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Autore: GretaHorses    28/10/2014    8 recensioni
""Leon ascoltami: non ho detto che devi amare me, devi amare lui!". Indicai tremante il mio ventre. No Vilu, non piangere. Non in quel momento, non davanti a lui. "Non sarei di troppo?". Assunse un'espressione sarcastica e ridacchiò. "Ma cosa stai dicendo? Lui ha bisogno di te". "Ce la può fare benissimo senza di me, un padre ce l'ha già!". Mi urlò contro con una rabbia tale che quasi mi fece paura. "Hai ragione, lui non ha bisogno di te. Diego mi è stato vicino in tutti questi mesi e di certo lo ama più di te che non ci sei mai stato. Amare per te è un optional, giusto? E' sempre stato così, non capirai mai". Decisi di andarmene e mi voltai, non volevo più sentire un'altra parola uscire dalla sua bocca. Erano passati quasi due anni dal nostro ultimo addio, quattro mesi da quella maledetta sera. Ma se non me ne doveva importare più nulla, perché faceva così male?".
Questo è il sequel di "Indovina perché ti odio", vi consiglio di leggere la fanfiction precedente se non l'avete ancora fatto.
Enjoy.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leon, Un po' tutti, Violetta
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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CAPITOLO 8

 

 

 

Apro gli occhi lentamente, un raggio di luce mi abbaglia il viso. Strizzo le palpebre, sbadiglio e mi stiracchio. Mi sento strana, quindi abbasso lo sguardo e noto il suo braccio avvolto attorno al mio ventre ed arrossisco. Il suo corpo è poggiato contro la mia schiena, il suo volto infossato nei miei capelli, il suo respiro nel mio collo. Mi sfugge un sorriso e, timidamente, allungo la mano quasi tremante verso la sua. Lentamente la poso e la faccio aderire, al contatto emette un sospiro beato sebbene sia immerso nel mondo dei sogni. E' sempre stato un coccolone anche se è restio ad ammetterlo. Ricordo ancora quando guardavamo la televisione a casa sua e si distendeva nel divano poggiando la testa sulle mie gambe, poi pretendeva che gli accarezzassi i capelli e finiva ogni volta con lui che ronfava mentre continuavo a vedere il film da sola. D'inverno aveva sempre freddo e ti credo, dormiva in mutande o anche senza! Dovevo ogni volta aggrapparmi come un koala alla sua schiena perché altrimenti lui 'non riusciva a conciliare il sonno'. Al risveglio, inoltre, le solite carezze sul capo erano più che gradite e se me le dimenticavo lo capivo appena ci alzavamo dal letto dal suo atteggiamento indisponente ed acido. Mi manca tutto questo. Anche quando mi rispondeva male in autobus solo perché non aveva chiuso occhio la notte, quando assaggiava cos'avevo nel piatto senza il mio permesso, quando si lamentava ogni due per tre e cercava disperatamente scuse per fare pausa mentre facevamo i compiti. Eravamo incasinati, battibeccavamo ogni giorno per cazzate, ma eravamo felici. O meglio, io lo ero. Un verso gutturale, riapro gli occhi che, senza rendermene conto, ho richiuso. Si sta muovendo lentamente, è in procinto di svegliarsi. Lo conosco bene: verso, movimenti e poi spalanca le palpebre di scatto, mai gradualmente come faccio io ad esempio. Sento il suo corpo irrigidirsi improvvisamente, ecco: ora è sveglio. “Ma cosa...”, sussurra. Alzo lo sguardo ed incrocio i suoi occhi ancora assonnati, ha il collo allungato sopra di me. “Buongiorno”, dico mentre mi osserva come se avesse visto un fantasma. “Oh, buongiorno...”. Aggrotto la fronte, è una situazione alquanto strana e disagevole: io poggiata su un fianco, lui proteso verso me che mi scruta come se avessi del vomito spiaccicato in faccia. “Che hai da guardare?”. Rapidamente scompare dal mio campo visivo e si stacca dal mio corpo. “Sei sveglia da tanto?”. “Bah, cinque minuti”, rispondo senza nemmeno girarmi. “Oh, allora scusami”. “E di cosa?”. Mi metto seduta passandomi le mani nel viso. “Se mi sono avvinghiato, stanotte avevo...”. “...freddo, lo so”, concludo la frase prima che possa farlo. Mi volto verso di lui, è steso con le coperte che gli lasciano scoperta la parte superiore del busto. Abbozza un sorriso e lo fisso ricambiando imbarazzata, se non fosse per il pancione mi sembrerebbe di essere tornata a due anni e mezzo fa. L'occhio cade sulla clavicola destra, solo adesso noto che ha un tatuaggio che ricordo non avesse. E' una scritta in corsivo, con molte grazie e designa una frase. “Nessuno si salva da solo”, leggo ad alta voce. “Quando l'hai fatto?”. Si mette pure lui a sedere e si gratta la nuca. “Qualche mese fa”. “Perché?”, chiedo curiosa. “Perché mi andava”. “No, intendevo dire: perché questa frase?”. “Perché mi piaceva”, risponde dopo un po' di secondi scrollando le spalle. “Ah”. “Già”. Abbasso la testa. “Comunque grazie per stanotte”. La mia voce è talmente flebile da sembrare un soffio d'aria. “Ehm...di niente, tranquilla”. Avverto le molle del materasso scricchiolare, significa che si è messo in piedi. Lo guardo cercando di non farmi notare, si sta dirigendo verso la sedia dove sono riposti i vestiti. Improvvisamente suona un cellulare, dalla suoneria deduco sia il suo. Rovista fra la tasca dei suoi pantaloni e lo estrae, fissa lo schermo titubante per poi rispondere. “Hey”. La sua espressione pare quasi scocciata. “Sì, lo so”. Annuisce e lo frappone fra il collo e la spalla mentre s'infila i jeans. “Certo...no, magari per le sette”. Si alza la zip ed allaccia la cintura. “Ho da fare”. Riprende il telefono con la mano. “Le solite cose”. Rotea gli occhi. “No, ma ti pare?”. Allunga il braccio per afferrare la camicia, ma subito lo ritrae. “Il punto è che sai già cosa ne penso”. Annuisce. “E va bene, dai”. Tamburella le dita sullo schienale. “Davvero? Me lo mostrerai”. Ora sorride, chissà con chi sta parlando. “Ma va là, ti andrà bene di sicuro!”. Ridacchia, la voglia di scoprire chi è in linea è tanta. Anche perché nella mia mente c'è solo un nome: Raquel. Mi sembrava tutto troppo perfetto, questo è il classico scivolone che mi fa ritornare alla realtà. “Okay, allora a stasera. Ciao, scema”. Riattacca e lo posa sopra il comodino, poi ritorna dov'era per indossare la camicia silenziosamente. Era lei. Sicuro che era lei. “Chi era?”, faccio la finta tonta. “Ah, era Kel”. Lo sapevo. “E che voleva?”. Inizia ad abbottonarsela, fa le spallucce con fare indifferente. “Cose”. Inarco un sopracciglio, ma che razza di risposta è? Detesto quando svia i discorsi a suo piacimento. “Che vuol dire?”. Sbuffa mentre si sistema il colletto. “Perché insistere tanto? T'interessa in qualche modo?”. “No!”, sbotto rapidamente con gli occhi sgranati. “Cioè, volevo dire...pff, figurati”. Apre la porta del bagnetto lasciandola aperta, lo intravedo mentre si dà un'aggiustatina di fronte allo specchio. Passano gli anni, i giorni, i mesi, ma il culto di sé stesso non passa mai. “Vieni a fare colazione in autogrill?”, domanda con la sguardo fisso nel suo riflesso. Scrollo le coperte di dosso e mi metto le scarpe, ecco uno dei grandi vantaggi del dormire vestiti. “Ovvio, ti ricordo che devo mangiare per due”. “Come se non lo facessi anche prima”, commenta di rimando. Spalanco la bocca stupita, questo è un vero e proprio affronto che merita un responso degno del mio sarcasmo. “Certo, perché sono io quella che ha mangiato tre BigMac, due frozen yoghurt con gli Smarties ed altrettante porzioni di patatine in neanche mezz'ora”. “Quel giorno avevo fame!”. “Fame? Questo è essere una discarica, non avere fame!”. Mi metto in piedi e passo i palmi sugli abiti stropicciati. “Puoi ricordarmi chi ha detto: 'Non voglio prendere una maxi pizza se la mangiamo in due, ne voglio una solo per me'?”. “Sì però alla fine ne abbiamo presa solo una e chi se l'è mangiata quasi tutta?”. “Non rigirare le cose come vuoi te”. “Sei un bambino obeso senza speranza”. Esce dal bagno con un sorrisetto canzonatorio, so che infondo ancora si diverte a prendermi in giro ed a subire dei contrattacchi a sua volta. Non c'è gusto a offendere se la persona in questione non risponde ed io lo faccio sempre, ciò rende la cosa eccitante. “Veramente tu stai dando dell'obeso a me?”. Sposto lo sguardo su me stessa e, cavoli, questo è un punto a suo favore. Devo rimediare. “Vogliamo elencare le cause della mia temporanea obesità?”. “Opera dello Spirito Santo?”. Incrocio le braccia all'altezza del seno. “Non direi proprio”. “Secondo me è stata la cicogna”. “Beh, effettivamente c'è un uccello di mezzo”. “Touché”. Scoppio in una fragorosa risata tanto da poggiarmi al comodino per non perdere l'equilibrio, dal suo canto lui in un primo momento rimane serio dopodiché si lascia andare. Appena mi riprendo, asciugo le lacrime e chiedo: “Quindi questo significa che ho vinto?”. Mi punta l'indice contro. “La battaglia, Castillo, ma non la guerra”. “Quale onore sentire l'ammissione della vostra sconfitta, Vargas”. “Vabbè, puoi vincere solo buttandoti su argomenti sconci”. “Ma cosa!”, grido. “Io pervertita? Ricordi cosa ti è successo quella volta durante ginnas...”. “Non continuare”, mi ferma con un gesto della mano. “Lo ricordo bene ed era colpa tua”. “Involontariamente”. “Non ha importanza, voglio dimenticare”. “Fai bene con la figura di merda che ti sei fatto davanti a tutta la classe”. “Infatti”. Si siede sul materasso per mettersi anche lui le scarpe, attraverso la stanza per andare dal suo lato del letto che, tra l'altro, è più vicino all'uscita. Mentre lo sto raggiungendo, a terra accanto alla sedia noto un mazzetto di chiavi: probabilmente gli sarà scivolato quando ha afferrato di fretta i pantaloni. Mi accuccio e lo raccolgo, ai miei occhi balza subito la metà di un cuore con su scritto 'Ever' con diamanti incastonati. Il respiro mozzato, è la parte mancante di quello che ancora conservo gelosamente in un portagioie. Il regalo del nostro anniversario. Tutto ad un tratto mi viene tolto dalle mani, alzo il capo e vedo che se l'è infilato in tasca. “Che c'è?”, domanda scontroso. Ho un'espressione intontita. “Ah, nulla...”. “Io vado giù, tu fai quello che vuoi”. Ed esce lasciandomi con mille interrogativi e più confusa di prima.

 

 

“Signorina Castillo, è il suo turno”. Mi alzo e vado verso l'entrata seguita da Leon, entro nella stanza e mi siedo su una sedia paffuta color vermiglio. La porta si chiude dietro di me, ha fatto pure lui il suo ingresso. Dietro la scrivania c'è il dottor Schwarz, si può dire una delle figure professionali che mi conosce più di tutti. E' specializzato nella terapia dei disturbi psichici e di tanto in tanto torno da lui per farmi prescrivere i farmaci più adatti a me e alla situazione che sto attraversando. E' un uomo dalla carnagione olivastra, panciuto e con un gran naso a patata che sostiene un paio di occhiali tondi. Ha pochi capelli bianchi solo ai lati, mentre sopra la testa è completamente pelato. Appena mi vede mi sorride e congiunge le mani le cui dita sembrano dei salsicciotti, ho sempre pensato che incarnasse l'aspetto del nonno che non ho mai avuto. “Adesso che sei entrata ti chiamo Vilu. Sai com'è, da fuori devo sembrare professionale”. Mi fa l'occhiolino e sorrido, intanto sento Leon sedersi al mio fianco. Solo ora mi rendo conto di quanto imbarazzante sia la cosa, dovrò parlare dei miei problemi mentali di fronte al mio ex ragazzo e non mi allieta in alcun modo l'idea. Per carità, è a conoscenza di tutto ciò che ho passato, ma non mi va molto a genio che sappia cosa sto passando ora. E per giunta a causa sua in parte, non credo ci voglia una scienza per arrivarci. Come ho fatto ad essere così tonta da accettare il suo invito? Sentirà tutto. “Allora, le cose vanno meglio? Il padre che ti ha abband...”. Gli lancio un'occhiataccia, sposta lo sguardo alla mia destra ed intuisce subito che il famoso padre di cui si è tanto parlato per mesi è proprio qui. “Oh, mi scusi. Lei è il padre, giusto?”. Annuisce e gli porge la mano, strana reazione da parte sua. Il dottore la stringe cordialmente e gli sorride. “Leon”. “Dottor Friedrich Schwarz”. Poi torna a rivolgersi a me. “Gli attacchi come vanno?”. Titubante guardo lui, poi furtivamente Leon. Osserva annoiato un portapenne con dentro delle paperelle che galleggiano in un liquido blu picchiettandovi con l'indice per farle muovere. Non gliene frega niente o sta fingendo? “Mmh...insomma”. “Cosa intendi dire?”. Si sistema gli occhiali per vedermi meglio. “Nel senso che nell'ultimo periodo sono stati molto più frequenti e papà mi ha accusato di abusare troppo dei medicinali”. Con la coda dell'occhio noto che non giocherella più, si è bloccato. “Quante gocce prendi al giorno?”. “Minimo una decina di gocce a volta”. “Quante volte?”. Mi sfrego le mani nervosa, sento degli smeraldi puntati contro. “Dipende dal colore della giornata”. L'uomo afferra una penna ed inizia ad annotare delle informazioni su un bloc notes. “Colore?”. Annuisco. “Sembra una cosa stupida, vero?”. “No, era solo per chiedere. Vorrei che tu mi spiegassi, semplicemente”. Mi guardo le nocche sporgenti e le tasto. “E' forse una delle poche cose che ho fatto di quanto mi ha indicato la psicologa della scuola. Devo dare un colore alle giornate che passo in base all'umore, sembra una bambinata e forse lo è: tutti gli psicologi ti trattano come se fossi un bambino con qualche ritardo”. “E come hai classificato le tue giornate?”. Parlare è dannatamente difficile sapendo che lui mi ascolta, mi sta scrutando, avverto la sua attenzione su di me e sulle mie parole. “Beh, visto come andavano le cose ne ho riconosciute quattro principalmente: quelle grige, in cui provo l'apatia più totale, le nere sono quelle in cui mi sento uno straccio per qualsiasi cosa, poi ci sono quelle blu nelle quali provo dolore sia fisico che psicologico ed infine ci sono le giornate rosse in cui se non mi alzassi dal letto sarebbe meglio perché sono nervosa ed irascibile”. Un rumore di penna che si sfrega contro la carta, sta riportando ciò che dico. “Non hai colori riguardanti giornate positive?”. Scuoto la testa. “Io non ho giornate positive”. “Tornando al motivo originario per cui sei qui, quante dosi di psicofarmaci prendi di giornata in giornata?”. Mi mordicchio il labbro riflettendo per alcuni secondi, poi rispondo sempre col capo chino: “Nelle grige una volta, ma sporadicamente perché non sono soggetta a sbalzi umorali. Nelle nere un paio così come per le rosse, nelle blu a volte anche tre”. Sospira, poi posa il tutto e ritorna ad osservarmi. “Con la psicologa come ti stai trovando?”. “Male, non riesco ad aprirmi”. Si gratta il collo con un dito. “Mmh...ti dà qualche esercizio da fare oltre a questa cosa del colore?”. Scrollo le spalle. “Le solite cose da psicologi: scrivi tutto ciò che pensi in un quaderno, concentrati sugli aspetti positivi della tua vita, sfoga i tuoi sentimenti con qualche hobby, cerca di tenere la mente impegnata circondandoti di persone per pensare ai problemi il meno possibile...consigli che si danno ai depressi, insomma”. Corruga la fronte. “Quindi ti hanno presentata come depressa?”. “Sì”. “E secondo te lo sei?”. Batto il piede a terra, Leon è troppo silenzioso. Mi sembra di mettermi a nudo di fronte a lui dopo moltissimo tempo, sono vulnerabile sotto al suo sguardo attento. “No, so cosa significhi esserlo e non è minimamente paragonabile a questo”. Posa la testa sulla mano stretta in un pugno. “Cosa significa essere depressi per te?”. Fisso il legno della scrivania di fronte a me, odio questo tipo di domande. “Vivere pare quasi una punizione, maledici il giorno in cui sei nato e ti consola il fatto che ogni ora che passa ti avvicini alla fine della tua esistenza. Adesso ho più ragioni che mi trattengono qui: il bimbo, la mia famiglia, gli amici. Non rinuncerei mai alla mia vita per quanto brutta possa essere, non posso farlo perché ho acquisito più responsabilità negli anni. Ecco perché non sono depressa”. Incrocia le braccia con fare pensoso, cosa sta tramando? Poi si volta verso Leon e mi sale il cuore in gola. “Lei cosa ne pensa?”. “Io?”, chiede sorpreso. “Sì, lei”. “Ehm...uhm...”. Ruoto la testa in sua direzione, ha le labbra tenute all'indentro e gli si è formata la sua caratteristica fossetta. E' a disagio e lo posso capire, perché il dottor Shwarz sta facendo questo? “Beh, Violetta è una persona...fragile ed in quanto tale è più predisposta a scoraggiarsi di fronte ad ogni minimo ostacolo e possiede poca autostima. Penso di essere l'unico, ma io le credo: il suo atteggiamento tende a sembrare depresso anche quando non lo è. E' fatta così, perché cambiarla? Certo, di sicuro a German viene un colpo al cuore ogni volta che si comporta in questa maniera, ma penso sia normale. Non vedo perché provare a modificare questo tratto del suo carattere, invece di tentare invano di correggerla bisognerebbe starle accanto e cercare di farla sentire a proprio agio nel mondo. Trovo controproducente forzarla ad essere una che non è, si peggiora la situazione e basta perché è contrario alla sua volontà. Violetta ha solo bisogno di essere capita anche se sono il primo ad ammettere che sia arduo, ma una volta compreso il suo modo di essere diventa di facile lettura. Va benissimo così com'è, non ha senso trasformarla in un'altra”. Sorrido timidamente e mi giro dalla parte opposta per non esser vista, lui ha capito che stanno tutti sbagliando con me. Lui sa che non sono depressa, crede a ciò che dico. “Interessante...”. Torna a me. “Che facciamo, Vilu? In quanto terapista ti consiglio vivamente di ridurre le dosi perché sono leggermente di più di quelle che ti ho prescritto la volta scorsa”. Strappa il foglio per le ricette e comincia a scrivere. “Ad ogni modo, i tranquillanti te li prescrivo lo stesso, ma mi raccomando vacci piano”. “Okay”. Mi passa la prescrizione medica e l'afferro. “Ultima cosa e poi non ti torturo più: com'è andata la visita?”, domanda sorridendo. Adoro il dottor Schwarz, mi ha vista praticamente crescere e racconto più cose a lui che alla psicologa. Effettivamente è un terapista per disturbi psicologici, quindi giù di lì una cosa simile. “Molto bene, il bambino è in perfetta salute”. “Ah, è un maschietto? Ricordo che l'ultima volta che ci siamo visti l'avresti scoperto di lì a poco”. “Sì, è un maschietto”. Involontariamente poso la mano sopra al pancione e lo accarezzo quasi fiera del mio bimbo. “Si chiamerà Enrique”. “Che bel nome!”. “Ed ho portato le ecografie come promesso”. Poggio la borsa sulle ginocchia, la dischiudo ed estraggo una busta gialla per poi porgergliela. “E brava la piccola Vilu che ormai tanto piccola non è!”. La apre e tira fuori le varie ecografie, noto che Leon sta allungando il collo per vederle. Perché mi manca il respiro? “Ma che bel feto!”, esclama il dottore con la sua enfasi facendomi scoppiare a ridere. Riesco a scorgere pure lui sorridere. “Posso guardarle anch'io?”. Deglutisco ed, alzando un angolo della bocca, rispondo: “Certamente”. L'uomo gliele passa e lui inizia ad osservarle, sposta la sedia più accanto a me ed arrossisco senza nemmeno rendermene conto. Alzo lo sguardo e noto che Friedrich scuote il capo sorridente, effettivamente ho quasi diciannove anni e mi emoziono per cose che neanche una dodicenne. “Guarda, ha il tuo stesso nasino all'insù”, commenta indicando il naso di Enrique. “Già, spero prenda i tuoi occhi”. “Perché mai?”, chiede senza togliere l'attenzione dal bambino. “Sono belli, hanno un colore stupendo”. “Sono meglio i tuoi”. “Perché? Sono banali”. Passa ad un'altra ecografia. “No, sono più espressivi”. Dopo aver dato un'ultima rapida occhiata ad entrambe, le reinserisce dentro e mi ridà la busta. “Grazie”, dico mentre le rimetto dov'erano assieme alla ricetta per i tranquillanti. “Grazie a te per avermele mostrate”. I nostri occhi s'incrociano e mi perdo in un dolce mare color smeraldo con la mano ancora a mezz'aria. “Sai che non lo faccio mai, ma devo chiederti di andare visto che il mio compito l'ho svolto ed è già tanto che abbia trovato un buco per darti la ricetta. Fra poco ho una visita vera e propria”. Ritorno alla realtà e mi volto verso il dottore. “Oh, certo. Grazie mille per essere riuscito a trovare del tempo”. “Figurati, è sempre un piacere aiutarti”. Mi alzo in piedi e Leon mi segue a ruota, mi dirigo verso la porta. “Grazie ancora ed arrivederci”. “Arrivederci, ragazzi”. Il primo ad uscire è lui, io prima di farlo mi volto verso l'uomo che dice quasi in un bisbiglio per non farsi sentire al di fuori della stanza: “Mi sa che dovrai trovare un colore diverso per dipingere le tue giornate d'ora in poi”.

 

 

“What's the worst that I could say? Things are better if I stay! So long and good night, so long and good night!”. Più che cantare, sto urlando come un animale, ma non importa perché ho un tricheco proprio al mio fianco. “Well, if you carry on this way, things are better if I stay! So long and good night, so long and good night!”, continua. Tamburello le dita al ritmo della musica sulla coscia e continuo a ridere come una demente. “Can you hear me? Are you near me? Can we pretend? To leave and then we'll meet again when both our cars collide!”. Riprendiamo il ritornello assieme: “What's the worst that I could say? Thing are better if I stay! So long and goodnight, so long and goodnight! Well, if you carry on this way, thing are better if I stay! So long and goodnight, so long and goodnight!”. Finita la canzone batto le mani sotto lo sguardo divertito di Leon. “'Helena' dei My Chem è sempre bella da cantare a squarciagola”, dico. “Diamo il meglio di noi con questa”. “Esatto”. “Mi era mancato il karaoke in macchina”, ammette ridacchiando. “Anche a me dal momento che papà ha uno spirito d'intraprendenza pari a quello di un bradipo e poi non ascoltiamo lo stesso tipo di musica, per ciò”. “Pure con Raquel vale lo stesso, a lei piace la musica soul americana tipo Whitney Houston, Aretha Franklin o Tina Turner. Come faccio a cantare una loro canzone? Sputo entrambi i polmoni alla fine!”. “Ti vedrei bene alla 'Battaglia di band' con 'I will always love you'”. Ci fermiamo ad un semaforo, siamo a Buenos Aires inoltrata. Ruota il capo verso di me con un sopracciglio inarcato. “Se mi vuoi vedere steso e privo di sensi addosso alle prime file”. Sorrido scuotendo il capo. “Seriamente, che porterai?”. “Una canzone”. Rimette in moto l'auto e ripartiamo. “Ma dai? Credevo avresti portato un'esibizione circense”. “Non riesci proprio a non fare battute sarcastiche su di me”. “Questo perché tu mi riempi di risposte vaghe”. Rotea gli occhi. “E va bene, porterò una canzone scritta e composta da me. E' abbastanza esaustiva come risposta?”. “Per niente. Di che parla?”. “Non te lo dico”. “Perché?”, domando implorante. “E la tua di che parla? Sentiamo”. “Non te lo dico”. “Vedi?”. Sbuffo e poso lo sguardo sul finestrino, non manca molto al mio quartiere. “Domani ti fermerai dopo scuola per quella cosa dei cartelloni?”, mi chiede. “Certo, te?”. “Sì, pure io”. “Ti fermi a mangiare al bar della scuola?”. “No, mangio qualcosa alla 'Trattoria degli artisti' coi ragazzi. Perché?”. “Ah, niente...”. Porto le mani verso le ventole dell'aria calda per scaldarmele. “Tu dove mangerai?”. Faccio le spallucce. “Al bar con Maxi probabilmente”. “Ah, quindi non c'è il tuo amico?”. Increspo la fronte. “Amico?”. “Il simpaticissimo Dieguito, no?”. “No, perché?”. “Peccato, ci tenevo tanto a vederlo”, commenta beffardo. “Mi sto sforzando di crederti, sul serio”. Svolta ed entra nella via in cui abito, avanza per poi fermarsi di fronte al cancello di casa mia. Fisso la porta un po' intimorita, ma poi ricordo le parole di Angie: le vita è mia e sono mie pure le scelte riguardanti essa. “Grazie per tutto: il passaggio, la compagnia, il pagamento del motel”. Ridacchia e mi sorride. “Figurati! Grazie a te invece, infondo mi sono divertito”. Mi slaccio la cintura e poggio la mano sulla maniglia. “Anch'io e scusami per gli screzi, sono stata un po' troppo cocciuta ed offensiva”. “Ed io troppo fermo sulla mia posizione”. “Pace?”. “Pace”. Apro la portiera ed esco dall'auto. “Ci si vede”. “A domani”. Chiudo lo sportello e faccio per suonare il campanello, quando abbassa il finestrino e mi ferma: “Vilu?”. Mi volto all'indietro. “Sì?”. “Ti voglio bene”. Rimango stupita in un primo momento, poi rispondo: “Anch'io, Leon”. Sul suo viso si estende uno dei suoi bellissimi sorrisi e riparte, mentre io sono un uragano di sentimenti.

 

 

Ho appena finito di fare la doccia e sono seduta sulla scrivania col pc acceso, siccome ho finito tutti i compiti m'intrattengo su Internet prima di andare a dormire. Clicco sull'ennesima gif di coppie che si amano felici e la osservo, dovrei aggiornare i miei passatempi perché questi divengono ogni giorno sempre meno interessanti. Sobbalzo quando sento un trillo, proviene da Facebook. Apro la finestra relativa e guardo in basso: Diego mi ha scritto un messaggio in chat. “Ti prego, smettila di ignorarmi. Parlami, offendimi pure se ti va, ma dimmi qualcosa!”. E' da quando è avvenuta la litigata in ospedale che non gli parlo ed ignoro i suoi tentativi di contatto. Il punto è che non riesco ancora a capacitarmi di ciò che ha fatto, è stato davvero un colpo basso. Sapeva che Leon è importante per me, sapeva che desideravo avvicinare Enrique al suo vero padre. Sapeva ed ha fatto una grandissima cazzata per quanto mi riguarda. Ne arriva un altro: “So che lo guarderai e che non mi calcoli di proposito, per favore Vilu...”. Fisso per alcuni secondi lo schermo, dopodiché di getto scrivo: “Ho risposto, contento?”. Mi risponde subito dopo. “Ora sì”. “Felice per te”. “Possiamo parlare?”. Roteo gli occhi. “Non ho tempo, né voglia”. “Lo so di aver sbagliato”. “E allora perché perseveri?”. Detesto trattarlo così, ma dopo quello che ha fatto non ho altra scelta. “Perché voglio che tu mi perdoni”. “La fai troppo facile”. “E' facile in verità”. “No, non lo è”. Il responso ci mette un po' ad arrivare, cosa sta digitando? La storia della sua vita? “Lui l'hai perdonato subito però. Io agisco per il tuo bene e non sono degno del tuo perdono, lui ti ha lasciata sola con un bimbo in grembo per mesi e se lo merita giustamente”. “Non è la stessa cosa”. “No, ma se mi lasciassi spiegare...”. “E allora spiega, dai”. “Virtualmente è tutto troppo fraintendibile”. “Allora saluti”. “No, ti prego! E se te ne parlassi domani?”. “Mmh...”. “Non ti costringo a perdonarmi, voglio solamente che tu mi ascolti per una manciata di minuti. Poi sei libera d'ignorarmi, ma prima devi almeno sentire ciò che ho da dire”. Sospiro pensosa, dovrei farlo? La piccola parte di me che tiene ancora molto a lui sta lottando per venir fuori. “Va bene”, l'osservo alcuni secondi per poi inviarlo. “Grazie”. Ma invece di rispondere, chiudo la chat. Ogni cosa che faccio è fonte di dubbi continui, non riesco mai ad essere completamente sicura delle azioni che compio. Che si sia veramente pentito? Devo stargli lontana per la questione Ludmilla? Non lo so. Non voglio nemmeno pensarci, domani ho tempo a sufficienza per farmi tutte le pare mentali del mondo. Scuoto il capo come per levare ogni brutta riflessione dalla mia mente ed aggiorno la home sperando di distrarmi in qualche modo. Riduco gli occhi a due fessure, Leon ha pubblicato un video di gente che cade a terra con didascalia: “Sono una cattiva persona se rido?”. E' sempre il solito deficiente, ricordo ancora quando mi taggava in filmati idioti nonostante non lo volessi e vi scriveva sempre “Guardalo, fa morire!”. Metto 'mi piace' e commento: “Certo! Andrai all'inferno, figlio di satana”. Wow, è la mia prima interazione su Facebook dopo mesi e mesi. Improvvisamente mi rendo conto che c'è qualcosa di strano nel suo profilo, diverso. Sposto il cursore sopra il suo nome e clicco per aprire il suo account: rimango piacevolmente sorpresa nel constatare che ha cambiato immagine del profilo ed ha rimesso la foto precedente con il suo amico, mentre per la copertina rimane ancora quella con la moto. Nessuna traccia di Raquel. Ed io sono felice per così poco.

 

 

ANGOLO DELL'AUTRICE

Hey ragazzini calvi (?) come state? Alors, partiamo con ordine: mi scuso per il vergognoso ritardo e per il pessimo angolo dell'autrice che farò, prevedo il futuro. Come ben sa chi mi segue e contatta al di fuori da Efp, ho venduto l'anima alla scuola ultimamente e sono costantemente impegnata fra studio, compiti, attività extra. Ah, oggi credo mi sia pure andata male la verifica di fisica porco il lama! Comunque, vogliamo fare un commento serio? No, perché io potrei divagare ore ed ore a parlare della mia vita sebbene non abbia niente d'interessante. Cominciamo dal momento che tutti gli shippatori doc amano leggere: il risveglio. Come lo avete trovato? Ve lo sareste aspettato un Leon così 'viziato' ai tempi in cui stava con Vilu? Inoltre è sempre bello rivedere i Leonetta prendersi in giro a vicenda! Mmh, ma cos'è quel portachiavi? Non sarà mica il regalo di Violetta? La domanda ora sorge spontanea: perché lo tiene ancora? Troncone successivo: la visita dal terapista. Che ne pensate? Le parole di Leon vi hanno colpiti? Ultime due scene: come abbiamo visto, riprendono le loro vecchie abitudini e sembrano pure divertirsi un mondo. Perché non tornano insieme? So che mi porrete questa domanda per molti altri capitoli e pure che la voglia di prenderli a botte entrambi sarà tanta u.u
Diego implora il perdono di Violetta che in un primo momento rifiuta e si dimostra fredda, poi accetta di ascoltare le sue ragioni. Ha fatto bene secondo voi? Oh, ma qui qualcuno ha cambiato immagine del profilo e tolto Miss Perfezione dalla scena (per il soprannome di Raquel credits to ChibiRoby lol). E' casuale oppure no la cosa? Aspetto con ansia i vostri pareri e vorrei aprire una parentesi sulle venti bellissime recensioni del capitolo precedente! Sbaglio o più Leontta c'è e più fioccano recensioni? u.u Mi spiace per il fatto che sono lenta come l'anno della fame a rispondere ed adesso mi metto seriamente a rispondere a quelle che riesco perché devo finire di studiare, ma se portate pazienza arriveranno tutte. Vi ho già detto che ho venduto l'anima alla scuola? No, perché qui il diavolo ha da invidiare alla scuola per questo! Grazie mille per il vostro supporto, siete in moltissimi a seguire la storia e mi rendete veramente felice. Pensate che a volte mi rallegrate persino la giornata, cari che siete :3

Alla prossima e stay tuuuuned,

Gre ;)

  
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