fossero una sola, per raffigurare quell'albero magnifico, ma nemmeno l'ombra di una scritta faceva capolino dai rami di carta. I rami... Rimase folgorata. Si sbagliava. Una scritta c'era. In Rune Enochiane, le fronde della pianta d'argento creavano due nomi ben distinti, arcani, amici. Yggdrasil. Nidhog. Anche se li sentiva per la prima volta, Djibril si rese conto che le erano conosciuti. Li aveva scolpiti nella mente, come incisioni rupestri antiche di millenni. Yggdrasil e Nidhog. L'albero e la lucertola. Dovevano essere speciali, legati in qualche modo a lei e al suo essere. Si ricordò della luce argentea che l'aveva avvolta la prima volta che aveva aperto gli occhi, quando era nata...e gli occhi. Gli occhi completamente gialli, forati da una minuscola pupilla, un filo nero quasi invisibile, dovevi riuscire a rimanere in quello,sguardo per poterla scorgere e, di solito, gli occhi della lucertola erano talmente profondi e penetranti da essere impossibile osservarli a fondo. Stordita dalla rivelazione improvvisa, che la colpì come una tempesta, quando si è in strada con l'ombrello dalla punta di ferro, riprese a sfogliare il libro. La seconda e la terza parte del libro erano composte da un'infinità di Ripune Celtiche, che parevano appoggiate lì per caso, simboli spigolosi che si ripetevano all'infinito, incomprensibili ma, a loro modo, interessanti. Non si soffermò molto, in quanto i libri sono stati creati apposta per essere letti, ma se comprendi la lingua in cui sono scritti... Nella quarta parte tornarono le figure. Oggetti insoliti erano miniati ordinatamente accanto ad una propria didascalia, inconsueti e ormai fuori moda. Spade, armature, specchi, bilance, persino un particolare astrolabio, simile ad un orologio da taschino con, al posto del quadrante, una successione di simboli, i quali venivano toccati uno a uno da una sola li punta freccia. Ed ecco di nuovo lo specchio delle lucertole, nella sua luce mistica, rilasciata dalla carta,un poco ruvida. Era,tornata al principio. Ora le mancavano ancora un paio di pagine. Le prime, anch'esse, raffiguravano oggetti singolari; un baule simile a quello raccontato nelle favole dei pirati, fontane dalle statue davvero bizzarre, elmi da battaglia, maschere con sembianze animali, ma dai tratti vagamente antropomorfi. Ma le pagine in prossimità della fine, miniavano persone. Da come erano abbigliati, parevano maghi, guerrieri, vampiri, alchimisti, persone a contatto con il,soprannaturale. I volti si posavano sul suo e parevano quasi voltare gli occhi verso di lei, quando la sua mano girava una pagina. D'un tratto si trovò sotto le dita qualcosa di ruvido e secco. Lo osservò. Si mise a tremare come un uccellino d'inverno. Lanciando un urlo, lo scaraventò lontano, atterrita. Quella 'cosa' era una silfide essiccata, forse rimasta intrappolata nelle pagine di quel libro, soffocata al suo interno. Le aveva viste vive, ed ora le si stringeva il cuore a vederne una morta. Le lacrime iniziarono a rigsrle il volto, silenziose, invisibili. Nel chinare la testa, come preghiera alla creatura defunta, il suo sguardo si posò su una particolare figura sulla pagina aperta delle Cronache. Era confusa e spaventata. I capelli neri, mossi da un vento invisibile, l'oro puro miniato con cura negli occhi grandi. Quella ragazza disegnata la conosceva. Era lei. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- ANGOLO DEL DRAGO Deo Gratias! Hallelujah! Avevo già terminato il secondo capitolo da un paio di mesi (se non di più -.-), ma non avevo mai trovato il tempo per pubblicarla... Scusate! L'arpa tiene occupate le tutte mie giornate! Prometto che mi velocizzerò con la stesura del terzo capitolo. Prometto!! >.< Drago
  
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