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Autore: Melian    28/10/2014    3 recensioni
"Sono passati quattrocento anni da che sono morto: era una calda notte di primavera e le stelle splendevano come gioielli sulla chioma di una dea.", scrive Alphonse di Benavia in una lunga e appassionata lettera che giungerą tra le mani della sua amata Alexandra. Nella notte tra il 30 e il 31 ottobre del 1806, Alphonse rievoca i lunghi anni della sua esistenza e svela la sua vita mortale, i suoi lunghi viaggi e il suo pił oscuro segreto: il patto che lo lega a Nuberus, un misterioso Demone che si nutre di anime umane.
[Prima classificata e vincitrice dei premi "Velo di tenebra" e "Virtł dall'aldilą" al contest: "Tales of after shadow" di Geah.Nee]
[Prima classificata al contest: "Concedimi di essere schietto" di PadellaBarella e giudicato da ladyriddle]
[Prima classificata al contest: "L'amore che move il sole e l'altre stelle" di ScarlettBrooks]
[Seconda classificata al contest "Romance in pain" di LoveSomebody]
[Vincitrice dei premi "Miglior mini-long" e "Best plot" al contest "Tragic and Epica Love" di Jo_gio17]
[Seconda classificata al: "Let's talk about a Beatle. Let's talk about...The Cute One!" di DakotaDeveraux]
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo di Tenebra'
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CAPITOLO 1 – ECCE HOMO

 

 

"Non è necessario credere in una fonte soprannaturale del male; gli uomini da soli sono perfettamente capaci di qualsiasi malvagità."
(Joseph Conrad)



 

 

 

30 Ottobre dell'Anno del Signore 1806

 

Mia dolce Alexandra,

 

avrei voluto potuto salutare, baciare le tue labbra rosse, sfiorare in punta di dita le tue palpebre chiuse nel sonno e dirti quanto è grande il mio amore per te, se di amore un uomo come me è davvero capace.
Ogni volta che pronuncio il tuo nome, immagino il tuo collo sottile, gli zigomi delicati e le tue folte ciglia bionde, i tuoi languidi occhi verdi: tra i nodi dei miei pensieri, ti porto sempre con me.
Eppure, se fossi davvero tornato a baciare le tue guance morbide, non avrei mai più potuto rinunciare a te, non sarei più potuto andare via. Allora, mia splendida creatura, perdonami se puoi. Perdona questo addio fatto di carta e inchiostro.
Come sarebbe stato difficile, se non impossibile, lasciarti prima del sorgere del sole!
Ti lascio con la certezza di saperti al sicuro e libera, padrona di te stessa e del castello: è tuo, come parte della mia eredità. È pieno dei miei ricordi, delle mie speranze, dei miei segreti: forse, quando avrai esplorato ogni angolo e scoperto ogni pietra segreta, potrai comprendere davvero ciò che i miei lunghi anni hanno significato all'interno delle sue mura e come tu abbia cambiato la mia sorte.
So di averti salvata e ciò, spero, renda la mia anima meno nera.
Hai pregato così a lungo per me, mia cara, ricordi? Magari quelle preghiere risuonano ancora nella navata della chiesa, anche se – temo – adesso dovrai abituarti a fare a meno dei salmi e del rosario, della messa scandita in latino in una continua e sommessa litania. Non ha più bisogno delle preghiere: ti ho affrancato anche dalla volontà di Dio e ora crescerai in potenza giorno dopo giorno. Così, in te, io rivivrò.
Adesso, signora del castello e della città che dorme alla sua ombra, capirai presto cosa significano queste mie parole, quali porte ti sono state spalancate, quali banchetti ti sono stati approntati.
Non odiarmi, Alexandra, per averti resa ciò che sei, come la bella Selene dei poemi greci su cui fantasticavi. Adesso sei sorta come la più splendida luna e io vorrei contemplarti per sempre, anche se è un lusso che non mi è concesso.
Mi auguro che, col tempo, potrai perdonare le mie bugie e i miei silenzi e apprezzare davvero i doni che ti ho lasciato. La tua bellezza, nei miei ricordi, non sfiorirà mai, invitta come la primavera. In te ho trasfuso tutto ciò che ho imparato, ogni potere e ogni lezione che il tempo mi ha concesso di apprendere: l'amore che solo un artista può avere per le sue opere mi spinge ad assicurarti che sei il mio vero e unico capolavoro.
Alexandra, mia adorata, non sono l'uomo che credevi io fossi.
Adesso, ti racconterò ogni cosa, poiché meriti di conoscere la verità.


Sono passati quattrocento anni da che sono morto: era una calda notte di primavera e le stelle splendevano come gioielli sulla chioma di una dea.
Ricordo perfettamente il volo di miriadi di lucciole nei campi colmi di papaveri rossi e il frinire sommesso dei grilli nei giardini della residenza estiva della mia famiglia, i Duchi di Benavia.
Era la notte del mio ventottesimo genetliaco e si faceva festa. Avevo dato un ballo in maschera e ne andavo orgoglioso, perché era il genere di festini molto ambiti tra i rampolli dell'aristocrazia piuttosto dissoluta e annoiata di quel tempo.
Stavo affacciato sulla terrazza con aria assorta, vestito solo con un paio di calzoni di pelle nera, mentre la brezza tiepida mi sfiorava, donandomi una piacevole sensazione di refrigerio e agitando i miei capelli castani, che portavo lunghi e mossi come tutt'ora.
Avevo lasciato dietro di me l'enorme salone e i miriadi di candelabri, le meravigliose donne mascherate vestite solo dei loro gioielli tra le braccia di uomini focosi e senza scrupoli: il groviglio di corpi in cui erano ammucchiati era un delirio istintivo e gutturale. Mi piaceva sentire i sommessi ansimi e le roche risate di quell'orgia sfrenata a cui anche io avevo preso parte poco prima.
In mezzo a quel consesso di peccatori, c'erano creature che la mente umana non avrebbe mai potuto concepire e che la Chiesa avrebbe perseguitato come all'epoca dell'Inquisizione.
Era il modo di vivere che avevo scelto fin da quando ero entrato nell'adolescenza: mi ero addentrato in un mondo fatto di peccato e di feroce dissolutezza con la leggerezza talentuosa che un musicista usa per suonare il violino. Ne ero assuefatto e adoravo scendere, gradino dopo gradino, la ripida scala che porta alla perdizione.
Il mio precettore se n'era accorto da tempo e probabilmente Berengario era stato l'unico ad aver intuito la portata dei miei pensieri più oscuri, la fosca passione che mi aveva sempre animato, e ne soffriva come potrebbe soffrire un uomo di Chiesa che ha sempre fatto degli stenti, delle privazioni e delle mortificazioni corporali il suo credo, l'ancora a cui aggrapparsi. Lo vedevo torcersi le mani quando rientravo al castello dopo giorni di assenza, sentivo il suo sguardo apprensivo sfiorarmi con insistenza e interrogarmi, sondarmi in silenzio, chiedendomi dov'è che andassi, cosa facessi e con quali uomini trascorressi il mio tempo.
Ero la sua persecuzione, povero Berengario!
Eppure, devo ammettere che mi divertiva enormemente tormentarlo con domande a cui lui non sapeva cosa rispondere e lo lasciavano spiazzato e tremante. Quel frate era un uomo lacerato, diviso tra la dottrina inculcatagli in anni e anni nel monastero, e il mondo che gli offrivo in rapidi scorci durante i nostri incontri.
Una volta mi aveva fermato poco fuori dalle stalle, mentre conducevo per le briglie il mio stallone preferito e stavo per tornare nella residenza di campagna. Ero vestito elegantemente, impeccabile e pronto per un appuntamento galante.
Berengario cercò di trattenermi: «Alphonse, parti ancora? Dovresti restare, a tua madre farà piacere: è la vigili di Ognissanti.»

«A mia madre o a te, maestro caro?» gli risposi con un sorriso beffardo.
Il frate mi guardò come se lo avessi brutalmente ferito e sospirò, posandomi una mano sulla spalla e parlandomi a voce più bassa, come se avesse paura di evocare chissà quali presagi: «Non lo sai quello che si dice di te, in giro? Non ascolti ciò di cui ti accusano?» mi chiese e, al mio sguardo noncurante, riprese con più veemenza: «Dicono che sei la rovina delle donne, che le seduci e poi le abbandoni senza più curarti di loro, come fossero miseri fiori recisi e secchi. Si vocifera che ti stordisci con l'oppio e giochi d'azzardo, bevendo fino a che non ti reggi in piedi. Parlano di enormi debiti contratti con leggerezza e di uomini che tu avresti fatto sfregiare da delinquenti dei bassifondi. Ti chiamano mostro, dicono che sei hai fatto il patto col demonio perché la tua bellezza non venga mai guastata dall'onta dei peccati che commetti. Non andare, Alphonse! Resta qui, vieni con me nella cappella e preghiamo per la tua anima.»
Mi divincolai e lo guardai con una ferocia che avrei potuto riservare solo al mio peggior nemico. Lo fissai e lui, sono certo, si sentì incenerire, tanto che si rattrappì e si passò una mano sulla faccia, scuotendo il capo e balbettando qualche scusa: «No, Alphonse, io non ci credo. Non vedo i segni dell'oppio nei tuoi occhi e so che la tua anima, in fondo, è pura. Sei un bravo ragazzo. Ma mi sfuggi tra le mani, ormai, e io sento che non posso permetterlo.»
Lo guardai con una compassione che aveva il preciso scopo di essere malevola e offensiva, di ferirlo ancor più crudelmente. Lo scostai e montai a cavallo, fissando il frate dall'alto della mia cavalcatura con aria annoiata.
«Maestro mio, tu credi perfettamente alle voci che circolano e ti danni l'anima per questo. E lo sai, in fondo, che non ti sono mai appartenuto, che il mondo in cui vorresti farmi vivere non ha nulla a che vedere con quello che è realmente il mio. Hai paura di me, Berengario, ma forse hai ancor più paura di te stesso e di quello che desideri.»
Feci una pausa per osservare i cambiamenti sul volto segnato dall'ansia e dalle rughe dell'uomo vestito del saio ruvido e marrone, dei suoi sandali impolverati e con la chierica ad ornargli il capo. «Tu che hai trascorso tutta la tua vita a rincorrere la volontà di Dio e nella rinuncia, nella speranza della salvezza eterna e di una santità che gli uomini di questo tempo non possono anelare, non hai vissuto davvero un solo giorno dei tuoi quarant'anni! La mia giovinezza ti suscita rimorsi e persino invidie e infiniti rimpianti. Quello che dovrebbe fare ammenda per le proprie azioni sei proprio tu!»
Lo lasciai con quelle parole ardenti di una passione che mi consumava senza posa, diedi di piglio ai fianchi del cavallo e attraversai i cortili del castello, mentre il sole tramontava e spandeva sulle mie spalle un barbaglio sanguigno.
Mio padre, Henry Eugèn di Benavia, desiderava che prendessi la signoria del casato e portassi avanti gli affari di famiglia, che mi sposassi con una ragazza adatta al mio rango e gli dessi dei nipoti. Voleva, insomma, vedermi finalmente essere l'uomo che aveva sempre voluto.
Tuttavia, pagava i debiti che seminavo nelle bische clandestine o nelle botteghe dove compravo oggetti tanto costosi quanto inutili. Perdonava la mia intraprendenza con le giovani serve e faceva in modo di nascondere i figli illegittimi che mi lasciavo alle spalle nei villaggi, quando circuivo le giovani e illibate figlie dei fattori. Metteva a tacere le voci che additavano quegli infanti dagli occhi azzurri come i miei con cospicui lasciti monetari e insabbiava le relazioni clandestine con le figlie dei nobili.
A dire il vero, mio padre mi perdonava tutto, ma solo perché era molto più interessato a preservare il buon nome di famiglia e le apparenze del casato dei Benavia che a lasciarmi sguazzare negli scandali.
Berengario, il mio precettore, intuiva che, oltre le donne, c'era molto altro. Si convinse, probabilmente, che il Demonio mi avesse corrotto l'anima e che giacessi con le creature più blasfeme che fossero mai apparse sulla terra. A dire il vero, il frate non andava poi troppo lontano con la fantasia: certo, nessun Demone dell'Inferno si era impossessato della mia anima, ma le mie amicizie erano oscure, molto più dubbie di quanto per un gentiluomo fosse lecito.
Si tormentava per la metodica freddezza con cui infrangevo ogni singolo precetto religioso che da bambino mi aveva impartito. A dire il vero, provavo una singolare gioia perversa nello studiarli con minuzia per poi distorcerli, beffarli e trasgredirli.
Credo che il massimo orrore lo provò quando, una sera, mi seguì in una vecchia casa nei sobborghi. Affacciato da una finestra, scorse lo spettacolo che avevo approntato nella stanza ricoperta di velluti rossi: sul lungo tavolo di legno avevo legato, come crocefissa, e fustigata fino a che la pelle delle sue cosce tornite e dei seni si era prima arrossata e poi coperta di sangue, una delle mie amanti – una focosa baronessa a cui il vecchio marito bavoso suscitava solo ribrezzo e che tradiva regolarmente.
Poco più in là, stava un'altra donna sospesa a mezz'aria da un intricato gioco di corde spesse che ogni tanto, negli intervalli in cui la mia frusta taceva, tiravo con mano sapiente, provocando la contrazione di tutta la tela di legacci e nodi contro quel corpo gemente e accaldato.
Trovai Berengario il mattino dopo, accucciato sotto il davanzale, in lacrime e con il rosario di legno sgranato tra le dita tremanti. Risi di lui, risi della sua apprensione e di quella miseria che gli vedevo scolpita addosso, di quella fame di vita che lo divorava e non ammetteva, del suo attaccamento a Dio e alla sua dottrina come viatico di salvezza che, però, non lo salvavano affatto da quella intima tortura.
«Perché, figliolo perché? Non fare questo alla tua anima, abbandona il vizio e la perversione finché sei tempo!» mi pregò mentre lo rimettevo in piedi con uno strattone e un sorriso irridente «Scegliti una brava ragazza e sposala davanti a Dio e alla Chiesa, e abbandona ogni cattivo spirito che guasta la tua luce!»
«Luce? Maestro, non c'è alcuna luce in me. Non vedi?» gli risposi, indicandogli l'edera che si arrampicava lungo il muro della casa smangiata dagli insetti «In ogni cosa v'è ombra, in ogni cosa v'è macchia, nulla è davvero puro e nulla può davvero anelare ad esserlo troppo a lungo. Ci corrompiamo appena veniamo al mondo. E tu ti ostini a non capire che a Dio non importa nulla di quanto gli uomini striscino come lombrichi nella loro stessa sozzura.»


La notte in cui sono morto, comunque, Berengario c'era.
Mi aveva ancora seguito e io lo sapevo, sapevo che dietro la porta socchiusa osservava le donne discinte dai volti coperti da maschere di pizzo nero che, sui divani, stavano con le cosce schiuse lasciando che gli uomini leccassero il loro ventre come una torma di cani rabbiosi e affamati, per poi affondare il volto contro la peluria del loro sesso e far vagare la lingua tra le pieghe delle carni umide.
Sapevo perfettamente che Berengario osservava i corpi intrecciati sui tappeti, mentre l'odore della pelle si mescolava a quello degli umori e i gemiti sommessi saturavano l'aria, una nenia capace di strappare brividi di godimento.
Immaginavo la sua faccia paonazza mentre realizzava il desiderio di essere lì a godere degli stessi inconfessabili piaceri, la mobilità del suo sguardo febbrile mentre, repentino, saltava da un punto all'alto della stanza, attratto dal guizzo di uno scudiscio che colpiva un paio di natiche tonde e sode, o uomini tenuti al guinzaglio che gattonavano dietro a donne estrose con l'attitudine al comando.
Mi dava un intimo compiacimento pensare che sudasse e tramasse mentre spiava da quello spiraglio le donne che legavo con la seta o i seni schiacciati tra le mie dita, mentre le possedevo con la foga di appetiti mai esauriti.
Il mio ego senza ritegno era titillato dall'idea che lui scorgesse i fumi dell'oppio che salivano in larghe spirali fino ai soffitti, impregnando la tappezzeria, e in cui danzavano figure eteree, creature senza tempo e senza nome che mescevano il sangue appena spillato dai corpi appesi al soffitto a testa in giù, coperti di miriadi di ferite e segni brutali di morsi.
Il sangue, la libagione perfetta, scorreva a fiumi e i Vampiri che governavano quel consesso e quelle gozzoviglie sfogavano la loro atavica Sete con prede che si gettavano tra le loro braccia consapevolmente e con gioia, anelando al mondo ovattato del Bacio Oscuro.
Quella notte decisi per Berengario. Spalancai la porta e mi presentai alla sua vista nudo come una statua greca e, altezzoso come un dio pagano – un novello Dioniso tra le sfrenate Menadi – e gli sorrisi sfacciato. Lo trascinai tra i miei amici che, ridendo, si raccontavano storie frivole, imboccandosi l'un con l'altro di cibi squisiti raccolti con le dita.

Gli mostrai ogni perversione e lo spinsi a gettare da parte la tonaca e il rosario, ogni remora e vergogna. Gli mostrai la bellezza unica e inafferrabile dei peccati più turpi, la magia che si compie quando la bocca di una donna ti si posa addosso e la sensazione inebriante di potere quando potresti strangolare qualcuno o reciderne la vita con la sottile lama di un coltello.
Gli insegnai la filosofia del dolore.


Tra tutte quelle splendide creature che cavalcavano l'onda dei peccati più torbidi, Violate era la più splendida. Aveva i capelli scuri come l'ebano e i suoi occhi, di un inconsueto grigio, erano acuti e penetranti: sembravano brillare come l'argento fuso, colmi di una malizia antica e di una inesplicabile malinconia. Violate possedeva il fascino e il carisma delle creature volitive e apparentemente fragili, la saggezza di chi molto ha visto e tutto ha provato.
A quel tempo, Alexandra, io l'amavo: l'amavo come si amano certe cose oscure, segretamente, tra l'ombra e l'anima.
Ora che ci ripenso, comunque, la differenza abissale tra te e lei è molto più chiara alla mia vista di quanto lo sia mai stata.
Tu sei stata la mia salvezza, il mio vero, grande e unico amore, simile al barbagliare dei primi raggi di sole sul mare increspato.
Violate, invece, era la travolgente ossessione della mia giovinezza e fu la causa della mia morte e della mia rinascita, il canto dolente di un'allodola. Si aggirava come una regina, vestita del bianco immacolato delle vergini, sul delirio di corpi umani affannati in amplessi travolgenti e con un sorriso indulgente dedicato ai giovani Vampiri che si ingozzavano senza posa.
Mi raggiunse sulla terrazza mentre le stelle sbocciavano nel cielo. Mi fu accanto in un sommesso fruscio di stoffe pregiate, nel silenzio che su di lei acquisiva un corpo nuovo, significati profondi e una voce mai udita. Mi sorrise, inclinando il capo di lato vezzosamente e poi, in un attimo, il suo viso divenne una maschera di furia e passione.
Mi colse alla sprovvista, non ebbi tempo di formulare un pensiero intellegibile: mi agguantò e mi morse; avvertii i suoi denti lacerarmi il collo dopo una lunga pressione che irradiava dolore lungo ogni nervo del mio corpo. Avevo provato altre volte quella sensazione e sapevo che sempre – sempre – vi sarebbe seguito il piacere.
Tuttavia quella volta fu diverso: Violate oltrepassò il confine sottile tra vita e morte e prese per sé molto più sangue di quanto avesse mai fatto. E io lo sentivo fluire, il sangue, da me a lei: un torrente in piena, ferruginoso e bollente.
Scivolavo giù, sempre più giù, cullato dallo sciabordio della linfa nelle mie vene, in una dimensione sconosciuta fatta di immense luci – come se le stelle si fossero riunite in grappoli danzanti davanti ai miei occhi appannati – e di abissi spropositati. Cadevo in quella labile dimensione che sta tra la coscienza e lo svenimento, mentre il sangue mi abbandonava e le membra si intorpidivano. Non potevo muovermi e cercavo disperatamente di respirare, di aggrapparmi a quello scampolo di vita che mi restava, al battito debole e asincrono del mio cuore ostinato che lottava senza posa.
Violate mi accompagnò sul pavimento, rimase china su di me e mi cinse con le sue braccia sottili, eppure capaci di immensa forza. Potevo sentire il lieve solleticare delle sue labbra che si chiudevano contro la ferita sulla mia gola: quella sensazione mi faceva fremere, preda di un orgasmo esplosivo.
Sopra di me, il cielo era sfocato e il ronzio insistente che avvertivo nelle orecchie era un suono spaventoso e totalizzante.
Fu la voce di Violate a farsi strada nella nebbia della mia mente: «Stai morendo, Alphonse. Ma non ti lascerò scivolare via: ti darò il mio Sangue, come ti avevo promesso. Dovrai continuare a lottare fino a che tutto sia compiuto. Dovrai volerlo, credere che vivrai. Bevi e sorgi!» mi ordinò e premette il suo polso ferito contro le mie labbra arse.
Credetti di non farcela, di affogare mentre mandavo giù i primi sorsi di quella bevanda squisita, un'ambrosia che avevo assaggiato mille volte prima di quel momento ma che, adesso, rappresentava la mia unica chance. Il mio corpo gridava la sua sete, il desiderio di vivere, di lottare: mi attaccai al suo polso come un infante che sugge il latte. Bevvi fino a che lei stessa mi sottrasse quella fonte di potere con un ringhio sommesso e provato, leccandosi la ferita che si rimarginava a vista d'occhio, mentre io – invano – ne pretendevo ancora.
Preda dei dolori più lancinanti, conobbi, in quei terribili istanti, la morte: tutto ciò che ancora di umano c'era nel mio corpo defluì via in una pozza vischiosa. Di colpo, la sofferenza cessò e, con essa, anche il mio cuore smise di battere.
Eppure il sangue di Violate si diffondeva in ogni fibra, in ogni capillare come una matassa di voraci serpi; si annidò ovunque, rimodellò ogni scampolo di carne: rinacqui.
E quando spalancai i miei occhi di Vampiro, vidi il mondo come mai prima di allora: i colori, le forme, le ombre e la prospettiva, tutto era nuovo, vibrante e brillante.
Violate non era mai stata così bella, una Vampira che sembrava risplendere di un potere tracimante come un gioiello incastonato nella notte.
Mi incantai ad osservare i fiori e i minuscoli insetti che strisciavano tra le foglie che non avevo mai notato prima di allora. Mi persi ad osservare la luna che, simile ad un occhio, troneggiava su di noi.
Berengario mi vide e capì. Pianse. Lo uccisi. Fu la mia prima vittima e bevvi la sua vita come primo tributo a ciò che ero diventato, strappandogli una pezzo di carne grondante dal collo come una belva senza controllo.
Eppure, ricordo che il mio maestro si abbandonò a me come non aveva mai fatto prima: capii che non avrebbe potuto desiderare di vivere ancora, non dopo quella notte passata nella dissolutezza, né poteva accettare di avermi davvero perduto per sempre.

   
 
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