Prologo
"When it's good, then it's good, it's so good 'till it goes bad"
Paritur pax bello
Se vuoi la pace prepara la guerra
Cornelio Nepote
Lanciai uno sguardo alla sveglia quadrata in cima allo
scaffale dei saponi. Segnava le sei e mezza, un orario immondo.
Sbadigliai teatralmente: diamine, che sonno.
In quella fredda mattina di inizio Ottobre l'alba non era
ancora sorta e, dalla finestra del bagno rivolta verso est, riuscivo a vedere
solamente una fitta coltre di nebbia.
Milano in quel periodo dell'anno diventava alquanto lugubre,
potevano passare parecchi giorni senza che il sole facesse capolino fra le
nuvole spettrali.
Ma a me piaceva così, adoravo che spesso il tempo
riflettesse il mio stato d'animo.
Mi avvicinai alla finestra, disegnando un pipistrello sulla
condensa del vetro con l'unghia dell'indice dipinta di nero.
Il risultato fu una macchia informe – non ero mai stata una
grande disegnatrice - che mi permise di vedere più chiaramente l'esterno.
Riuscii a scorgere il mio vicino di casa a spasso col cane.
Il ragazzo era poco più grande di me e avvenente, o meglio,
mi dicevano che lo fosse.
Insomma, quando passi la tua infanzia a cacciare rane e a
fare la "lotta" con il tuo vicino di casa, una volta cresciuti,
l'ultima cosa che puoi pensare su di lui è che sia attraente.
Aveva i classici tratti mediterranei e portava un pesante
giubbotto nero di marca. La sua camminata aveva un non so che di esilarante.
Incedeva infatti come se portasse appeso al sedere qualcosa di pesante, o, come
diceva la mia dolce mamma, camminava come se si fosse cagato addosso.
Sogghignai. Di solito non amavo denigrare le persone, ma lui era un caso
particolare, era "il bastardo che alle sette della domenica mattina si
mette ad ascoltare musica house". Spostai la mia attenzione sul cane. Era
di una razza dal nome impronunciabile, una specie di ratto marrone troppo
cresciuto con le orecchie troppo grandi per la sua taglia, con una voce acuta e
stridula usata solo per latrare contro le ragazze truccate di nero.
Si, Cam, anche il cane ti urla contro "emo di
merda", pensai con un sorriso amaro sulle labbra.
Abbandonai la finestra per andare ad accomodarmi sul
lavandino.
Un giorno o l'altro cederà se non perdo qualche chilo.
Guardai il mio riflesso nello specchio a muro: una ragazza
dal volto assonnato mi fissava con un espressione sconvolta, i capelli tinti di
nero le ricadevano attorno al viso un po' paffuto e sugli occhi castani, le
labbra erano carnose, ma non abbastanza belle per meritare di essere ammirate e
infine il naso, una bella patata.
Sono proprio la ragazza più comune del mondo, non c'è nessun
particolare in me che sia... bè che sia particolare.
Forse mi sbagliavo, un particolare c'era, mio malgrado.
Un brufolo rosso mi guardava gongolante dal centro della mia
fronte. Guardai in cagnesco il suo riflesso nello specchio, ma, prima che potessi prendermi a sberle da sola,
<< Camilla, non ti ho messo una sveglia in bagno per
farti arrivare in ritardo. Muoviti che se no la colazione si fredda. >>
<< Si, mamma. >>
Sbuffai e mi sciacquai velocemente la faccia. Uscendo dal
bagno, come tutte le mattine, inciampai nella moquette verde.
Il corridoio conduceva a tutte le stanze dell'appartamento,
situato all'ultimo piano.
La sala era lo spazio più esteso, conteneva due divani neri in
pelle, un pesante tavolo in quercia e una gran televisione che aveva appena
compiuto i suoi primi, e spererei unici, quindici anni. Mi trascinai verso la
cucina, passando di fianco al bagno di mia madre, e inciampai di nuovo.
Dannate calze e dannata moquette!
Raggiunsi la cucina dove al centro c'erano un tavolo e una
panca in legno. Mia madre, Isabella Aleri, alta poco più di un metro e sessanta
e con i capelli biondi tagliati corti,
da militare, stava tentando di versarmi del latte caldo in una scodella senza
farci cedere dentro la panna, che io odiavo.
Sorrisi per quel piccolo gesto d'affetto.
Cercai di prendere i miei cereali dallo scaffale più alto
della dispensa e solo allungandomi come un gatto - un gatto grasso e pigro -
riuscii ad afferrarne la scatola. La aprii e gettai abbondantemente il
contenuto nella tazza appoggiata sul tavolo.
Il cavo che collegava i miei pensieri al resto del mondo si
staccò e io lasciai galoppare la mia incontrollabile fantasia. Mi resi conto
del corso dei miei pensieri solo quando arrivarono al mio buco nero personale,
al mio centro di gravità permanente.
Sorrisi sorniona e il mio viso si velò di un leggero
colorito rosso sangue.
Promemoria: iscriversi al gruppo di Facebook: Tua mamma ha
poteri paranormali? Anche la mia!.
<< Chi è Lui? >>
Porca puttana! Come diavolo fa?.
<< Non so di cosa tu stia parlando, mamma. >>
Sospirai sonoramente.
<< Camilla, vatti a vestire e a fare le tue cose, non
voglio arrivare in ritardo. Nemmeno se mi dici che Costui è bello come quello
che piace a voi giovani... Astone Cucer. >>
Chi?, aggrottai le
sopracciglia e poi capii.
<< Ashton Kutcher, comunque >> ghignai.
<< Ah, allora quello che ti piace è inglese. >>
Alzai un sopracciglio fino all'attaccatura dei capelli. Ma
stamattina ha mischiato la vodka col caffè?
<< Mamma è l'attore che si chiama Ashton Kutcher, non
quello che mi piace, lui si chiama... >>
Mi morsi la lingua.
Le feci un
sorrisino mellifluo.
<< Mi sa che te ne devi inventare una migliore, mamma,
non mi freghi più così facilmente. >>
Alzandomi le schioccai un bacio sulla guancia e andai nel
mio bagno per tirar fuori dall'ammasso di sonno che ero io, una specie di
essere umano.
Sfoderai dal mio beauty rosso la mia matita per gli occhi
nera e tracciai una spessa linea sulla palpebra inferiore. Poi afferrai
l'eyeliner e feci lo stesso sulla palpebra superiore. Completai il trucco
ricoprendomi i brufoli con del correttore e della cipria.
Mi fiondai in camera - riuscivo quasi a sentire il ritardo
aumentare - e saltai, per agguantare un paio di pantaloni, i miei anfibi
preferiti, neri, bassi e con la punta in metallo scintillante.
Li metto o non li metto? Li metto o non li metto? Eccome se
li metto!
Vestii entrambi e balzai su una canottiera bianca e sulla
felpa nera che sul cappuccio presentava delle orecchie bianche da gatto.
Ormai ho diciassette anni, dovrei smetterla di vestirmi come
un cartone animato...
Risi sguaiatamente, tenendo in mano il mucchio che era il
mio pigiama - una semplice maglietta dei Sonata Arctica - e uscii, non senza
aver lanciato un bacio al mio poster di Ville Valo. Tanta roba!.
Dopo aver lanciato la maglia nel cesto dei panni sporchi in
bagno chiamai mia madre.
Nessuna risposta.
Deve essere già scesa, sbatti.
Si sarebbe sicuramente arrabbiata se non fossi salita in
macchina... Dieci minuti fa.
Cazzo.
Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, ora mi sclera dietro.
Feci per le scale almeno venti gradini prima di fermarmi di
colpo.
La porta, cazzo, non ho chiuso la porta.
Dovetti fare la strada a ritroso col pesante zaino del
mercoledì sulle spalle e arrivata a destinazione, dopo aver imprecato in ogni
lingua, riuscii a serrare in modo decente il portone. Sbuffai, l'atleta che
poteva esserci in me se n'era andato più o meno all'età di otto anni o forse
non era mai venuto ad abitare nel mio corpo.
Ripercorsi il mio tragitto per la seconda volta pestando i
miei anfibi neri sul marmo bianco della rampa.
Odio la mattina, odio essere in ritardo, maledizione.
Cercai di correre giù dalle scale e arrivare senza avere
incidenti e ce l'avrei fatta se non avessi urtato Davide.
<< Scusa, scusa. >>
L'abbaiare del suo dolcissimo cane coprì del tutto le mie
parole. Lui puntò i suoi occhi neri nei miei.
Dovevo ammetterlo il suo sguardo non era poi così male, le
sopracciglia formavano un arco perfetto sul viso abbronzato - sebbene fosse
Ottobre - e i capelli castani, sparati in aria grazie a una buona quantità di
gel, incorniciavano felicemente il tutto.
Il suo sguardo scese fino ai miei piedi e le sue labbra,
carnose, morbide e perfette, si piegarono in segno di disgusto.
Amo le persone che ti giudicano in base alle scarpe che
porti.
<< Sono in ritardo. >>
E levati dai coglioni, aggiunsi mentalmente.
<< Si, ok, ma vedi di scendere piano, quelle dannate
cose fanno un casino tremendo. >>
Mi morsi la lingua per non insultarlo e per non insultare il
suo cane che continuava, imperterrito, ad abbaiarmi contro. Lo superai con uno
sguardo d'acciaio, odiavo la gente superficiale. Ma ancor più odiavo la gente
ipocrita, era lui quello della musica a tutto volume, quello che faceva
"casino", e ora veniva pure a rompermi i coglioni?!
Corsi nella nebbia fino ad arrivare alla Fiat Idea grigio
metallizzato di mia madre.
<< Sei in ritardo. >>
Il tono di voce era basso e apparentemente calmo.
Ok, è incazzata. Meglio mettere le cuffie dell'iPhone.
<< Lo so. >>
Sprofondai, dopo aver allacciato la cintura di sicurezza,
sul sedile del passeggero. Mi addormentai e a svegliarmi da un sonno senza
sogni fu la voce di mia madre.
<< Porca miseria, scendi che se no scatta il semaforo!
>>
Aprii gli occhi di scatto e mi ritrovai a fissare un
semaforo rosso.
Mia madre, per non farmi arrivare in ritardo, mi aveva
risparmiato tutto il tragitto in tram portandomi in macchina fino alla filobus
che, dopo poche fermate, mi avrebbe portato direttamente a scuola.
Scesi, macchiandole la portiera con gli anfibi.
<< A stasera, allora. >>
Mi buttai, come al mio solito, in mezzo alla strada,
zigzagando fra le monovolume e i fuoristrada. Balzai appena in tempo sulla
pensilina, perché subito dopo le auto incolonnate, allo scattare del semaforo,
partirono come per un gran premio di Formula 1.
Da lì potevo vedere ai lati della carreggiata destinata alla
filobus, due lunghi filari di pioppi che creavano una sottile ombra, la quale
nel periodo estivo offriva un angolo di refrigerio ai passeggere del maledetto
autobus.
Si proprio maledetto autobus, no, filobus, insomma è proprio
un fottutissimo mezzo pubblico che passa ogni morte di papa e che è sempre
pieno con un uovo.
Per fortuna - o per caso, dipende dai punti di vista -
arrivò dopo cinque minuti, strapieno.
Lui non c'era.
Cercavo con gli occhi un ragazzo dai capelli color caramello
e bello come il sole. Di solito era un tipo ritardatario, come me, e se ne
stava sulla filobus con un’aria assonnata e strafottente. Stava sempre seduto sul
cassone in fondo alla filobus, a volte era insieme a un tipo biondo, enorme,
che non faceva altro che parlare ad alta voce e a imprecare. Il ragazzo che
stavo cercando era alto un metro e ottanta e abbastanza muscoloso, aveva gli
occhi color nocciola, era dello scorpione e fumava tabacco Chesterfield. Da
come lo descrivevo poteva sembrare che lo conoscessi di persona, in verità non
gli avevo mai rivolto la parola. Le cose che sapevo di lui le avevo ricavate
dalla mia capacità di osservazione o da Facebook .
Che ci posso fare, la mia vita è noiosa e ripetitiva.
Ma in fondo le cose andavano bene, avevo una madre
deliziosa, una cotta adolescenziale per un ragazzo impossibile, delle amiche
fantastiche e una media scolastica che mi permetteva di non avere debiti alla
fine dell’anno.
Peccato che, se avessi avuto il dono di prevedere il futuro,
mi sarei resa conto che proprio in quella giornata tutte le mie certezze
sarebbero state spazzate via e che la mia vita, da noiosa e ripetitiva, sarebbe
diventata incredibilmente interessante.
Angolo autrice
Salve a tutti, questa è la mia prima pubblicazione su efp, quindi spero che non siate troppo cattivi e che vi piaccia XD.
Ho già il secondo capitolo pronto in cantiere, ma aspetto a pubblicarlo perchè vorrei realizzare qualche disegno dei protagonisti (non aspettatevi dei capolavori).
Con questo vi saluto, un bacio,
Vena