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Autore: emotjon    21/10/2014    4 recensioni
[questa one shot è il seguito di "Cieli di Londra", si consiglia di leggere prima quella :)]
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«Ti ricordi cosa ti ho detto quando ti ho chiesto di fare l’amore con me, la prima volta? Ti ho detto che sarei stato il tuo aquilone, che ti avrei portata più in alto quando avessi avuto bisogno di respirare…».
«Me lo ricordo… io ho promesso che avrei fatto la stessa cosa con te».
«Già… sai una cosa? Non respiro, piccola...».
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7469 parole.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Come aquiloni.

 
 
Alla piccola grande donna che istiga il mio cervello malato a partorire certe cose.
A lei, che credeva di essere rimasta incinta solo guardando le foto di Zayn.
Ai capelli color ebano e agli occhi color nocciola che hanno ispirato tutto quanto.
A Blue, semplicemente perché le voglio bene.




Scricchiolii sotto la suola delle scarpe. Ad ogni passo, un piccolo scricchiolio - dato dalle foglie secche calpestate - che come suono faceva tranquillamente concorrenza a quello di un cuore di cristallo che cade a terra e si frantuma in mille e più pezzi. Non lo stesso volume, ma lo stesso fastidio. In qualche modo un dolore che le tornava indietro come una flebile eco lontana, imprigionata tra due montagne.
Passi di anfibi a fiorellini con la suola ormai consunta e rovinata. Con la pelle screpolata e la fantasia colorata un poco svanita nel nulla. Quegli anfibi che metteva ogni sabato pomeriggio apposta per andare al parco a calpestare le foglie, solo perché glieli aveva regalati lui.
Un paio di jeans scuri e stretti, a vita alta. Col bottone dorato all'altezza dell'ombelico. Quei jeans erano un regalo, solo che se l'era fatto da sola, il giorno in cui si era pesata e aveva scoperto di aver ritrovato - finalmente - il peso forma. Erano un segno di rinascita, trasudavano fiducia in sé stessa da ogni fibra.
Una maglietta a maniche corte. Semplice, bianca. Un po' trasparente e decisamente troppo larga per lei. Quella maglietta era una specie di furto; l'aveva tenuta quando lui se n'era andato, senza mai pensare di restituirla. Un furto, perché in quel modo ne aveva rubato l'odore. Perché anche lavandola, in quella maglietta era rimasto un pezzetto di lui e del perenne odore di tabacco che gli vorticava intorno.
Una camicetta a scacchi, rossa. Di cotone, tenuta allacciata da un solo bottone, subito sotto al seno. Una vecchia camicetta che non metteva mai, perché inevitabilmente quegli scacchi rossi finivano per ricordarle – ancora una volta – lui.
Lui, che se n'era andato senza spiegare.
Lui, che l'aveva amata e poi aveva avuto paura.
Lui, che le aveva lasciato sé stesso e non si era mai tornato a riprendere.
Lui, che provocava altrettanti scricchiolii sotto la suola delle vecchie Nike rovinate, mentre lei teneva per mano una mano più piccola, che non era come sfiorare lui, ma che gli somigliava davvero troppo. Lui, che era in quel parco quasi per caso, con un paio di jeans strappati, una felpa buttata addosso di fretta, i capelli scompigliati e un album da disegno pieno di lei sotto braccio.
Cigolii lontani, scricchiolii dalle suole degli anfibi sul pavimento di marmo della biblioteca. Il loro suono continuava ad avvicinarsi pericolosamente a quello di un cuore che si spezza sotto al peso di un addio. Forse portava ancora quegli anfibi dopo tre anni per ricordarsi del suono del proprio cuore mentre andava in frantumi.
O forse gli era solo troppo attaccata per buttarli via.
Era difficile toglierli la sera e pensare di infilarli in una busta e disfarsene. Era difficile camminarci tutto il giorno e sentire il rumore di quella suola di gomma ormai sfondata; per quanto sottile fosse come suono, le sue orecchie lo sentivano eccome; era come se quel suono le entrasse dentro e premesse per uscire sotto forma di lacrime.
Non lo ascoltava mai davvero.
Mai, tranne quella sera.
Camminava per la biblioteca deserta e ormai chiusa, Blue, cercando di non pensare al rumore di quelle suole, che però era l'unico che le sue orecchie potessero udire. Non c'era nient'altro che non fosse silenzio. I suoi passi contro il marmo risuonavano ovunque, dai pavimenti al soffitto, per ogni corridoio e contro ogni scaffale.
Cinque anni erano passati, eppure quella biblioteca le faceva ancora effetto. L'odore della carta vecchia le si incollava ancora addosso, entrandole nelle narici e facendole pensare di volerci vivere, lì dentro. Le dita bramavano ancora di scorrere tra quei volumi, saggiandone la consistenza e sporcandosi di vecchia polvere e vecchio inchiostro. Gli occhi neri avrebbero voluto leggere ogni riga non letta di quella biblioteca, cibarsi di ogni virgola e assaggiare voraci ogni spazio, ogni punto e a capo.
Cinque anni nei quali era andata avanti sopravvivendo a fatica, chiudendosi in biblioteca per svago oltre che per lavoro, respirando polvere e fantasticando su un lieto fine da favola che forse non sarebbe mai arrivato. Cinque anni in cui aveva amato, sofferto, fatto crescere una vita che era la sua copia, ma solo per metà. E ancora sofferto. E ancora amato.
Cinque anni in cui era arrivata una figlia, poi la laurea, poi quel lavoro.
Due anni, prima che perdesse lui; e tre anni successivi, nei quali si era mossa nella propria vita come spettatrice, come mero fantasma di quella che era una volta. Non possedeva appieno le capacità per governarla, quella vita. Non senza di lui. Non col ricordo delle sue labbra che ancora le vorticava per la mente, in attesa di trovare un luogo sicuro in cui stabilirsi, in cui custodire quello che a quel punto era solo un ricordo.
Cinque anni, eppure camminava ancora per quei corridoi quasi sempre deserti, sperando forse che una volta arrivata alla sala lettura e aperto il vecchio libro di Baudelaire, avrebbe risentito il rumore delle ruote di un vecchio longboard scorrere sul marmo, o il rumore di un sorriso che a volte le mancava tanto da non riuscire a respirare, tanto da credere che sarebbe morta da un momento all'altro, o si sarebbe prosciugata, senza quei denti bianchi, con la punta della lingua sapientemente incastrataci in mezzo.
Fece un respiro profondo, alzando lo sguardo verso quel soffitto di vetro in quella sala lettura che una volta amava tanto. Coi tavoli di legno e le sedie di plastica asettica e bianca. Con le pareti di un celeste leggero, e la vista sul grigio cielo di Londra. Con l'alone del profumo di lui che ancora si sarebbe potuto sentire, se avesse inspirato a fondo, a pieni polmoni.
Sorrise appena, lasciandosi scivolare lungo la parete fino a trovarsi seduta sul pavimento che presto l'impresa di pulizie sarebbe arrivata a pulire. E abbassando le palpebre, rivide due occhi castani e un piercing incastrato tra i denti; rivide un ciuffo troppo lungo di capelli neri, un milione di gocce di inchiostro su quella pelle color cappuccino, e quegli occhiali dalla spessa montatura nera che lo facevano sembrare l'esemplare perfetto di topo da biblioteca, quando lui in realtà le biblioteche le odiava.
Respirò a fondo, trattenendosi dal prendere il vecchissimo libro di poesie che aveva trovato per caso una vita prima, quando era cominciato tutto con quel ragazzo che le mancava tanto. Giocherellò con una ciocca di capelli, prima di far aderire la testa al muro e accorgersi che tutto quel silenzio sarebbe stato sempre e comunque incolmabile, da chiunque non fosse... Zayn.
Respirò a fondo, ma il ricordo di quel ragazzo che tanto aveva amato e amava prese il sopravvento un secondo dopo l’altro. Prima le tornarono in mente i suoi occhi, di quel colore che poteva sembrare un normale castano, ma che in realtà era una tavolozza incredibile, dal nocciola all’oro e ritorno. Le vennero alla mente le sue labbra un po’ carnose, che nascondevano due file di denti bianchi, una lingua che sapeva di tabacco e due palline di metallo con cui lui giocava di continuo, forse solo per distrarla.
Cercò di prendere fiato, ma nonostante tenesse le palpebre abbassate le lacrime trovarono comunque il modo di uscire, di bagnarle le guance, di portare via il mascara. Le venne in mente di come Zayn era solito consolarla quando stava male e piangeva; le prendeva il viso tra le mani e la costringeva a guardarlo, con un mezzo sorriso sul volto e una strana luce negli occhi, quella luce che voleva dire che prima o poi si sarebbe sistemato tutto, che sarebbe andato tutto bene.
Lacrime nere di trucco, su quella pelle pallida.
Lacrime colme di dolore trattenuto, che si limitarono a scivolare via lasciando il posto ad altre lacrime, ad altro dolore. Lacrime portate via da un respiro più profondo degli altri. Lacrime portate via da un’immagine nella sua mente, che in qualche modo riuscì a farla stare meglio, che riuscì a farla smettere di singhiozzare, appena in tempo per rispondere al cellulare che aveva preso a tremarle in tasca.
L’immagine di una bambina. Dalla carnagione un po’ pallida, i capelli quasi neri e gli occhi dorati come la scia di una cometa. Cioccolato i suoi occhi, come quelli del padre. Neri i suoi capelli lunghi e lisci, come quelli di Blue. Pallida la pelle, come la madre. E un sorriso con la lingua incastrata tra i denti quasi per gioco, come il padre.
«Pronto…».
La sua voce, leggermente distorta dal dolore e dalle lacrime, non sfuggì alla ragazza dall’altra parte del telefono, mentre si sistemava una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio. Sospirò appena, cercando di non farsi sentire, mentre la bambina che teneva in braccio tendeva la manine paffute verso il telefono.
«Tutto bene, Lù?».
«Io… non lo so, Lottie…», ammise la ragazza, guardando il nuvoloso buio di Londra dal soffitto di vetro. Si lasciò andare ad un sospiro, ridacchiando subito dopo al sentire sua figlia chiedere alla sua migliore amica di passargliela. «Non me la passare… dille solo che tra dieci minuti sono a casa, okay?».Non me la passare, perché non ce la faccio a sentire la sua voce senza rimettermi a piangere. Non farlo, perché sto crollando non voglio che lei mi senta così.
«Okay, tesoro… poi ne parliamo, sì?».
«Sì… grazie Charlotte».
Charlotte era fin troppo bionda per sembrare ancora naturale. Con gli occhi fin troppo azzurri per sembrare veri. Con un sorriso che ad un primo impatto sembrava il più falso dell’universo, ma che a conoscerlo si sarebbe scoperto il classico sorriso amichevole, davanti al quale chiunque si sarebbe aperto e avrebbe confessato qualsiasi suo segreto, anche il più oscuro.
Charlotte Tomlinson era stata l’unica persona dopo Zayn a non abbandonare la strana ragazza dai capelli blu. Più piccola di due anni, più bionda, più bassa, con gli occhi più chiari. Si sarebbe potuto dire che fosse l’esatto opposto di Blue; la persona più lontana da lei che avrebbe potuto conoscere.
Eppure l’aveva conosciuta. L’aveva incontrata ad una delle prime lezioni che aveva frequentato in università dopo la nascita della bambina. Più che incontrata, ci si era scontrata, metaforicamente. I loro punti di vista completamente opposti sull’amore di Romeo e Giulietta – e quindi sull’amore in generale – si erano scontrati nel dibattito più intenso che il corso di letteratura inglese del professor Wilson avesse mai visto. La bionda si era prolissa in citazioni, frasi fatte e romanticismo a più non posso; la mora al contrario aveva tenuto il proprio punto della situazione. Dopo Zayn, l’amore avrebbe fatto schifo, in qualsiasi forma.
O forse, non sarebbe esistito e basta.
Fuori dall’aula si erano guardate qualche secondo, prima di scoppiare a ridere e presentarsi. Prima di parlare e parlare davanti a diverse tazze di caffè. Era nato tutto da due differenti modi di pensare e di vedere le cose; ed erano diventate amiche. Poi Lottie aveva fatto da babysitter una, due, tre volte, finché dopo sei mesi conoscenza non si era trasferita direttamente da Blue.
E quella era una delle sere in cui la bionda teneva la bambina della mora. Una delle sere in cui Blue faceva tardi vagando senza meta per la biblioteca. Una delle sere in cui i pensieri tornavano a galla. E una di quelle sere in cui la maggiore tornava a casa con gli occhi gonfi, volendo solo una tazza di cioccolata e un abbraccio.
Nient’altro, e sarebbe sopravvissuta ancora per un po’.
Bastava quel poco, e per poco avrebbe resistito al desiderio di pensare ancora a lui, dopo tutto quel tempo che era passato. Avrebbe smesso di pensare agli occhi color nocciola, ai capelli neri, agli occhiali da vista, al piercing alla lingua, al sapore della sua bocca, all’odore della sua pelle; si sarebbe trattenuta dal risentire nella mente il suono della sua risata, o dal rivedere in ogni minimo particolare il modo in cui incastrava la lingua tra i denti quando era divertito da qualcosa ma si tratteneva dal ridere apertamente; smetteva di sentire le sue dita scorrere contro la propria pelle, le sue labbra scontrarsi con le proprie e prometterle che sarebbero stati insieme sempre.
Loro erano quel per sempre che narravano le favole, ma che non si sarebbe mai avverato.
Perché lui non indossava un mantello azzurro e non cavalcava un cavallo bianco. Perché il suo mantello era nero come lui, come i suoi occhi e i suoi capelli e quei tatuaggi che lei aveva sempre amato alla follia, tanto da conoscerne ogni millimetro. Perché lei non aveva mai creduto davvero nelle racconti che le narrava la mamma per farla addormentare, e perché lui aveva avuto paura.
Loro erano stati una favola, letteralmente.
Ma poi la ragazza era rimasta incinta. C’era stata la voglia di gelato alle tre di notte, la nausea, il mal di schiena, i piedi gonfi, la voglia di massaggi alle gambe per sentirsi anche solo un po’ meno gonfia e grassa e orribile. Ma a quel punto lui già non c’era più. La paura gli si era annidata nel cuore come un piccolo formicaio, che poi era cresciuto a tal punto da impedirgli di respirare, cresciuto tanto da dargli una sola alternativa possibile.
Scappare. Non vederla più. Far finta che lei non avesse mai significato nulla, far finta di non averla mai amata, far finta di non volere un figlio con lei, far finta di non essere pronto. Perché Zayn era pronto, lo era da quando aveva conosciuto lei, ma la paura aveva sovrastato ogni altro sentimento, senza dargli modo di decidere col cuore, ma nemmeno con la testa.
Lui, non aveva deciso nulla.
La paura aveva fatto tutto al posto suo.
La paura di non essere abbastanza come persona, come uomo, come padre per quel bambino che non si capacitava nemmeno di aver concepito. La paura di non riuscire ad essere un buon padre, quella di deludere tutti coloro che gli stavano attorno, di non essere abbastanza, di dare una brutta impressione, di non riuscire… aveva avuto paura di non riuscire ad essere abbastanza maturo per diventare padre, paura di poter fare qualcosa che avrebbe rovinato tutto nel giro di un sospiro.
Scricchiolii sotto la suola delle scarpe. Ad ogni passo, un piccolo scricchiolio - dato dalle foglie secche calpestate - che come suono faceva tranquillamente concorrenza a quello di un cuore di cristallo che cade a terra e si frantuma in mille e più pezzi. Non lo stesso volume, ma lo stesso fastidio. In qualche modo un dolore che le tornava indietro come una flebile eco lontana, imprigionata tra due montagne.
E Zayn vagava per Londra ogni giorno libero che gli era concesso. Ogni giorno possibile, aspettando invano che gli occhi scurissimi di lei lo colpissero ancora, che si fondessero di nuovo con i propri; pregando che il suo sorriso comparisse dietro ogni angolo, ad ogni colonna, ad ogni albero, ad ogni persona; supplicando il cielo che potesse ridargliela, coi capelli blu elettrico, gli occhi del colore dei cieli di Londra e la pelle morbida come la buccia delle pesche che in realtà lui non sopportava.
Vagava, logorando un paio di scarpe di seguito all’altro, scrivendo su pezzi di carta volanti pezzi di canzoni che inevitabilmente gli ricordavano lei, riempiendo album da disegno con la sua immagine, coi suoi occhi, con le sue labbra, con le sue mani. Vagava, immaginando come sarebbe stato rivederla, immaginando cosa avrebbe potuto dirle, cosa gli avrebbe detto lei. Immaginando lo schiaffo che gli avrebbe stampato sulla guancia, perché se lo meritava ed era inutile negarlo.
Vagava anche quel sabato pomeriggio, Zayn.
Ed erano passati due giorni dal crollo in biblioteca, per Blue.
Eppure anche lei vagava per Londra, mano nella mano con l’unica gioia che nella vita le fosse rimasta, calpestando le foglie secche e facendo volare la piccola copia di sé stessa sopra le pozzanghere. Sentirla ridere, valeva ogni lacrima che aveva versato in quel tempo; sentirla ridere era la giusta ricompensa alle lacrime, al dolore e alla mancanza di Zayn. Sentire quella che era l’imitazione della risata del ragazzo che avrebbe amato sempre, era insieme ricompensa e punizione. Punizione, perché quella risata riportava alla mente tutto quanto, la uccideva dall’interno, le spezzava il cuore, ancora e ancora, più di quanto credesse possibile.
Perseguitata dal fantasma di una risata, lei.
Perseguitato da una chioma di capelli blu e da un paio di occhi neri, lui.
«Mamma, mi fai volare?».
Passeggiavano per Hyde Park, la piccola mano della bambina chiusa in quella smaltata di blu notte della mamma; la risata allegra della piccola che riempiva l’aria, mentre le foglie secche cadevano dagli alberi e venivano calpestate dagli anfibi a fiorellini della madre. Blue ridacchiò, prima di prenderla per entrambi i polsi e sollevarla da terra solo per sentirla ridere ancora e ancora.
Perché se lei rideva, Blue guariva e moriva nello stesso istante, all’infinito.
E pochi metri più avanti stava un ragazzo coi capelli neri e le braccia tatuate e un blocco da disegno sotto al braccio. Fermo, immobile; fermo, a nutrirsi di quella risata giovane che tanto assomigliava alla propria; fermo a guardare una chioma di capelli neri con le punte tinte di blu elettrico – lo stesso blu elettrico e gli stessi capelli in cui aveva fatto scorrere le dita migliaia di volte; fermo ad osservarla camminare sulle foglie secche con quegli anfibi dalla suola sfondata che Zayn non vedeva da quella che gli sembrava una vita intera.
«Blue…», fu l’unico sussurro che gli sfuggì, mentre lei lasciava andare la bambina, libera di correre verso di lui, di superarlo continuando a ridere, continuando a saltare le pozzanghere e a calpestare le foglie.
«Christina, non ti allontanare…». Non ti allontanare troppo. E seguendo la piccola con lo sguardo non riuscì nemmeno a finire la frase, gli occhi fermi su un paio di Nike distrutte dal milione di passi che aveva percorso. Le sembrò come se il cuore le si potesse fermare da un momento all’altro – facendola sbiancare – per poi riprendere a battere dieci volte più velocemente. «Piccola, la mamma ti raggiunge allo scivolo, okay?», riuscì a dire a voce abbastanza alta perché la sentisse, nel fragore del vento autunnale e delle foglie che continuavano a crollare dal cielo.
Sentiva gli occhi lucidi e ancora non l’aveva guardato in faccia. Sentiva le lacrime premere per uscire, eppure non voleva piangere; non così, non lì, e non davanti a lui. Sentiva la rabbia montare un secondo dopo l’altro, mentre sollevava lo sguardo dalle scarpe logore ai jeans strappati alla felpa buttatasi addosso un po’ a caso, come se si fosse appena svegliato e fosse uscito di getto, infilandosi la prima cosa che aveva trovato nell’armadio – o, conoscendolo, lasciata sulla sedia la sera prima.
«Ciao…».
E la ragazza non pensava di rischiare la vita risentendo la sua voce. Tre anni che non la sentiva, eppure sembrava quasi che il tempo non fosse passato per niente; sembrava che non si fossero persi, che lui non fosse scappato, che non avessero mai avuto una figlia. Sembravano due estranei che non si fossero mai amati. Ed era una sensazione orrenda, dal punto di vista della ragazza dalle punte blu.
«Sei a Londra».
«Non me ne sono mai andato», ammise lui avvicinandosi di un paio di passi, facendola irrigidire sensibilmente. Strinse un pugno a quell’affermazione, perché faceva male sentirglielo dire, nonostante lei lo sospettasse sin dal giorno successivo all’abbandono. «Credevo di non incontrarti più…». Ed era anche peggio, una parola dopo l’altra. Era peggio di quanto immaginasse, peggio che incontrarlo all’improvviso e sentirgli ammettere che era a Londra per lavoro. Peggio, perché lui era sempre stato lì. E perché lui aveva sempre sperato di rincontrarla, nonostante fosse stato lui a scappare.
Non aveva senso.
Ma del resto quelle parole le fecero sollevare ancora lo sguardo. Fino ai capelli scompigliati, al velo di barba decisamente incolta, alla mano ferma dietro al collo. Fino ai suoi occhi. Fino a quegli specchi di ambra e cioccolato, che la torturavano in sogno ogni maledetta notte; fino al luccichio che emanavano nel guardarla; fino alle ciglia lunghe e scure che proiettavano la propria ombra sugli zigomi.
Non riuscì a resistere, e si avvicinò. Ancora e ancora. Tanto da potergli respirare addosso; tanto da sentire il suo odore di sigarette e menta che era sempre quello, anche dopo anni. Avrebbe voluto piangere, a quel punto. Ma l’unica cosa che riuscì a fare Blue fu dargli addosso.
Colpirlo al petto con entrambi i pugni fino a farsi male. Colpirlo fino a non avere fiato, fino a sentire il cuore in gola, fino a morire dentro. Colpirlo fino a gemere dal dolore. Colpirlo fino a costringerlo a prenderla per i polsi e tirarla a sé. «Te ne sei andato da un giorno all’altro, mi hai uccisa, mi hai distrutta. Mi hai lasciata affogare nei ricordi, nelle lacrime, nel gelato al pistacchio comprato alle tre di notte perché nessuno me l’avrebbe portato…». Gli stava piangendo addosso, nella felpa, sporcandolo di mascara, abbattendo tutti i propri muri. «Mi hai lasciata crescere una bambina da sola, senza nessuno che mi potesse tirar su quando crollavo, Zayn».
E lui avrebbe voluto ribattere, scusarsi, implorarla di non odiarlo. Avrebbe voluto prenderle il viso tra le mani e baciarla fino a non avere più aria nei polmoni. Ma le sue parole l’avevano appena bloccato. Fermo e immobile, con gli occhi sgranati che non riuscivano a far altro se non guardare le lacrime scenderle lungo le guance.
Mi hai lasciata crescere una bambina da sola.
«L’hai tenuta..?».
«Credevi che potessi gettarla via come fosse spazzatura? Scusa se io non sono come te, scusa se io non uso le persone fingendo di amarle, scusa se io ci tenevo a te… e scusa se volevo tenere qualcosa di tuo che non fosse una stupida maglietta col tuo odore, cazzo!». Si era allontanata di qualche passo per poterlo guardare, per darsi la possibilità di urlargli contro, per poi colpirlo ancora e ancora, parola dopo parola. «Speravo che nascesse uguale a te, speravo che così mi sarei sentita meno persa. E sai cosa? Ha funzionato, Zayn. Lei mi salva ogni volta che mi sorride…».
A malapena si rese conto di star piangendo, impegnata com’era ad ignorare le persone che camminando si fermavano a guardarli discutere. Impegnata a stamparsi in mente ogni particolare del viso che aveva di fronte, ogni particolare della sua pelle, del suo odore, delle sue labbra. Impegnata ad accorgersi della presenza della bambina, a pochi passi da loro. E aveva le lacrime agli occhi, poté vederle alla perfezione superando Zayn e abbassandosi al suo livello per prenderla in braccio.
«Andiamo, Christina?».
«Chi è quello, mamma?».
«L’amore della mia vita, piccola».
E forse, mentre lo sussurrava contro i capelli neri di sua figlia, lo disse a voce troppo alta. Abbastanza alta perché lui la sentisse. Abbastanza perché prendesse a camminare sulle foglie secche, provocando scricchiolii dopo scricchiolii apposta per non sentire il rumore del suo respiro, quello dei suoi pensieri, quello dei suoi passi che dopo qualche secondo presero a seguirla.
Lo disse abbastanza forte da far trattenere il fiato ai passanti. Abbastanza da fermare il rumore delle foglie che cadevano dai rami di quegli alberi secchi. E quanto bastava da fermare il tempo, rallentandolo al ritmo dei passi di quelle Nike sfondate, al ritmo del suo respiro mentre velocizzava l’andatura quasi fino a correre per poterla prendere per un polso a farla voltare.
Bruciava, il suo tocco sulla pelle.
Bruciavano, le lacrime sulle guance.
«Hai paura di me, Lù?». Erano di nuovo occhi negli occhi; di nuovo buio nel legno, ancora nero nel castano, ancora desiderio di amare tuffato nell’amore più puro. Hai paura? La ragazza avrebbe voluto annuire, ma scosse lentamente la testa, nell’istante in cui lui lasciava scivolare a terra l’album da disegno e allungava la mano ora libera per sfiorarle il viso – il profilo della guancia, del naso, delle labbra. «Hai paura di noi…». E quella volta non era una domanda, ma annuì ugualmente, consapevole del fatto che lui stesse aspettando una risposta.
«Ho paura che tu scappi di nuovo, di soffrire, di rimanere da sola, di dover spiegare ad una bambina piccola perché hanno tutti due genitori e lei solo uno! Ho paura di dover passare le notti a piangere, a bagnare il cuscino senza che nessuno allunghi una mano e mi accarezzi la schiena… ho paura che se tu torni, succederà qualcosa che ti allontanerà di nuovo da me, e non sono abbastanza forte da sopportare ancora la tua perdita…», concluse tentando un sorriso, accarezzando i capelli di Christina e allontanandosi di qualche passo.
Non si voltò. Non disse altro.
Prese a camminare per il parco con la figlia in braccio, come se niente fosse. Come se non stesse piangendo. Come se non l’avesse appena rivisto. Prese a camminare senza voltarsi, senza quindi vedere il calcio che il ragazzo diede a quei disegni che ritraevano tutti lei, non lo vide passarsi nervosamente una mano tra i capelli e non lo vide accasciarsi a terra tentando di non scoppiare a piangere anche se dentro stava crollando.
Non lo vide, ma lo sentì. Sentì il rumore della scarpa contro la carta, contro l’asfalto del vialetto. Quasi come in un sogno, sentì addirittura il suono delle dita che passavano tra i capelli che a lei erano sempre sembrati di seta. Lo sentì crollare a terra, mentre lei continuava a camminare e ad accarezzare la figlia e a piangere.
Cigolii. Scricchiolii di foglie secche attraverso il vecchio portone di legno appena aperto. Rumore di legno che crepita, di finestre che sembrano incrinarsi col vento. Cigolii dati dalle suole di un paio di scarpe sfondate, un rumore che la venticinquenne dalle punte blu avrebbe riconosciuto tra un milione.
Ma nonostante avesse riconosciuto il suono, sollevando gli occhi dalla pila di libri che stava riordinando, quasi non le prese un colpo al vedere quel paio di occhi che solo qualche giorno prima aveva rivisto dopo anni; quegli occhi che solo qualche giorno prima si erano sgranati; quelli che erano sempre color cioccolato e ambra e miele, e che ogni volta che li incrociava le sembrava di affogarci; quelli che in quel momento la guardavano da dietro un paio di lenti trasparenti, con un sopracciglio inarcato poco sopra e un labbro incastrato tra i denti un poco sotto.
Altri scricchiolii, mentre camminava verso di lei senza toglierle gli occhi di dosso e la sorpassava, facendole così notare la tavola da longboard che portava sotto braccio. E la stessa maglietta di qualche band che non ricordava più. E gli stessi jeans logori, al ginocchio. E lo stesso piercing alla lingua, ne era sicura. Gli stessi occhi, la stessa pelle, lo stesso odore, lo stesso modo di ridere.
Lo stesso Zayn che odiava le biblioteche, dopo cinque anni.
Lo stesso ragazzino che andava in quel posto solo perché c’era sempre lei.
«Che ci fai qui?». Se voleva essere acida, al contrario le uscì dalle labbra solo un debole sospiro, forse solo il fantasma di quello che avrebbe dovuto essere un sospiro. Talmente distratta dalla sua presenza, si accorse a malapena di star stringendo la pagina di un libro tanto forte da rischiare di romperla, di rovinarla, di strapparla. «Zayn…». Solo pronunciare il suo nome, faceva male. Solo avercelo di fronte e non poterlo toccare, faceva male.
«Sono qui per leggere, non per te…». Voce ferma, non un tremito, non un’indecisione. Come se davvero fosse convinto delle proprie parole, quando al contrario i suoi occhi gridavano dolore, sofferenza, mancanza. E si stava allontanando, entrando nella biblioteca vera e propria, quando «Dove li tenete i poeti spagnoli?», le chiese stringendo la presa sulla tavola che teneva sotto braccio per non scavalcare la scrivania di legno scuro, spingerla contro il vecchio muro e baciarla.
La ragazza deglutì, sistemandosi poi la lunga treccia disordinata su una spalla, prima di uscire da dietro la scrivania e precederlo nella biblioteca, ignorando con tutte le proprie forze il desiderio di voltarsi e immergersi nei suoi occhi, nelle sue braccia, di morire sulle sue labbra. Non fidandosi della propria voce gli fece cenno di seguirla, pregando che lui non le avvicinasse troppo, perché non sarebbe riuscita a sopportarlo senza scoppiare direttamente in lacrime, era un dato di fatto.
I poeti spagnoli. In fondo, sulla sinistra.
Il punto più lontano della biblioteca dalla sala lettura che cinque anni prima aveva assistito all’inizio di tutto. E, okay che Zayn non poteva nemmeno sospettarlo, ma era strana come richiesta. Lui odiava le poesie. Odiava leggere. Odiava lo spagnolo. Ma era anche vero che in quel modo – per quanto non potesse saperlo – la stava mettendo all’angolo, la stava chiudendo in una trappola senza uscita.
Tra Marquez e Sepulveda.
«Mi piaceva quando mi leggevi Baudelaire, dopo aver fatto l’amore». E no, quello non avrebbe proprio dovuto dirlo. Non con quel tono di voce, tanto malinconico che avrebbe fatto diventare lucidi gli occhi di chiunque, per quanto potessero essi aver ispessito il cuore con pareti di ghiaccio. «Mi manca, fare l’amore con te», aggiunse passando le dita sui vari volumi, mentre lei posava la schiena contro uno scaffale, cercando di riprendere fiato ma senza volersi allontanare da lui, perché il suo odore era meglio dell’ossigeno, per i suoi polmoni.
«Sei davvero venuto qui per leggere?».
«E’ vero quello che hai detto l’altro giorno?», ribatté lui, lo sguardo fisso sui volumi polverosi davanti a sé e la tentazione di voltarsi per guardarla che cresceva secondo dopo secondo, senza sosta. Lei, dal conto proprio, non riusciva a sopportare quella brevissima distanza, perché era anche peggio che non sapere dove fosse, era peggio che non vederlo perché lui era scappato. Ora ce l’aveva a un metro di distanza e non poteva toccarlo. Era mille volte più dura.
«Che cosa…?».
Blue sapeva perfettamente a cosa si riferisse; forse voleva solo sentirlo dire dalle sue labbra. Forse voleva solo sentirlo parlare ancora e ancora, perché sapeva dentro di sé che non ne avrebbe mai avuto abbastanza. Aspettava che lui le rispondesse, con lo sguardo fermo su un volume di poesie in lingua originale, che su quello scaffale era il suo preferito; allungò una mano quasi senza pensarci, senza rendersi conto che probabilmente in quel modo avrebbe ridotto sensibilmente la distanza tra loro. Respirò l’odore di polvere e carta vecchia; respirò il tabacco che proveniva dal respiro calmo di Zayn; e chiuse gli occhi, sfilando il libro dallo scaffale e aprendolo a caso, solo per sentire la consistenza della carta sotto le dita.
Solo per non doversi allontanare di nuovo da lui.
«Hai detto che sono l’amore della tua vita».
«E’ la verità… non direi mai una cosa del genere tanto per dire, e lo sai», mormorò più a sé stessa che a lui, portandosi una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio. Consapevole però che lui l’avesse sentita nonostante il tono quasi inudibile della sua voce, restò immobile a sfogliare quel libro, e berne le parole con gli occhi e ad osservare lui con la coda di essi, ogni suo singolo movimento registrato dal proprio cervello. «Le ho detto che sei suo padre, quando siamo tornate a casa…», aggiunse alzando finalmente lo sguardo da quelle parole straniere per concentrarsi sul suo viso.
Si cibò dell’accenno di un sorriso, del sopracciglio leggermente inarcato e dei denti che giocherellavano con la pallina di metallo che teneva nascosta sulla lingua. Si godette la sensazione di sentirlo sorridere anche senza doverlo per forza guardare, si nutrì del suono del suo respiro regolare, accelerato di parecchio dopo aver sentito quelle poche parole.
«Cos’ha detto?».
«Ha chiesto perché… non le ho potuto rispondere».
Erano entrambi stranamente calmi, seppure i loro cuori stessero pompando il sangue a velocità impossibili. Stavano parlando da persone civili, nascondendo il dolore, l’amarezza, la tristezza e la rabbia. A quel punto però Zayn stava lottando per non stringere un pugno fino a farsi male, fino a mostrarsi debole. Era ferito e consapevole di aver ferito anche lei, probabilmente troppo vicino al cuore per poterla salvare.
«Ho avuto paura, ecco perché», riuscì ad ammettere dopo quella che ad entrambi parve essere un’eternità. E lo disse con lo sguardo basso, a voce bassa, ma facendo trasparire tutto il dolore che gli aveva provocato quella scelta, quello scappare che invece di fargli bene l’aveva distrutto dentro, un centimetro per volta, fino a far sì che di lui non rimanesse altro se non un cuore in frantumi. «Ho avuto paura di non essere abbastanza, di fare qualche casino per cui tu non saresti riuscita a perdonarmi…».
«Hai fatto più casino così», lo interruppe la ragazza sfiorandogli un braccio e concedendosi finalmente un sorriso. Per quanto si sforzasse di odiarlo, le era fondamentalmente impossibile. Perché averlo affianco le riportava in mente poesie di autori francesi sussurrate sotto le lenzuola, le ricordava i baci datisi di sfuggita e quelli scambiatisi all’improvviso, ovunque fossero, perché loro non si bastavano mai. Sfiorargli un braccio – anche se solo in quel modo – era come tornare indietro e rendersi conto che anche se lui non c’era stato e aveva avuto paura e l’aveva lasciata, i suoi sentimenti per lui non erano cambiati di una virgola. «Ti avrei perdonato qualsiasi cosa, Zà».
Le sfuggì, quel ridicolo diminutivo.
Le tornò in mente quando credeva di averlo dimenticato.
«Mi è mancato anche sentirmi chiamare così, piccola…». E semplicemente non seppe che altro dire quando sentì la mano di lei scivolare lungo il proprio braccio tatuato, fino alla propria mano, fino ad intrecciarne le dita sospirando. «E questo, mi è mancato». A quel punto non ero riuscito a trattenere un sorriso, mascherato solo dal fatto che non la stesse guardando direttamente negli occhi.
Lei si limitò a sospirare, abbassando le palpebre e lasciando che lui le strappasse il libro che teneva stretto tra le dita. Sembrava un deja-vù, un ricordo epifanico, una reminiscenza. Sembrava di essere tornati indietro a cinque anni prima, nella stessa biblioteca, quando aveva ancora i capelli tutti blu e si chiudeva lì dentro per non pensare al resto. Sembrava di essere tornati a quando ancora non c’era stato nessun bacio, nessun ti amo, nessun fare l’amore sotto le coperte che odoravano immancabilmente di tabacco, menta e vaniglia.
Si accorse appena del rimbombo del libro che cadeva a terra, battendo dalla parte del dorso. Stranamente non le importava che la rilegatura potesse spezzarsi, rompersi senza poterla più riparare o chissà cos’altro. Le importava della mano di Zayn contro la propria, dell’altra mano stretta sul suo fianco coperto solo da una camicetta di cotone; le interessava il suono del proprio respiro mischiato con quello di lui mentre continuavano ad avvicinarsi; e sentiva solamente il battere del proprio cuore a contatto con il suo, anche se a dire il vero non si toccavano nemmeno, non ancora.
Si accorse appena di una lacrima, scesa per conto suo lungo la guancia e andatasi a fondere con il cotone della camicia, in una piccola macchiolina che per quanto avrebbe potuto cercare di mandar via, sarebbe rimasta lì, a far compagnia all’altro dolore di cui era già impregnata. Se ne accorse appena, concentrata sulle labbra di Zayn sempre più vicine, sul suo rapido gesto di togliersi gli occhiali e passarsi una mano tra i capelli; concentrata sul riflesso della luce sulla sua pelle, sul suo odore, sulla sua mano ancora chiusa sulla propria, come se non volesse lasciarla mai più.
«Ti ricordi cosa ti ho detto quando ti ho chiesto di fare l’amore con me, la prima volta?». Aveva le sue labbra a pochi millimetri di distanza, eppure quelle parole sembrarono fermarla, sembrarono portarle alla mente un ricordo che credeva di aver gettato via una vita prima, la mattina in cui si era svegliata e di Zayn non era rimasto niente se non l’odore. Annuì semplicemente, guardandolo negli occhi e vedendo di nuovo la luce dopo secoli di oscurità. «Ti ho detto che sarei stato il tuo aquilone, che ti avrei portata più in alto quando avessi avuto bisogno di respirare…».
Se le ricordava bene, quelle parole. Come se gliele avessero impresse a fuoco, o gliele avessero scritte addosso col pennarello indelebile. Non se n’erano andate. Erano sempre lì, ma in quel momento se ci pensava non facevano male, perché era lui a sussurrarle, e non solo un suo mero ricordo.
«Me lo ricordo… io ho promesso che avrei fatto la stessa cosa con te».
«Già… sai una cosa?». E Blue avrebbe voluto chiedere cosa, ma fu interrotta dalle sue dita affusolate, premutele contro le labbra leggermente schiuse. Trattenne il fiato al solo sentire l’accenno della sua risata, col suo odore che le arrivava alle narici più forte di quanto non l’avesse mai sentito prima. «Non respiro, piccola…».
E le tremavano le mani, quando le sollevò per congiungerle dietro la sua nuca, a contatto coi suoi capelli di tenebra e seta. Le tremavano le labbra, quando le sue dita strinsero appena la presa su di lui, seguite da un sospiro. Le tremavano i pensieri, al pensare a quel che sarebbe potuto succedere da lì a una manciata di secondi. E le tremarono le gambe, al sentire di nuovo le labbra del moro contro le proprie.
Le tremò il respiro stesso, al sentirlo stringere la presa sui propri fianchi e congiungere le labbra con le sue. Le erano mancate più di quanto fosse sopportabile per chiunque, e lo capì solo con quel lieve contatto, solo sfiorando la sua pelle e sentendola morbida, bollente, leggermente rovinata dai morsi. Sentì quella mancanza, accorgendosi che riunirsi in quel modo era come riunire due poli opposti da sempre destinati a stare insieme; si accorse che le labbra di Zayn sottratte alle proprie l’avevano lasciata sola e vuota; si accorse che il proprio udito aveva bramato il suono del suo respiro, dei suoi ansimi contro la propria pelle; si accorse che tutta quella polvere che stavano respirando doveva avere un perché, così come doveva avercene uno il numero dei passi che in quegli anni avevano percorso l’uno lontano dall’altra.
Si accorse, Blue, che la strada più breve tra lei e Zayn era semplicemente il punto in cui le loro labbra si erano appena unite in quel bacio. Desiderato, bramato, sognato notte dopo notte e immaginato un milione di volte al minuto, o forse di più.
Tornò a disfare l’eco del suo addio.
A rivivere il momento in cui si era svegliata senza di lui.
E intanto le sue labbra si muovevano contro quelle del ragazzo. Senza imbarazzo, senza alcun problema. Erano lì apposta. Apposta per sentire la morbidezza di Zayn, apposta per assaporarlo, per sentirlo ansimare, per farsi fermare il cuore, per accelerare il ritmo del suo stesso respiro.
E con le sue labbra si muovevano anche le mani. Quelle di lei tra i capelli di lui. Quelle di lui sui fianchi di lei, su per la schiena, sotto la camicetta, sul bordo dei jeans. Era tutto un toccarsi e muoversi all’unisono e baciarsi e respirarsi e non averne mai abbastanza. Era tutto un attrito di labbra le une contro le altre. Era tutta collisione di pensieri nel silenzio di quel luogo che per loro era quasi sacro, quasi come un tempio, una chiesa, una moschea. Era una magia, come nelle favole alle quali loro stessi erano i primi a non credere.
Si staccarono il tempo di un secondo, solo per guardarsi negli occhi e riprendere fiato.
Il tempo di un sussurro, il tempo che bastava al moro per ricordarsi i versi di quella poesia che aveva fatto finta di voler cercare, quando in realtà l’aveva imparata a memoria un notte in cui lei gli era mancata tanto da non riuscire a respirare, tanto da non riuscire a sopravvivere, tanto da desiderare che gli si aprisse una voragine sotto i piedi, che lo inghiottisse e lo uccidesse.
«Ho capito una cosa, senza di te…». Posò di nuovo due dita sulle sue labbra, come a fermarla dal dire qualsiasi cosa potesse venirle in mente per fermarlo. «Ho capito che la più bella storia d’amore è possibile solo nella serena e inquietante calligrafia dei tuoi occhi».
Non era da lui citare qualcuno, tantomeno un poeta, men che meno spagnolo. Ma aveva trovato quella poesia di Sepulveda di una profondità unica, come se lui potesse capire davvero la mancanza che provava lui per Blue, il dolore che aveva sopportato ad allontanarsi da lei. Non era da lui, eppure l’aveva fatto, aveva appena trasformato quelle righe in un sussurro in cui credeva da morire.
Non era da lui, eppure riuscì a farla sorridere appena contro le proprie labbra. Perché non era Baudelaire, o Rimbaud o Shakespeare, ma era comunque Sepulveda. Ed era comunque poesia. Era comunque amore, amore puro, quell’amore che aveva aspettato uscisse dalle labbra di Zayn per anni, stando nel proprio letto freddo a guardare il soffitto e abbracciare sua figlia, che somigliava a lui come fosse una goccia d’acqua nata dalla stessa rugiada.
Si staccarono quanto bastava per affogare di nuovo l’uno nell’altra, quanto bastava a Zayn per riappropriarsi delle labbra di Blue con un sospiro. Si staccarono qualche istante, prima di ricongiungersi, prima che la ragazza si schiudesse sotto il leggero picchiettare della lingua di lui sul proprio labbro inferiore. Una manciata di attimi prima che entrambi potessero riassaporarsi davvero, e non solo dal mero contatto di due paia di labbra, non solo un bacio a stampo, perché era ovvio come il cielo è azzurro che entrambi volessero di più.
Quindi non fu una sorpresa per Blue sentire la lingua di Zayn contro la propria. Né lo fu scoprire che il suo sapore era sempre lo stesso, sempre identico. Sapeva ancora di tabacco e di menta, sapeva ancora di ragazzino, ma forse era più uomo ora; come se il suo sapore e il suo odore fossero cresciuti con lui, coi suoi capelli e con la profondità delle sue iridi. Non fu sorprendente accorgersi della facilità con cui rispose al bacio, perché era sempre stato così tra loro, sin dal loro prima bacio in quella stessa biblioteca, poche sale più in là.
Si lasciò sfuggire un gemito, stringendo la presa sui suoi capelli mentre le loro lingue si muovevano all’unisono come se non si fossero mai lasciate, nemmeno per un momento. Stringendo, mentre lui a sua volta la spingeva verso la libreria opposta senza lasciarle i fianchi e senza staccarsi dalle sue labbra. Stringendo, mentre le mani di Zayn stringevano sul suo corpo, facendole capire quanto gli fosse mancata.
«Zayn, fermati… non qui…», lo riprese la ragazza, fermando con una risatina il percorso delle sue mani, ormai arrivate all’altezza del sedere della ragazza. «Non qui», ripeté in un soffio, prendendogli il viso tra le mani e accarezzandone le guance ricoperte da quel velo di barba che l’aveva sempre fatta impazzire. Le venne da ridere, guardandolo, e per una volta lo fece, fregandosene del luogo, del tempo o di qualsiasi altra cosa potesse fermarla dal farlo. Rise, con la testa abbandonata contro lo scaffale e le mani un po’ ruvide del moro che le solleticavano la pelle sensibile dei fianchi. «E adesso?».
«Adesso voglio sentirti ridere, ogni mio secondo possibile».
«Chi ti dice che ti abbia perdonato, scusa?», ribatté accennando un sorriso, quasi a contatto con la pelle del suo mento. Si trattenne a stento dal rabbrividire sotto il suo tocco, sotto il suo respiro, ma al salire delle mani lungo la schiena non riuscì a trattenere l’ennesimo sospiro, seguito da un sorriso colpevole che fece sorridere il ragazzo, che quasi lo fece ridere contro di lei, mentre scendeva col viso a nascondersi nel suo collo.
«Possiamo ricominciare, allora?», le chiese tornando a guardarla e giocando con la punta della sua treccia. Giocando col blu, come aveva fatto una volta, faceva in quel momento e avrebbe voluto fare sempre. Lei si morse piano un labbro, ricordando ancora com’era stato essere privata di quell’amore che solo lui aveva e avrebbe potuto darle. Aveva di nuovo le lacrime agli occhi, quando provò ad annuire, ma le uscì solo una smorfia non troppo convinta. «Ti amo, Blue… ti amo, tanto da morire dentro quando non ci sei, tanto da farmi male, da non mangiare, da non riuscire a dormire, tanto da aver letto Baudelaire e tutti i tuoi poeti preferiti, perché mi mancavi tanto da soffocare e…».
Si fermò solo al sentire le sue labbra di nuovo contro le proprie, che quella volta però sapevano di sale, di dolore lasciato andare, di amore ritrovato. Sapevano di fiducia, quella fiducia che le aveva portato via quando era scappato. Dirle che la amava ancora sembrava avere il potere di distruggere ogni suo muro e ogni sua difesa, lasciandola come nuda davanti a lui, facile da leggere come uno di quei libri per cui bastava allungare una mano e semplicemente cibarsene fino all’ultima parola.
In quel momento Blue era come uno di quei libri.
E «Ti amo, Zayn», gli sussurrò di nuovo, prima di baciarlo ancora e ancora, finché i baci non diventarono lo stesso numero dei granelli di polvere che volteggiavano nell’aria, o forse di più, mille volte di più.


 


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