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Autore: futacookies    27/10/2014    3 recensioni
Prima classificata e vincitrice del Premio Mary al contest: "Una storia, una corona di spine", indetto da Mary Balck sul forum di Efp.
{Germania, 1945. Albus/Gellert}
Non poteva però continuare vivere nel passato, in tutti quegli avverbi, in tutti quei modi verbali che gli ricordavano che non erano più nulla, se non litri di ricordi da imbottigliare, se non rimpianti da collezionare, da mettere su uno scaffale per lasciare che si impolverassero. Cos’erano allora? Cos’era rimasto di loro? Soltanto quello? Non erano più persone capaci di scambiarsi l’anima con uno sguardo, non sapevano più parlarsi senza dover aprir bocca. Erano estranei, corpi che non sapevano più riconoscersi, erano persone che condividevano un’esperienza dolorosa, che condividevano dei rimpianti, che avrebbero condiviso una sofferenza maggiore di lì a pochi giorni. Ore, forse.
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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Nick dell’autrice: Liberty_Fede
Coppia: Albus/Gellert
Generi: Angst, Drammatico, Malinconico, Sentimentale, Triste.
NdA: tutta la storia si svolge dal punto di vista di Albus. Tratta tutto un loro possibile dialogo prima del famoso duello, un tentativo di Albus di redimere Gellert (non so perché, ma mi sembrava plausibile). Il duello non è affatto trattato – in fondo sappiamo come è finita. Da brava masochista quale sono, ho tenuto coppia, citazione (La nudità della tua intelligenza) e genere (Malinconico – ma non sono sicura di averlo davvero centrato), sperando di non aver fatto pasticci. Per il resto (chiarimenti e quant’altro), alla fine.



 
Una collezione di rimpianti

 
Ecco cos’era, la sua vita: una collezione di rimpianti. Forse stava per aggiungerne un altro – l’ennesimo – mentre preparava il suo viaggio in Germania.  Viaggio diplomatico, senza alcun dubbio, che sarebbe sfociato in un duello se Gellert – se il mostro che l’aveva inghiottito – non avesse voluto ascoltare le sue parole.
Non sapeva nemmeno cosa dirgli. Era strano, per lui – lui che diceva sempre la parola giusta al momento giusto – aver scelto di improvvisare in una situazione talmente delicata. Ovviamente, non poteva restare a guardare, ma avrebbe dato qualunque cosa per non dover intervenire personalmente – per non scoperchiare il suo vaso di Pandora, per non dover vedere ancora quegli occhi, per non dover sentire ancora quella voce, che gli diceva quelle parole, quelle parole che l’avevano terribilmente tentato da giovane e che esercitavano su di lui un incredibile ascendente, nonostante il tempo passato, nonostante l’abisso che ormai lo separava da colui che gliele aveva sussurrate, quelle parole, come una dolcissima e segreta melodia, come qualcosa di cui tutti erano all’oscuro, qualcosa che conoscevano soltanto loro, che soltanto loro avrebbero potuto prendere, loro che erano gli unici in grado di gestirla, quella cosa, gli unici a governarla e, infine, possederla. Tanti anni prima, a Godric’s Hollow, Gellert gli aveva regalato la morte. E lui se n’era accorto troppo tardi.
Forse era lì, in una sera umida e spensierata di un’estate inglese, che aveva cominciato a collezionare rimpianti, quando un ragazzo biondo, con gli occhi verdi che brillavano di foga ed entusiasmo, gli aveva regalato per la prima volta la morte, con la stessa frivolezza con cui avrebbe condiviso l’inchiostro per scrivere. Forse era iniziata prima, quell’assurda collezione, ma – di nuovo – non se n’era accorto. Si rendeva conto sempre troppo tardi di quello che accadeva. Allora l’accaduto restava semplicemente lì, nella sua memoria – e un giorno avrebbe rinchiuso i rimpianti in fialette e li avrebbe mostrati a un altro ragazzo con gli occhi verdi, per fermare un uomo che un tempo li aveva avuti, gli occhi verdi, ma questo Albus ancora non lo sa. Albus non sa ancora tante cose, ma rinuncerebbe a ognuno dei suoi rimpianti per conoscerle – in attesa di essere riconosciuto come rimpianto – l’ennesimo, glorioso rimpianto di quell’immensa collezione – e di portare al collezionista tanto dolore quanto gliene avevano procurato i suoi compagni.
Albus non era fatto per i rimpianti, non era fatto per vivere di rimpianti.
Peccato che nel tempo libero li catalogasse alfabeticamente.

***
 
«Trovarti è stato così facile, che per un momento ho creduto fosse una trappola.»
Ed era vero: quando aveva visto la morte incisa sui tronchi di quegli alberi, in quella selva oscura della Germania del Sud, aveva pensato che Gellert gli avesse teso uno scherzo fatale. Era diverso dal ragazzo che i suoi rimpianti ricordavano – nemmeno lui, in fondo, poteva dirsi immutato. Anzi, tra i due, probabilmente era quello che aveva dato un taglio netto al passato, che aveva reciso con i rimpianti il fanciullo ambizioso che gli si celava dentro –, e quella diversità non si riscontrava solo nella barba mal curata, o nella durezza della mascella. Quel cambiamento si notava in ogni suo movimento, non più febbrile di eccitazione, ma con la pesantezza e la rassegnazione di chi sa recitare una parte che non sente più sua. Ma gli occhi, gli occhi di Gellert non sapevano fingere, gli occhi di Gellert, sotto strati di crudeltà, nascondevano ancora la scintilla di un ragazzino che voleva dominare la morte – lo stesso ragazzo che gliel’aveva regalata, la morte, così come gli aveva regalato il suo primo rimpianto.
«O forse, ho voluto che mi trovassi. Non sopravalutare la tua intelligenza, è un errore che non ti perdonerei, Albus.»
Peccato di superbia. E il primo rimpianto di quell’incontro andò a posarsi sulla sua anima.
«Superbia», scandì lentamente, assaporando ogni lettera di quella parola che sarebbe dovuta sembrargli sconosciuta, ma che lo conosceva così bene. «Non solo l’unico che corre un rischio del genere, vero, Gellert?»
E, ovviamente, Gellert non rispose. Odiava le domande, soprattutto le domande le cui risposte confermavano la sua colpevolezza.
Gellert era innocente. Era il mondo intorno a lui a essere colpevole.

*
 
«Morirà tanta gente.»
«È per il Bene Superiore.»
«Potremmo farci del male.»
«Non essere egoista: è per il Bene Superiore.»
«E cos’è, Gellert, il Bene Superiore?»

*
 
Tacquero, per secondi che sembrarono millenni – il tempo che avevano trascorso divisi dall’ideale comune: il Bene Superiore. E dopo, quando quei due mesi di sogni e follia diventarono rimpianto, quando Gellert diventò rimpianto, quando la morte di Ariana diventò errore imperdonabile, si era chiesto spesso cosa fosse davvero, il Bene Superiore. Forse soltanto il capriccio di un ragazzo assetato di morte, forse l’unica possibilità di salvezza per Maghi e Babbani, forse soltanto il pretesto di essere con lui, ovunque andasse e qualunque cosa facesse –, entrambi persi nei loro pensieri, mentre Gellert – almeno questo lo sapeva, lo sapeva perché lo conosceva meglio di se stesso, perché non si conosce mai davvero se stessi ed è incredibilmente più facile leggere nelle persone che si amano – rielaborava nella sua mente quello scambio di battute, traendone conclusioni affrettate, ma corrette, scoprendo ogni suo punto debole, ricavando, da poche parole, i sentimenti che l’attorniavano in quel momento – perché è molto più facile leggere nelle persone che si amano. Gellert l’amava, dunque? L’amava ancora, dopo tutti quegli anni? L’amava ancora, nonostante quello che stava per accadere? L’aveva mai amato, o era soltanto l’illusione, effimera eppure luminosa, che lo attraeva, prima di diventare rimpianto?
Quando si voltò nuovamente verso di lui, era consapevole che sarebbe tornato in Inghilterra – dolce e affabile Inghilterra, come l’aveva sempre chiamata lui – con il baule ingombro di rimpianti, e presunti tali.
«Non avresti voluto essere qui, vero? Cosa ti ha portato, allora, nella tana del lupo? Senso del dovere? Curiosità? La curiosità uccise il gatto – e non solo –, spero tu non l’abbia dimenticato.»
No, che non l’aveva dimenticato, e non l’avrebbe mai dimenticato, tutto quello che aveva scoperto quasi per caso, parlando con Bathilda della vita di Gellert prima, quando frequentava Durmstrang con ottimi risultati e dubbi voti e una pessima condotta. Non l’avrebbe mai dimenticato.

*
 
«Quindi, Gellert non ha ancora terminato gli studi?»
«No, Albus caro, e credo non li concluderà mai! Sai, il nostro Gellert è uno spirito libero, estremamente curioso, e quando è arrivato qui mi ha detto che a Durmstrang –scuola terribile, quella!, dove l’unica cosa che ti insegnano in sette anni è come sopravvivere nella Tundra! – cercano di sopprimere la creatività, l’individualità degli studenti. Pensa che Gellert è stato espulso – come si può espellere un ragazzo così intelligente? – per alcuni esperimenti mal riusciti. E come l’hanno calunniato, povero caro! Pensa che – per giustificare la loro mentalità rozza e oppressiva – hanno raccontato ai suoi genitori che nel corso di una delle sue tante sperimentazioni un ragazzo è morto! Morto! Come se quell’angelo potesse far del male a una mosca…»

*
 
Aveva indagato, questo lo ricordava bene – ricordava l’ansia che gli schiacciava il cuore e lo stomaco ogni volta che lasciava partire un gufo, o che ne arrivava uno, ricordava il terrore nei suoi occhi, quando si guardava allo specchio, terrore che Gellert scoprisse che aveva dubitato di lui, della sua parola, della sua innocenza. Terrore che Gellert si sentisse tradito e lo tradisse a sua volta, abbandonandolo in quel villaggio escluso dal resto del mondo, abbandonandolo a se stesso – ricordava di aver chiesto ai più grandi maghi del suo tempo, di aver smosso ogni contatto sul quale potesse contare, di aver sperato in un miracolo, nella verità delle parole di Bathilda.
Per il Bene Superiore.
Forse era soltanto una scusa. Forse era il più grande rimpianto, la punta di diamante di quella ridicola collezione.

*
 
«Curiosità. Suvvia, Gellert, non essere sciocco. Stavolta potrei essere io, a non perdonare te
Ma Gellert non temeva affatto il rimprovero nei suoi occhi. Gellert aveva sempre avuto il coltello dalla parte del manico, aveva sempre avuto la consapevolezza di riuscire a polverizzarlo con uno sguardo.
«Se fossi uno sciocco, adesso non sarei qui.»
«Se non fossi uno sciocco, adesso ci ripenseresti.»
Nemmeno Gellert era fatto per i rimpianti.
«Parla, allora! Convincimi ad abbandonare la mia causa per perpetrare la tua
Silenzio. Devastante, irrisorio silenzio. Era partito impreparato, e restava tale. Uno dei maghi più brillanti, più svegli, più intelligenti dell’epoca, zittito da una lingua biforcuta. Ma Gellert aveva capito tutto, e aveva impiegato meno della metà del tempo usato da lui. Aveva paura di quell’incontro, aveva paura di cadere in tentazioni – pronte a diventare rimpianti, perfette per arricchire la sua collezione – ancora troppo forti, per porre una qualunque resistenza. Lo spirito era pronto, era sempre stato pronto – anche quando aveva diciassette anni e un amore sconfinato, cattivo, guasto per un ragazzo che riversava lo stesso amore nelle sue convinzioni, nelle sue idee, nella sua sete di potere e gloria personale –, ma la carne, la carne era sempre stata debole, debolissima, vittima degli istinti e dei desideri nascosti nel suo cuore – vittima del suo vaso di Pandora, influenzata dalla sua collezione di rimpianti, controllata da Gellert. O, forse, da quello che credeva di provare per lui.
Un sorriso sardonico, uno stralcio del ragazzo che aveva conosciuto tempo prima.
«Vediamo se invece riesco a convincerti io, a perpetrare la giusta causa. Pensaci, Albus: il Bene Superiore non è soltanto una sciocchezza, come hai deciso di classificarla. È di più! È davvero la nostra unica possibilità, la nostra unica speranza in questo mondo buio! L’unica cosa che potrà salvarci! C’è una guerra anche tra i Babbani – tu che ormai sei così devoto alla loro causa dovresti saperlo – e ne moriranno a centinaia. Se riuscissimo a sottometterli – sai che possiamo, Albus!, l’hai sempre saputo, anche quando hai smesso di volerci credere! – se ci svelassimo e li ponessimo sotto il nostro governo – ricordi? Silente e Grindelwald padroni del mondo. Non credo che tu abbia già dimenticato, nonostante la tua bella e sicura cattedra che ti aspetta a Hogwarts – forse riusciremmo a salvarli. Ci pensi mai, Albus, mentre ti nascondi tra quelle squallide quattro mura, a quanto potresti fare, se ti unissi a me? A quello che potresti essere, con me? Quanto potremmo raggiungere, insieme? Potremo curare i loro morbi, porre fine alle logoranti lotte interne per il potere. Noi saremo il potere. Saremo l’unica cosa sulla quale conteranno, il loro punto di riferimento, il perno della loro civiltà. E non ci faranno più del male, ma ci rispetteranno, – meglio ancora! – ci onoreranno. Nessuno oserà avvicinarsi a noi con cattive intenzioni, se saranno intimoriti dal nostro potere. Pensa alla tua sorellina, Albus! Pensa a come sarebbe stato, se non fosse mai impazzita, se tuo padre non fosse mai andato ad Azkaban, se le cose fossero andate diversamente. Se fossero finite, diversamente. Hai passato anni a nasconderti dalla verità, Albus. Pensi che non lo sappia? Ma io ti dico, Albus, che non ha importanza. Non sarai un uomo migliore – né uno peggiore – se scoprirai di aver decretato o meno la morte di Ariana. Sarai un uomo diverso, se adessoora che ne hai la possibilità – scegli, se sceglierai di seguirmi, di appoggiami, di schierarti dalla mia parte. Albus, guardami. Sono sempre io. Siamo ancora gli stessi ragazzi che sognavano di assoggettare il mondo, solo che in questo momento potremmo riuscirci davvero, perché ne abbiamo le capacità. Se non mi sceglierai, se mi volterai le spalle – come hai già fatto – te ne pentirai. Sarà il tuo più grande rimpianto. Gli uomini come noi non sono fatti per i rimpianti, lo sai.»
Aveva tenuto il capo chino mentre Gellert parlava, ma era riuscito comunque a cogliere i movimenti frenetici delle sue braccia, durante il discorso. Gellert non stava mai fermo, quando argomentava su una tematica in cui era coinvolto. Doveva assolutamente convincere della veridicità delle sue parole, doveva sempre dimostrare il suo amore per la causa – quell’amore che non riusciva a contenere, che lo assorbiva completamente, totalmente, integralmente. Quell’amore per il Bene Superiore che l’avrebbe spinto più in là di qualunque altro mago, che gli avrebbe permesso di raggiungere sempre i suoi obiettivi, che gli avrebbe sempre concesso la vittoria. Forse.
Poi, c’erano le sue parole. Se l’era sempre cavata più che egregiamente con le parole, capaci di affascinare chiunque, capaci di abbattere ogni resistenza, ma – a malincuore – era costretto ad ammettere che Gellert gli era infinitamente superiore. Forse per questo si era lasciato conquistare da lui, la prima persona che era disposto a considerare brillante tanto quanto sé. Peccato di superbia. Era sempre lo stesso.
Infine, c’era – ovviamente – il rimpianto. In fondo, Gellert l’aveva avvisato che si sarebbe pentito della sua scelta – qualunque fosse, avrebbe voluto aggiungere.
Sarebbe stato così facile, allungare la mano e afferrare il suo braccio teso, tornare il ragazzino di tanti anni prima – un tempo tagliato dal rimpianto. Allora non aveva idea di cosa fosse, il ‘vivere di rimpianti’, ma aveva imparato in fretta. Aveva fatto i bagagli e aveva offerto la sua esperienza, aveva trascorso ore con lo sguardo vacuo, fisso nel vuoto, con gli occhi appannati dalle lacrime (in fondo, anche i grandi uomini piangono). Non aveva però il diritto di piangere, lui che non era affatto un grand’uomo, ma il più misero e meschino di tutti, lui che stava davvero pensando di voltare le spalle a se stesso per seguire Gellert. Lui che quella volta non avrebbe peccato di superbia, ma di ignavia, lasciando che fosse Gellert a scegliere per lui (Gellert aveva sempre scelto per lui, ma non ci aveva mai fatto caso), lasciando che i suoi sentimenti lo trasportassero lontano dalla sua identità, dalla sua volontà, dalla figura che aveva costruito sui rimpianti –, rincorrere un sogno talmente vicino da sembrare realtà, credere in qualcosa – lui aveva smesso di credere in tutto (l’amore, forse, rappresentava l’ultima spiaggia di un’anima mutilata dai rimpianti) –, avere la possibilità di tornare a essere padrone del mondo.
Ariana.
Il rimpianto più grande di tutti, che lo teneva saldamente attaccato alla realtà – brutale, spietata realtà. Deliziosa, l’aveva definita una volta Gellert –, una realtà in cui avrebbe dovuto fermare l’oggetto di quel suo amore guasto, perché Gellert era il nemico, Gellert era distruzione, Gellert era morte – ma era convinto di essere lui, quello con la morte negli occhi. Gellert era la rappresentazione dell’Inferno, una rappresentazione pullulante di vita, malata di entusiasmo, di convinzioni, di energia. Gli faceva quasi credere che la morte potesse essere vita. Ma la morte era morte, e basta. Ariana era morta, e niente era più stato lo stesso –, e doveva essere abbattuto, come se fosse stata una bestia pericolosa – ma in fondo non era nient’altro che questo, una belva che aveva portato pericolo nella Comunità Magica, che aveva portato scompiglio (positivo? Negativo?) nella sua esistenza (misera, vuota, triste esistenza. Gellert gli aveva impedito di crollare, molto tempo prima. Questo non doveva dimenticarlo. Questo non poteva dimenticarlo. Gellert era la forza che l’aveva tenuto insieme, quando tutti i suoi sogni sembravano avvicinarsi pericolosamente al rimpianto. Gellert aveva posticipato il dolore, la sofferenza, l’ingiustizia di una vita da trascorrere in solitudine, con il rimpianto. Gellert l’aveva salvato, e non se n’era mai reso conto) –, ma non avrebbe mai avuto il coraggio d’ucciderlo. Non Gellert, che era sempre sembrato immortale, irraggiungibile, padrone indiscusso della morte e della vita.
E allora diventava più difficile scegliere Gellert, diventava difficile scegliere qualunque cosa, qualunque fazione, qualunque sentimento fra i tanti che provava, qualunque rimpianto tra i tanti che facevano parte della sua collezione. Era difficile, come tutta la sua vita. Come Gellert, come il suo amore per Gellert, come l’amore di Gellert per la morte.
E Gellert non rendeva niente più facile, mentre lo guardava con quel sorriso cinico che gli aveva sempre dato fastidio, il sorriso di chi sapeva di aver vinto anche prima di iniziare a combattere, chi sapeva di poter vincere anche senza combattere, anche senza muovere un muscolo, senza sforzarsi per nulla. Era quella maledetta influenza che aveva su di lui, quel suo poterlo convincere a fare qualcosa perché lui lo voleva, quel suo magnetismo carismatico che animava il suo esercito prima di ogni scontro. Era tutto quello che lo aveva spinto a scappare e nascondersi, dopo la morte di sua sorella, perché sapeva che non avrebbe smesso di seguire Gellert, se lui gliel’avesse chiesto, e si vergognava, si vergognava da morire – con Ariana, con Aberforth, con se stesso –, perché lui era debole, il più debole degli uomini. Gli uomini innamorati sono sempre deboli – quindi, Gellert non l’amava. Perché Gellert sembrava sempre indistruttibile, e l’indistruttibilità non fa parte delle caratteristiche degli uomini che amano. Gli uomini che amano sono deboli, e compiono sciocchezze. Lui non avrebbe dovuto commettere sciocchezze, ma sapeva (sapeva tutto, di quell’incontro, prima ancora di parteciparvi, e forse poteva iniziare a sorridere come Gellert, perché entrambi ne sarebbero usciti sconfitti, perché entrambi avrebbero perso qualcosa, perché entrambi avrebbero perso tutto, con ogni probabilità) che stava per compierne una.
«Sai che non ti seguirò.»
Sperava che almeno Gellert lo sapesse, perché non era più sicuro di nulla. Ah, com’era incoerente! Un attimo prima pensava che avrebbe fatto una sciocchezza, che l’avrebbe appoggiato, e quello dopo cercava di apparire sicuro di sé, mentre declinava l’offerta.
«È sbagliato. Stai commettendo un errore dopo l’altro, Gellert, e sei così cieco da non accorgertene. Alla fine ti pentirai di tutto questo, rimpiangerai di non aver fermato la tua mano, di fronte a questo scempio – (forse, avrebbero potuto collezionare insieme rimpianti, e sarebbero stati un po’ meno soli, e avrebbero avuto un po’ meno dolore sulle spalle, e avrebbero avuto un po’ più di luce nelle loro vite tutte buio e ombrosità) – allora, Gellert, allora sarà troppo tardi. Sarà troppo tardi quando ti pentirai di aver ucciso, troppo tardi quanto ti pentirai di aver marciato contro di me, quando ti pentirai di aver inseguito il Bene Superiore. Non ci sarà possibilità di redenzione, per te – (tutte le azioni hanno un costo. L’impossibilità di pronunciare i suoi peccati prevedeva la mancanza di assoluzione. Gellert era colpevole sotto ogni capo d’accusa. Ma il mondo che lo circondava era molto più colpevole di lui.) –; arrenditi, Gellert. Ripensaci. Chiedi scusa, prova a riparare alle tue mancanze e forse ci sarà ancora una possibilità, per te – (per noi, in un futuro non troppo lontano) –. Ti prego.»
E allora capì di aver perso, con la stessa sicurezza con cui sapeva che Gellert aveva vinto, anche se non completamente – in fondo quella era soltanto una patetica battaglia, combattuta senza altre armi che i rimpianti e le parole. Ma quelle parole li avevano feriti molto più delle maledizioni che avrebbero potuto lanciarsi, che si sarebbero lanciati contro, quando gli sarebbe toccato sfidarlo a duello, quando avrebbe dovuto batterlo, per quel pallido tentativo di salvarlo.
Gellert rideva, gioiosamente, allegramente, da quando aveva terminato quella ridicola arringa. Pensava stesse scherzando, e poco a poco cominciava anche lui a credere che non ci potesse essere nulla di concretizzabile nelle sue parole, che fosse tutto impossibile, incredibile, talmente lontano – non come il sogno che avevano accarezzato da giovani.
«Ah, Albus, la nudità della tua intelligenza…»
«Come?»
«La nudità della tua intelligenza, che ti fa vedere soltanto la linea dritta del bene, che ti impedisce di vedere le infinite vie che può attraversare, quel bene. Quello che io cerco di fare, Albus, non è sbagliato: è la cosa migliore. Per capirlo dovresti avere un’intelligenza ricca di fronzoli, rivestita dalle infinite idee dell’uomo. Tu non conosci davvero il male, Albus, ne conosci solo la facciata esterna, perché è un territorio da cui la tua intelligenza, retta, nuda, ti tiene alla larga. Non potrai mai davvero giudicare le mie azioni, ma tutto ha un prezzo, anche il bene. Le vite che mi sono lasciato alle spalle – la mano che non ho fermato – mi hanno permesso di arrivare fin qui. E tu – la tua nuda intelligenza – mi chiedi di arrendermi, dopo il sangue versato? Vuoi che quel sangue – e tutte quelle vite – siano sprecate? Mi deludi, Albus. Sei diverso da quel che ricordavo.»
Avrebbe voluto dirgli che no, non era diverso, ma sapeva che non era così: ci aveva rimuginato a lungo, sui loro cambiamenti, sulle maschere che portavano, sulle loro intelligenze – nude o barocche che fossero – su punti di vista che una volta erano stati tanto vicini e che adesso erano così lontani.
Non poteva però continuare vivere nel passato, in tutti quegli avverbi, in tutti quei modi verbali che gli ricordavano che non erano più nulla, se non litri di ricordi da imbottigliare, se non rimpianti da collezionare, da mettere su uno scaffale per lasciare che si impolverassero. Cos’erano allora? Cos’era rimasto di loro? Soltanto quello? Non erano più persone capaci di scambiarsi l’anima con uno sguardo, non sapevano più parlarsi senza dover aprir bocca. Erano estranei, corpi che non sapevano più riconoscersi, erano persone che condividevano un’esperienza dolorosa, che condividevano dei rimpianti, che avrebbero condiviso una sofferenza maggiore di lì a pochi giorni. Ore, forse.
E in quel momento rimpiangeva davvero la sua tranquilla cattedra a Hogwarts, la falsa sicurezza data da quelle mura storiche. Aveva paura, per la prima volta dopo tanto tempo – ancora passato, ancora ricordi, ancora rimpianti, ancora due anime incapaci di proclamarsi l’una specchio dell’altra – di potersi scottare molto più che in ogni altra occasione, molto più che per ogni altro rimpianto.
«Cambiamo tutti, Gellert. Il tempo ci cambia, il tempo cambia tutto quanto.»
«Quindi vorresti lasciarmi credere che sarai disposto a batterti con me, che potresti addirittura sconfiggermi, portarmi alla rovina, senza il minimo rimorso, il minimo rimpianto

***
 
A volte credeva che fosse Gellert, il suo più grande rimpianto. A volte credeva che fossero quelle iridi verdi – così simili, eppure diverse da quelle che aveva già visto, da quelle che avrebbe visto – in cui aveva visto per la prima volta la morte (la sua morte, perché Gellert, anche da sconfitto, riusciva a sembrava immortale, anche dopo aver perso il simbolo del suo potere, continuava a essere il padrone indiscusso di ogni battito vitale) – a volte pensava che il più grande rimpianto fosse racchiuso in quella selva oscura, in un dialogo durato poco più di un’ora. A volte era la speranza di redimerlo, il suo più grande rimpianto. Era sempre stato superbo, ed era l’unica critica che Gellert gli avesse mai mosso contro, durante quei due mesi di sogni e follia. Hybris, come quella degli eroi greci che studiavano i Babbani, uomini di origine divina, a cui non era rimasto altro che un mucchietto di rimpianti e corpi morti sulle spalle. A volte il suo più grande rimpianto era non rimpiangere abbastanza la sua povera Ariana, di averle sottratto il trono di regina del rimpianto, a volte era averglielo permesso, di diventare regina di tutti i suoi rimpianti. A volte era l’esistenza che aveva sempre condotto, il suo più grande rimpianto. A volte si trattava di averne così tanti, di rimpianti.
A volte era la nudità della sua intelligenza, che gli aveva impedito di diventare esso stesso rimpianto, che gli aveva impedito di vedere il mondo con gli occhi pieni di vita di Gellert, che lo aveva salvato – proprio come Gellert, e non l’aveva mai dimenticato, e non riusciva a dimenticarlo, quello che aveva letto nei suoi occhi un attimo prima che riuscisse a disarmarlo, dopo aver sputato sangue, dopo aver toccato con le proprie mani la morte (desiderare di possederla per un periodo così lungo poi lasciarsela scivolare dalle mani), dopo aver preparato un piccolo spazio (d’onore) per quel rimpianto lì. Non riusciva a dimenticarlo, non avrebbe mai potuto farlo, a meno che non avesse voluto impazzire, farla finita lì, dopo che quello che era stato il suo più grande rimpianto (Ariana che era sempre lì, nella sua testa, con gli occhi dolci di una bambina di cinque anni, e poi gli occhi folli e terrorizzati di una bambina cresciuta troppo in fretta, destinata a non crescere mai), era stato rimpiazzato da ciò che gli aveva letto negli occhi (e nell’anima, nel corpo, in ogni suo gesto dal momento in cui si era rialzato e le guardie di Nurmendrang gli erano piombate addosso, feroci, terribili e inevitabili come la notte), ciò che aveva cercato di dirgli (anche se erano estranei, anche se erano due corpi incapaci di riconoscersi, anche se non riuscivano più a comunicare senza parlare, perché Gellert sapeva che avrebbe capito lo stesso, perché si conoscono meglio le persone che si amano).
L’ultima parola che gli aveva sussurrato, all’alba di un giorno in cui entrambi erano un po’ morti, un po’ a metà, un po’ distrutti da se stessi, dall’altro e dalle circostanze, l’ultima parola che gli aveva regalato era stata rimpianto.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice:
eccoci finalmente alla fine di questa storia. Ammetto che è completamente diversa da quello che c’era nella mia testa, ma nel passaggio da cervello a tastiera ho perso un paio di passaggi e questo è quello che ne è uscito fuori. Anche se mi piace davvero tanto, devo ammetterlo.
Ho usato l’idea del rimpianto un po’ come prompt, per tutta la durata della storia. Una parola che sono riuscita a ficcare un po’ ovunque, quindi non preoccuparti se la vedi spuntare come funghi nei momenti più strani.

(dolce e affabile Inghilterra) citazione presa dal film: “Caccia al ladro”, di Alfred Hitckock (uno dei miei preferiti!), e la versione originale faceva: “Questa dolce e affabile Francia”, ma per ovvi motivi di trama, ciao ciao Francia e benvenuta Inghilterra.
Tutta la storia degli occhi verdi
(e un giorno avrebbe rinchiuso i rimpianti in fialette e li avrebbe mostrati a un altro ragazzo con gli occhi verdi, per fermare un uomo che un tempo li aveva avuti, gli occhi verdi, ma questo Albus ancora non lo sa) è un palese riferimento a Harry Potter e Tom Riddle (non so davvero se Tom abbia avuto gli occhi, un tempo, e se c’è scritto da qualche parte l’ho rimosso, comunque per esigenze di trama avevo bisogno di tanti tizi importanti per Albus con gli occhi verdi, e loro si prestavano meravigliosamente alla parte.
La storia della morte, invece
(Ed era vero: quando aveva visto la morte incisa sui tronchi di quegli alberi) è metaforica (in parte: a volte si riferisce davvero alla morte, altre semplicemente ai Doni, ma era un’allegoria che mi piaceva così tanto che non ho saputo resistere all’idea di metterla), anche il fatto che Gellert gli abbia regalato la morte, è metaforico, perché in parte fa riferimento ad Ariana, in parte all’idea della morte in sé, di uccidere per il Bene Superiore, in parte, ancora, ai Doni.
Per quel che riguarda la cit., tutta la storia dell’intelligenza nuda… non so se si possa interpretare in più modi, ma secondo me ci stava bene, in quel frangente, con quel significato. Io la conosco a memoria, la canzone da cui è tratta (qui, per chi volesse sentirla), e sono sicura che i Subsonica non  si riferissero proprio a questo, ma vabbè, sono sempre stata per la libera interpretazione.
La parte finale è un po’ confusionale, e credo che sia perché mi sono persa in un labirinto di parole, prima di arrivare al dunque, ma giustificarmi dicendo che Albus sarebbe dovuto essere molto scosso e confuso, alla fine del duello.
La suddetta selva ‘oscura’, è la Foresta Nera, nella Germania del sud, dove nasce il fiume Reno (in fatto, il primo titolo sarebbe dovuto essere ‘Sulle rive del Reno’, poi scartato perché decisamente patetico).
Poi ci sono un sacco di cose che non mi ricordo, altre che non saprei spiegare, altre che non hanno bisogno di spiegazione, ma se non fosse chiaro, io sono qui apposta!

 
  
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