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Autore: Matih Bobek    26/10/2014    1 recensioni
Brevi racconti tratti da esperienze quotidiane che vertono sulla vita nella Capitale, con un occhio di riguardo per le zone periferiche al nord, l'ignoranza e la cafonaggine del romano medio, le lotte con i mezzi pubblici, l'ansia di prendere la macchina per via del traffico. Divertenti, ironiche e irriverenti le storie presentano una grande varietà di temi, trattati con ferma lucidità analitica e un certo distacco. Dalla raccolta emerge il dipinto di una Roma in caduta libera, macera e spenta, specchio della situazione in cui versa l'Italia. La crisi economica e sociale vengono descritte con amara ironia.
Genere: Comico, Commedia, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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I vagoni dei treni di Roma sono di due tipi: quelli in cui l'aria condizionata proviene direttamente dal polo sud, e quelli in cui l'aria condizionata non esiste. 
Qualche giorno fa, io e mio padre decidemmo di dirigerci al centro;  una volta arrivato in stazione, non sai mai cosa sperare (  oltre al fatto che il treno ritardi di meno di venti minuti, ovviamente ): se beccare il polar express, oppure il piccolo vagone crematorio con posti a sedere, che almeno son comodi; se morire con un fucilata alle ginocchia, o con la testa mozzata.
 Il caso decise per noi, e appena messa la punta del piede nel treno, capimmo di aver beccato il vagone polare: quello popolato dai pinguini controllori, e orsi macchinisti. Quello con sedili in comodo permafrost e i vetri dei finestrini in sottili lastre di ghiaccio. Quello il cui pavimento, è forse più una pista da pattinaggio, e i corrimano sono stalattiti. In poche parole, il set di Frozen! Mi godetti il viaggio, o perlomeno ci provai; osservavo il paesaggio, sognavo l'estate ( anche se in pieno luglio). L'igloo su rotaie arrivò a destinazione; mio padre mi svegliò dal mio sonno antartico, mi fece segno di scendere, e d'un tratto, nel bel mezzo della mattinata mi ritrovai a San Pietro. Eppure sembrava di stare ai tropici.   Vidi in lontananza il cupolone troneggiare in tutta la sua santità, sembrò grondasse di sudore, anche lui come noi poveri cristiani. Continuai a guardarmi intorno: ma perchè ero lì? Non lo ricordavo: lo sbalzo di temperatura, da sotto lo zero a deserto africano, mi lasciò frastornato. Quel buon uomo di mio padre, con semplici gesti e poche parole, notò il mio sconforto, e con sguardo comprensivo, mi guidò nel percorso. Avanzammo, come anime perse, sperando che il traghettatore di Roma, il mitico 64, fosse già lì, al capolinea, pronto a partire. Non c'era. Lo sconforto si dipinse buio sul volto dei poveri disgraziati sparpagliati per il marciapiedi, che, a giudicare dalle gocce di sudore sui loro visi, aspettavano da molto. Mio padre rimase in silenzio, soffocando tra i denti qualche parola sgradita, non facendo trapelare nulla dal viso serioso. Io, semplicemente, non capivo niente: il sole picchiava troppo forte, ed ero più simile ad un budino che ad un essere umano. I minuti scorrevano come acqua di un ruscello, e imprecazioni e bestemmie si levavano dalla folla in attesa, mentre sullo sfondo il cupolone si scioglieva in lacrime. Ad un tratto arrivò il 64, caricò la marea di anime lamentose e rimase lì. Fermo. Ad aspettare. Cosa non si sa. Intanto, all'interno dell'autobus, si veniva a formare un microcosmo di mille sfaccettature, un mondo in miniatura brulicante di miliardi di vissuti differenti, che sfumava  in una miriade di imprecazioni e bestemmioni tonanti. Salito sull'autobus, stretto stretto, mi ritagliai un piccolo spazio, e mi misi, con un misto di stupore e incredulità ad osservare la folla: una donna si avvicinò al conducente e iniziò a chiedergli con insistenza e con un italiano zoppicante:" ma quanno parte? Nopperchè devo annà a pregà a San Pietro!" ( probabilmente nella speranza che il signore le donasse un libro di grammatica). Una ragazza, di trent'anni circa, ciancicando nervosamente una chewing gum, urlava al telefono:"Non poi capì, st'autobus dem****a c'ha messo 'na vita, mò non se decide a movese, porca t***a, che c***o!" e secondo dopo secondo, esaurì l'intero vocabolario delle volgarità, rendendomi nota l'esistenza di termini che mai avrei potuto immaginare. Seduti sui sedili, tre ragazzi dall'accento chiaramente esteuropeo, parlavano a velocità supersonica. E ancora, un anziano dal viso pulito e scarno, un uomo dal colorito grigio e dalla pelle rugosa, come il tronco di un albero, e poi una ragazza, dai capelli scuri e le labbra gonfie, con l'immancabile matita sulle labbra;  trucida nell'anima, pensai.
Uno intento a messaggiare sul cellulare, l'altro a smadonnare in turco, e l'ultima, che sbuffava come un toro, prendendosela con chiunque le si avvicinasse:  poverina, stava stretta. Noi invece sguazzavamo allegri, tutti appiccicati sotto l'afa di metà luglio. 
L'autobus partì, faticando per il peso eccessivo, e iniziò il suo ansimante viaggio tra le vie di Roma. Ogni curva ci buttava l'un addosso alll'altro, e la strada dissestata amplificava lo sconforto. Ma il vero dramma fu quando l'autobus arrivò alla prima fermata: quattro biondini dall'aria spaesata carichi di borsoni attendevano sul ciglio della strada. La loro visione destò il panico nell'autobus: " non fateli entrare! NON FATELI ENTRARE!"Si levarono urla di terrore, visi atteriti si dipinsero sui loro sorrisi e ancora." VI PREGO, NON FATELI ENTRARE!!" la donna con la matita sulle labbra ringhiò agitando i pugni:" NON C'ENTRAMO! STAMO TUTTI SCHIACCIATI! ANNATEVENE, ASPETTATE N'ARTRO AUTOBBUS!" Quasi sembrava che gli occhi le stessero per uscire dalle orbite. Le porte si spalancarono e l' amazzone de Noantri si lanciò sui poveri ragazzi, sbarrando loro l'entrata. Sbraitò contro loro; sbraitò tanto che la saliva sciolse la matita attorno i canotti di pelle. Io e mio padre ci scambiammo uno sguardo loquace e ridevamo sotto i baffi per le assurdit
à che ci venivano schiaffate sotto gli occhi.
( to be continued)
   
 
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