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Autore: ElenCelebrindal    29/10/2014    1 recensioni
Questa è la storia della vita di Legolas. Da quando era un bambino fino alla sua partenza per le Terre Immortali. Bambino, ragazzo e adulto, tutto quello che ha passato assieme a suo padre Thranduil, le sue amicizie e i suoi scontri, tutto riunito in questa fan fiction.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Legolas, Thranduil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 LA VITA VA AVANTI
 
I giorni che seguirono la Battaglia furono tra i più cupi che Legolas avesse mai visto e vissuto: furono celebrati i funerali di ognuno degli Elfi ch’erano morti sul campo di battaglia, uccisi da Orchi, o da Mannari, e sempre più spesso i sudditi del re cercavano aiuto, anche solo una semplice parola, per superare il dolore che li aveva travolti così all'’improvviso.
Le madri e i padri piangevano i figli, le mogli e i mariti si disperavano per i compagni che avevano perso, e non pochi di loro cedettero al dolore, abbandonando per sempre quelle terre, per riunirsi ai famigliari scomparsi.
In tutto questo, anche Legolas soffriva, seppure continuava ad aiutare il proprio padre in tutte le questioni del regno.
Ma il suo sguardo era spento, le risate sempre più rare, i sorrisi forzati.
Perché il giorno stesso che avevano fatto ritorno si erano celebrati anche i funerali per Tauriel, che era stata una grande amica; certo, un’amica che gli aveva quasi spezzato il cuore, ma pur sempre tale.
La Battaglia aveva lasciato un segno indelebile su molti, anche sullo stesso re, che ormai sedeva sul suo trono con un’evidente stanchezza dipinta sul volto.
All'’incirca un mese dopo, quando la vita sembrava riprendere il suo normale corso nel Reame Boscoso, Legolas volle sapere il motivo di tanta stanchezza perciò, durante un pranzo, cercò di chiarire.
Si schiarì la voce, e disse: “Adar? Darthon mae? Thion prestannen…” (Stai bene? Sembri afflitto), mentre posava una mano sulla sua.
Thranduil scosse la testa: “Mani? A… avo bresto… Im mae” (Cosa? Oh… non preoccuparti… Sto bene), rispose, ma il suo tono di voce non convinse del tutto il principe, che strinse di più la mano del padre e replicò: “No, tu non stai bene, adar. lo percepisco nella tua voce, ne tuo modo di presentarti alla gente. Lo vedo nei tuoi occhi. Non puoi più cercare di tranquillizzarmi così, non sono più un bambino, ormai”.
Il re sospirò, e lo abbracciò: “No, hai ragione. Non sto bene. Non sto bene…”, sussurrò, stringendolo a sé.
Legolas sciolse l’abbraccio e guardò il proprio padre negli occhi, in quei profondi pozzi di ghiaccio: “Cosa ti sta succedendo, adar nîn? Perché sei… così? Così stanco, così triste… così diverso”.
“Perché l’ultima, vera battaglia che ho combattuto è stata una disgrazia per me, questo lo sai bene. E combattere di nuovo in campo aperto, accerchiato da nemici, con la consapevolezza che, forse, non ti avrei mai più rivisto, mi ha quasi distrutto l’anima, Legolas. Ho rivisto, durante quella battaglia, ciò che aveva riempito i miei occhi sulla maledetta Piana di Dagorlad, e ora quelle immagini continuano a tormentare i miei sogni, ch’io dorma profondamente oppure stia solo in dormi-veglia. Continuano a tornare, senza mai accennare a voler scomparire, senza mai darmi tregua. Continuo a rivedere il volto morente di mio padre, a sentire l’odore del suo sangue che mi riempie le narici, a dover sopportare di rivivere sempre, ogni notte, la morte che ci ha afflitti”.
Si prese la testa fra le mani, e di scatto si tolse la corona, gettandola lontano: “Non lo sopporto più, Legolas, non posso più continuare a sopportare tutto questo! Non posso…”.
Le ultime parole si trasformarono in meri sussurri, soffocati dalle mani che Thranduil aveva spostato sul suo volto.
Il principe non riusciva a vedere il padre ridotto in quello stato, non poteva.
Lo abbracciò lui, di slancio, e lo strinse forte a sé, cercando di confortarlo: “Passerà, adar, ne sono sicuro. Come tutto è passato, anche questo svanirà. Ti voglio bene”, disse.
Sciolse l’abbraccio e andò a raccogliere la corona, che era finita lontano dal tavolo dov’erano seduti: “Tu sei forte”, disse, porgendogliela. “Sei il grande re del Reame Boscoso. E sei mio padre”, aggiunse, mentre lo osservava rimettersi il semplice ornamento sul capo.
Perché non servivano oro e argento per far di Thranduil un re.
“Ce la fai a sorridermi?”, domandò poi, sedendosi di nuovo di fronte a lui.
“Ce la faccio solo se ci riesci anche tu”, replicò, piegando le labbra in un sorriso tirato.
Anche Legolas sorrise, e allora la tensione che, fino ad allora, aveva permeato l’aria si dissolse, lasciando spazio solo all'’affetto che ognuno provava per l’altro.
“Legolas?”, domandò all'’improvviso il re.
“Sì?”.
“Vorresti stare con me, stanotte? Come quando eri un bambino? Forse… forse gli incubi svaniranno. Almeno per una notte”.
Legolas gli prese le mani, sorridendo più apertamente e con più calore: “Forse non è un male tornare bambini, a volte”, rispose. “Resterò con te, adar. Tutto ciò che desidero, ora, è di tornare a vedere nei tuoi occhi la luce che ho sempre scorto”.
Anche Thranduil riuscì a sorridere per davvero: “Hannon le”.
 
Le stanze del re erano esattamente identiche a com’erano quando il principe non era altro che un bambino, con la sola differenza che non c’era più il suo lettino ad occupare lo spazio, c’era rimasto vuoto, senza nulla ad occuparlo.
Osservando il letto matrimoniale, Legolas si domandò se non ricordasse al padre la moglie con cui lo aveva diviso, ma allontanò quei pensieri scomodi, per non rischiare di avere lui stesso gli incubi quella notte.
Dormirono abbracciati, avvolti dal morbido calore delle lenzuola, come facevano un tempo, e la mattina dopo Legolas, già sveglio, notò che il padre di destò con il sorriso sulle labbra.
 
“Niente incubi stanotte, adar?”, gli domandò, infilandosi gli stivali.
“Niente incubi”, rispose: “Forse mi serviva semplicemente il contatto con qualcuno che amo, per allontanare le paure che mi affliggevano. E non potrei mai amare nessuno, più di mio figlio”, aggiunse, appuntandosi la spilla di mithril alla veste prima di abbracciare ancora una volta il figlio: “Ti voglio bene, non dimenticarlo mai”.
“Non l’ho mai dimenticato, e mai lo dimenticherò, ada”, rispose Legolas, ricambiando l’abbraccio.
 
Con il passare del tempo, sia Legolas che Thranduil riacquistarono la loro fiducia in se stessi, e tornarono ad essere il re ed il principe che tutti conoscevano,
Ma era giunto il momento di fare un’altra scelta.
La sala del trono era gremita di elfi, tutti guerrieri, soldati della guardia reale,compreso Legolas, che se ne stava però accanto al trono del padre, in perfetto silenzio.
Nessun suono poteva essere udito in quel luogo.
Thranduil si alzò, in un frusciare di vesti, la luce dorata delle lanterne che si rifletteva sulle perle d’argento che ornavano la corona di rami che portava sul capo in onore dell’inverno, e a voce non troppo alta ma con tono autoritario, disse: “Questa scelta è stata rimandata a lungo, forse anche troppo, perciò ora è tempo di decidere. Decidere chi sarà il nuovo capitano delle mie guardie. Chi tra voi pensa di esserne degno, che faccia un passo avanti. Mi fido del vostro giudizio, per ora. Poi starà a me scegliere chi tra voi è la persona adatta. Decidete, adesso”, concluse, e tornò a sedersi sul trono.
Legolas osservò i pochi che si fecero avanti, con un’espressione decisa sul volto, e rifletté.
Infine, quando rimasero solo i cinque elfi volontari, decise; avanzò fino a trovarsi di fronte al re e disse: “Aran Thranduil, adar nîn, so bene che vorresti che anch’io mi facessi avanti. Tuttavia, non lo farò. Lascio l’opportunità a tutti loro – voltò la testa verso gli altri elfi presenti – e mi tiro indietro. Mi tiro indietro anche per motivi che già conosci, e per i quali vorrei tu comprendessi la mia scelta”.
Sapeva di andare contro alle tradizioni, rifiutando per la seconda volta la nomina a Capitano, ma non voleva avere sulle spalle quella responsabilità, non dopo tutto ciò ch’era accaduto.
Il re annuì: “Ti comprendo, Legolas, principe e figlio mio, e accetto la tua decisione. Vai pure, non ti tratterrò oltre se non lo desideri”.
Legoas chinò la testa: “Hannon le, adar. Mi congedo”, rispose, lanciando uno sguardo di incoraggiamento ai volontari prima di lasciare la sala del trono, diretto alla biblioteca.
Desiderava poter stare in tranquillità, e non c’era luogo migliore di quello, con i suoi alti scaffali colmi di libri di ogni dimensione, le sue pareti spesse e le sue torce dorate che scoppiettavano ad ogni angolo; era un luogo silenzioso, dov’erano permessi solamente meri sussurri.
Il principe si chiuse la porta alle spalle, che ruotò sui cardini senza emettere alcun suono, e si diresse in uno degli angoli meno illuminati, trascinandovi una delle sedie.
Ivi si sedette e, con la schiena adagiata contro lo schienale di duro legno, pensò alla propria scelta.
Alla scelta di rinunciare, ancora una volta, alla carica di capitano.
Solitamente, i figli dei re o dei grandi signori accettavano subito una proposta del genere, o si facevano avanti senza esitazioni, ma Legolas non era sicuro di voler tornare a combattere così presto, di affrontare ogni giorno un pericolo differente.
Voleva vedere al sicuro quel meraviglioso regno, ma allo stesso tempo aveva timore di non riuscire a proteggerlo al meglio.
Sospirò, e volse lo sguardo al soffitto, cercando di distinguere nel legno forme e colori, come faceva da bambino quando non aveva voglia di studiare libri su libri.
 
“Legolas? Da quanto tempo sei qui? È calata la notte, ormai, dovresti andare a riposare”.
La voce di Thranduil riscosse il giovane elfo dai suoi pensieri.
Si mise dritto sulla sedia: “Davvero? Non mi ero reso conto del trascorrere del tempo, immerso nei miei pensieri”, disse, alzandosi poi per raggiungere il genitore.
“E quali sono questi pensieri, iôn nîn? Cosa turba la tua mente”, gli domandò questi, un’espressione preoccupata sul volto.
Legolas sorrise, prendendo la mano del padre per tranquillizzarlo: “Non c’è bisogno di preoccupazioni, adar. è solo che continuo a pensare e ripensare alla scelta che ho fatto, null’altro”.
Gli lasciò la mano e si avvicinò ad uno dei tavoli rotondi che ammobiliavano lo spazio, posandovi i palmi: “Continuo a pensare che un principe come me avrebbe dovuto accettare all'’istante la carica che mi è stata offerta, invece di ribellarmi come ho fatto. Che avrei dovuto avere il coraggio di farmi avanti, per riprovare. Ma non ci riesco!”, esclamò, contraendo le dita sul legno.
“Desidero proteggere questo regno, perché lo amo e voglio vederlo al sicuro, ma ho paura! Ho paura di combattere di nuovo, di affrontare un nemico in battaglia, di vedere la morte dinanzi a me. ho paura di questo, e me ne vergogno”, disse poi, scuotendo la testa.
“Vergognarti?”.
Thranduil gli mise una mano sulla spalla, per confortarlo: “Non c’è vergogna in questo, né disonore. La paura fa parte del nostro essere, come tu stesso mi hai insegnato. Una volta sei stato tu a confortare me; credo che ora sia giunto il momento che sia davvero tuo padre, Legolas. Tu credi che la tua decisione sia un gesto codardo, ma non è affatto così. So cosa vuol dire affrontare la morte, i pericoli di una battaglia. So cosa provi in questo momento, perché ci sono passato anche io, più di una volta. Con il tempo, ti abituerai, e tutti i tuoi timori svaniranno, ma non è ora, quel tempo, perciò smettila di considerarti un vile e ritrova il tuo coraggio. Non il coraggio che occorre in battaglia, ma il coraggio di essere te stesso. Vedrai che, quando ci riuscirai, tornerai ad essere il grande guerriero che sei diventato e chissà, magari farai anche tu parte di quelle epiche battaglie che tanto di piaceva ascoltare, da bambino”.
Portò due dita sotto il suo mento e gli fece voltare il viso, in modo d poterlo guardare negli occhi: “Non affrontare più questo argomento, va bene? Fammi un sorriso”.
Il principe, consolato, stirò le labbra in un debole sorriso: “Melin le, ada” (Ti voglio bene).
 
 
“Coraggio, non puoi essere così lento!”.
La risata di Thranduil echeggiò tra gli alberi, mentre in groppa alla sua imponente alce zigzagava tra gli alti tronchi delle piante, senza seguire nessun sentiero o pista apparente.
Anche Legolas si unì al riso: “Non è colpa mia se il cavallo che mi porta in groppa non riesce a raggiungere la tua alce, ada!”, replicò, facendo accelerare l’animale spronandolo a galoppare più in fretta, incurante del rischio di poter sbattere contro il duro tronco di qualche albero.
Continuarono a galoppare per molto tempo, fino ad arrivare al confine della foresta, fino a quando non uscirono allo scoperto, al di fuori della protezione delle fronde degli alberi.
Ivi si fermarono, Thranduil più avanti del figlio.
Il re smontò dalla groppa dell’alce e sorrise, guardando alla volta del principe con una mano sugli occhi per schermarsi dalla luce del sole: “Da quanto tempo non ci concedevamo una giornata insieme, solo per divertirci?”, domandò, avvicinandosi.
Anche Legolas mise i piedi per terra: “Forse da troppo tempo. Quasi non rimembro l’ultima volta”.
Assieme,volsero lo sguardo all'’orizzonte, scrutando la vastità che avevano dinanzi: “Mi mancavano queste giornate, ada. La spensieratezza di poter essere solo padre e figlio, senza titoli nobiliari e tutto ciò che essi comportano. Anche solo la felicità di poter stare assieme, senza preoccupazioni. Mi mancava tutto”, disse il giovane, tornando a guardare il proprio padre, che quel giorno non aveva indossato né corona né portava lo scettro.
Nemmeno i suoi preziosi abiti, abbandonati in favore di un abbigliamento da viaggio più consono alla giornata.
Raramente lo aveva visto così: “Sai, mi piaci vestito in quel modo. Con gli abiti da sovrano, sembri sempre troppo distante da me, anche se non lo sei”, disse, piegando di lato la testa.
Thranduil voltò la testa e fece per rispondere, ma invece delle parole dalle labbra gli fuoriuscì una lieve risata.
“Ada? Perché stai ridendo?”, gli domandò Legolas, perplesso.
Quello scosse la testa: “Nulla, iôn nîn. È solo… è solo che mi ricordi me, con la testa messa in quel modo”, rispose, senza smettere di ridacchiare.
Legolas aggrottò le sopracciglia, sempre più perplesso, prima di rendersi conto che anche il padre, in alcune situazioni, chinava la testa in quel modo; cominciò a ridere anche lui: “Hai ragione, è piuttosto buffo”, ammise, senza pensare minimamente che un discorso del genere sarebbe sembrato banale a chiunque altro.
Si abbracciarono: “Sei più simile a me di quanto non avrei mai potuto credere, Legolas. Ma anche se tu fossi stato completamente diverso, ti avrei voluto bene comunque. Così bene che tutto il resto svanisce al confronto”, disse il re, quando si separarono.
“Coraggio, dobbiamo continuare la nostra uscita oppure no? Pontelagolungo ci aspetta!”.
Risalirono in groppa ai loro destrieri e galopparono via, rapidi in direzione della Città del Lago.
“Non posso ancora credere che tu abbia deciso di offrirmi da bere in una taverna di Uomini, ada. Sei sicuro di non aver bevuto troppo vino, prima di prendere questa decisione?”, chiese il principe, mentre smontavano di nuovo, stavolta di fronte all'’unica locanda di Pontelagolungo.
Il re degli Elfi rise: “No, ti assicuro che ero completamente sobrio. E poi, è ora che tu impari anche le abitudini degli Uomini, Legolas. Scoprirai che c’è molto da scoprire, e molto da imparare nelle città dei mortali”, rispose, dando un’ultima carezza sul muso dell’alce, prima di condurre il figlio alla porta della locanda.
“Aspettati di tutto”, lo avvertì, aprendo deciso la porta.
Subito il principe venne colpito dalla grande varietà di odori che impregnavano l’aria, in quel luogo, anche piuttosto modesto; l’acre odore del fumo delle pipe si mescolava a quello delle candele, tanto che l’aria era quasi offuscata da un sottile velo, tanti odori diversi di persone troneggiavano lì dentro, forti e deboli, acri e dolci, tutto in una mescolanza quasi impossibile.
Ignorando gli sguardi stupiti e adoranti che molti avventori lanciarono loro, padre e figlio si misero alla ricerca di un tavolo libero, trovandone uno in fondo al locale, accanto ad un gruppo di uomini intenti a bere e a fumare mentre discutevano del più e del meno.
Legolas smise di guardarsi intorno quando le occhiate della gente finirono per infastidirlo: “Ma qui non hanno mai visto un elfo? Cos’hanno da guardare?”, domandò, perplesso e infastidito.
Il padre accennò un lieve sorriso: “Gli Uomini sono fatti così. Ci vedono molto di rado, e quando questo accade non sanno fermare la loro curiosità. Anche se, in fatto di curiosità, noi Elfi di certo non scherziamo”, rispose.
Fermò una cameriera che passava in tutta fretta: “Il vostro vino migliore, in fretta per favore”.
Quella lo guardò con occhi adoranti che rasentavano la maleducazione, e si dileguò, tornando poco meno di due minuti dopo con una brocca colma di vino e due calici tra le mani: “Ecco a voi, miei signori. Spero lo gradiate, è davvero il vino migliore che abbiamo”, disse, posando tutto sul ripiano in legno del tavolo, scomparendo di nuovo pochi attimi dopo, rossa in viso.
Thranduil versò il rosso liquido in entrambi i calici, porgendone uno al figlio: “Alla nostra prima serata in una taverna!”, brindò, facendo cozzare il calice contro l’altro.
“Alla nostra prima serata”, concordò Legolas, portandosi il calice alle labbra per berne il contenuto.
Il vino era addolcito con del miele, ed era davvero ottimo, né troppo dolce né troppo aspro.
“Quello che mandano a noi, però, è sempre molto meglio”, constatò.
“Il nostro proviene spesso anche da altri luoghi, ma non posso far altro che concordare con te, iôn nîn. Ma questo è ottimo”, replicò il re, finendo il contenuto del suo calice in poche sorsate.
Poco a poco, l’intera brocca finì, e ne chiesero un’altra.
A metà della terza, qualcuno nel locale intonò un canto; le parole erano belle, ma la voce di colui che cantava era fin troppo stonata per le orecchie di Legolas, abituate alle dolci voci degli Elfi e dei menestrelli che spesso allietavano le serate a corte.
La serata, però, finì, anche se troppo in fretta per i gusti del principe, che si stava divertendo.
Lentamente, tutte le barriere che la differenza di razza aveva creato si stavano dissipando.
“Ora credo di comprendere perché mi hai portato qui”, disse al padre, mentre uscivano dal caldo locale per tuffarsi nella fresca aria della tarda sera.
Aveva bevuto decisamente troppo e, non essendo abituato, si era ritrovato con i sensi lievemente offuscati, una sensazione che mai aveva provato in tutta la sua vita.
“Credo che tu abbia esagerato, Legolas… riesci a cavalcare fino a palazzo?”, gli domandò Thranduil, trattenendo una risata alla vista del figlio in quello stato.
Legolas annuì: “Non sono così ubriaco da non riuscire a cavalcare, ada… e poi, ricordo che alla tua età, mi raccontavi, ti sei ridotto in uno stato ben peggiore di quello in cui sono io ora, e che non riuscivi nemmeno a salire in groppa al tuo cavallo”, replicò, sorridendo mentre montava “in sella”.
Il re lo imitò: “E quando riuscii a salirvi, sbattei la testa contro un ramo basso e caddi di nuovo. Non so come ritornai a palazzo, quella volta”, disse, spronando l’alce a cavalcare, tenendosi al fianco del figlio.
Il resto del viaggio continuò avvolto nel silenzio, tranquillo e senza fretta.
Giunsero in vista delle porte che era ormai scesa la notte, e gli unici rumori udibili erano il cinguettio di qualche uccello notturno e lo sciabordare dell’acqua del fiume.
Una volta al sicuro tra le mura del palazzo, Thranduil si premurò di accompagnare Legolas fino alle proprie stanze, per sicurezza, dato che durante il viaggio aveva rischiato più di una volta di scivolare giù dal dorso del cavallo: “No vaer i dhû. Losto mae, Legolas” (Abbi una buona notte. Dormi bene, Legolas), disse, prima di lasciarlo solo.
Il principe caracollò verso il letto e lì,vestito di tutto punto, stivali compresi, crollò sul materasso di peso e chiuse gli occhi, sprofondando nel riposo degli Elfi con il sorriso sulle labbra.
 
Il giorno seguente, si svegliò con un lieve giramento di testa: “A! devo aver davvero bevuto troppo, ieri sera”, si lamentò, alzandosi e rendendosi conto solo in quel momento di avere indosso gli abiti del giorno precedente.
Si tolse gli stivali, lasciandoli ai piedi del letto, e si chiuse nella piccola stanza adiacente alle proprie camere, dove lo attendeva una vasca colma di acqua calda e profumata.
Ogni mattina, un paio di servitori, anche se a Legolas non piaceva chiamarli in quel modo, la preparavano mentre ancora riposava, entrando nella piccola camera da una porta nascosta dietro un pesante tendaggio.
Rimase nella vasca per molto tempo, fino a sentirsi completamente rilassato, e i sintomi dell’ebbrezza della sera prima non svanirono completamente; ringraziò di essere un elfo, perché se fosse stato un mortale, sarebbe stato molto peggio.
Raggiunse il padre nella sala del trono che era ormai mattino inoltrato, e il palazzo già ferveva di attività: servitori andavano a destra e sinistra, accontentando le richieste del re e svolgendo i loro normali compiti; le guardie pattugliavano i corridoi e si davano il cambio, oppure erano ferme in determinati luoghi, attente e immobili come statue.
Alcuni Elfi della città tra gli alberi erano al cospetto del re, perciò Legolas attese, prima di raggiungerlo, restando in disparte a osservare ed ascoltare.
 
“Mio signore, i nostri figli sono ormai dispersi da una settimana, non abbiamo loro notizie dal giorno della loro sparizione. Ti preghiamo, aiutaci a ritrovarli, siamo disperati”, stava dicendo un’elfa, in ginocchio dinanzi al sovrano, mentre l’elfo alle sue spalle, probabilmente il marito, le teneva una mano sulla spalla, in un tentativo di consolarla.
Thranduil, dall’alto del suo trono, rispose: “Manderò alcuni dei miei elfi a cercarlo, Gladeth, non devi temere per la sorte dei tuoi figli. Nessuno di voi due deve farlo. Li farò riportare indietro vivi”, promise.
L’elfa di nome Gladeth si alzò, con le lacrime agli occhi: “Hannon le, aran nîn. Hannon le!”, disse solo, per poi andare via assieme all'’altro, scortati da una guardia.
 
Legolas si avvicinò: “Cosa è accaduto, adar? Ho sentito di elfi dispersi”, domandò, guardando in alto, verso il padre.
Questi si alzò dal trono e scese accanto al figlio: “Da circa una settimana sono scomparsi i due figli dei due elfi che hai visto. Scomparsi letteralmente nel nulla, senza alcun motivo apparente. A quanto mi hanno riferito i genitori, una settimana fa sono usciti per restare nella foresta, e non sono più tornati. Hanno atteso il tempo che hanno potuto, ma oggi si sono recati qui da me a cercare aiuto, ed io di certo non lo negherò. Sono preoccupato per i due giovani, temo che il male si sia rafforzato”.
Scosse la testa, stringendo di più le dita sul suo scettro intagliato: “Vai a chiamare il Capitano delle Guardie, Legolas. Voglio che scelga tre dei suoi esploratori per mandarli alla ricerca dei due elfi scomparsi”.
“C’è qualche speranza che siano vivi?”, chiese Legolas, preoccupato.
“Non ne ho idea, iôn nîn. Ma ormai la speranza è l’ultima cosa che resta ai loro genitori, e a noi. Non vorrei venir meno alla promessa fatta, riportando indietro i loro figli morti o, peggio ancora, non riportandoli affatto”, rispose il re, con lo stesso tono di voce. “Vai”.
 
Ritrovò il Capitano in uno dei corridoi più grandi, intento ad ascoltare i rapporti che un paio di guardie di confine avevano riportato, perciò attese di vederli andar via, prima di raggiungerlo: “Laerion!”, lo chiamò, fermandosi dinanzi a lui.
Quello si inchinò: “Cund Legolas, dhe suilon” (Principe Legolas, vi saluto). “Cosa desideri?”.
“Il re mio padre mi ha mandato a chiamarti. Desidera che tu scelga tre tra i tuoi esploratori e li mandi alla ricerca di due Elfi scomparsi. Ti aspetta nella sala del trono per darti ulteriori ordini”, disse, estremamente serio.
“Mi reco immediatamente al suo cospetto, dunque”, replicò Laerion, chinando ancora la testa e incamminandosi lungo il corridoio illuminato dalle torce.
Il principe lo seguì con lo sguardo, prima di avviarsi nella direzione opposta, diretto alle segrete del palazzo; non conosceva il motivo che lo spingeva ad andare fin lì, ma non si oppose all'’istinto e si ritrovò nell’ambiente meno illuminato dov’erano le prigioni del regno, uniche celle presenti nei regni elfici della Terra di Mezzo in quell’Era.
Si guardò intorno, mentre i ricordi di coloro che avevano occupato quelle celle tempo prima riempivano la sua mente come insetti attirati dal miele, e si avvicinò a tutte quante, osservandole e riportando alla memoria i volti dei loro “ospiti” indesiderati.
Quando arrivò a quella che aveva accolto uno dei Nani più giovani, Kili forse? si fermò, notando qualcosa di più scuro sul pavimento, che spiccava nell’ombra del luogo ristretto.
Aprì la porta della cella, che ruotò senza alcun cigolio inopportuno, e si avvicinò per guardare meglio quel’oggettino ch’era rimasto lì a terra, abbandonato; lo prese e tornò alla luce delle torce per osservarlo.
Era una semplice pietra, piccola e liscia, di forma ovale, con sopra incise delle rune naniche.
Gli salì un groppo in gola, e la pietra gli scivolò dalle dita, finendo sul pavimento con un rumore secco, ma lieve.
 
[flashback]
“È un talismano. Un potente incantesimo l’avvolge. Se qualcuno oltre ai Nani leggesse queste rune sarebbe eternamente dannato!”. “O no?”. “Dipende se credi in quel tipo di cose. È solo un ricordo, una pietra runica. Me l’ha data mia madre perché ricordassi la mia promessa”.
“Quale promessa?”.
“Che sarei tornato da lei”

[fine flashback]
 
Ricordava perfettamente il discorso tra Tauriel e Kili che, di nascosto, aveva ascoltato.
Non sarebbe mai tornato a casa, né da sua madre, che forse lo aveva atteso, trepidante e preoccupata, che forse aveva atteso il suo ritorno pensando a cosa fare e dire nel rivederlo.
Pensò a quella madre che poteva essere ancora distrutta dal dolore, s’era ancora viva.
Pensò a quel giovane Nano, che aveva sacrificato la sua vita per salvare quella del Re sotto la Montagna, tuttavia inutilmente, ché Thorin era morto anch’egli.
Voltò le spalle a quella cella e, senza rendersene conto, corse su per le scale e lungo i corridoi, fino a fermarsi di fronte alla porta delle proprie stanze.
Ivi appoggiò il capo al legno, cercando di calmarsi, ed entrò, con il desiderio di stare solo.
Forse suo padre non aveva ragione, sui Nani.
Non erano come lui li descriveva: erano diversi dagli Elfi, sì, ma anche incredibilmente simili sotto molti aspetti, e l’aveva compreso solo ora.
Giurò a se stesso che mai, mai avrebbe compiuto di nuovo l’errore di accettare i pregiudizi sugli altri.
E così, scoprendo ogni giorno qualcosa di diverso, sugli altri, su se stesso e sul mondo che lo circondava, la vita continuò e il tempo riprese a scorrere inesorabile, i giorni e le notti scanditi dal continuo alternarsi del sole e della luna, dai momenti di veglia e da quelli di riposo.
Giorni di felicità alternati a giorni di tristezza.
Tristezza che, come una nera nube che avvolge ogni cosa, si abbatté all'’improvviso sulla città tra gli alberi, su una delle tante abitazioni che la costituivano, su due dei tanti elfi che ivi vivevano.
Fu proprio Legolas ad essere incaricato di recarsi all'’abitazione di Gladeth e di suo marito, per chiedere loro di seguirlo a palazzo; ci andò con un’espressione cupa in volto, e il tono di voce con cui parlò loro era velato di tristezza.
Tuttavia, essi lo seguirono senza pronunciare una singola parola, forse intuendo ciò che avrebbero saputo, o forse continuando a sperare in qualcosa di impossibile, a quel punto.
Perché gli esploratori inviati dal re avevano fatto ritorno assieme ai due giovani elfi dispersi, sì, tuttavia dei cinque solamente due erano tornati vivi.
 
[flashback]
“Mio signore, Thranduil! Gli esploratori hanno fatto ritorno”.
Il principe, accanto a suo padre, ascoltò attento quelle poche parole riportate dal Capitano delle Guardie, e osò sperare che tutto fosse andato per il meglio.
Ma forse, osò sperare troppo.
“Dunque?”, Thranduil ordinò di proseguire.
Laerion esitò, prima di rispondere, affranto: “Vorrei che questo rapporto non fosse tetro, che le parole che sto per riferirvi non fossero cupe e terribili come queste. Ma è un volere che non posso avverare, purtroppo. I miei tre esploratori hanno ritrovato i due giovani dispersi, mio re, ma era fin troppo tardi quando giunsero a vederli. Essi giacevano a terra morti, uccisi da qualche ignota creatura del male, feriti in molti punti da quelle che sembravano essere colpi di spada. Pareva non esserci nessuno, in agguato tra gli alberi, hanno riferito, ma si sbagliavano. Un gruppo di orchi, siano quelle creature maledette, sono comparsi dal nulla e hanno attaccato gli elfi a mio comando. Due di loro si sono salvati, uccidendo tutti gli assalitori, ma Naereg non ce l’ha fatta, mio signore. Ferito da una spada alla schiena, non è sopravvissuto che per soli due giorni dopo l’imboscata. I miei esploratori hanno riportato indietro tutti e tre i corpi”.
Legolas sospirò e chinò la testa, mentre Thranduil parlava ancora: “Che i corpi siano trattati con tutti gli onori. Domani procederemo alla cerimonia per la loro sepoltura”, disse, il tono di voce che non tradiva alcuna emozione.
Laerion si inchinò: “Come tu comandi, hîr nîn”, disse, prima di allontanarsi.
“Legolas?”.
Il principe sollevò la testa: “Na, adar?” (Si, padre?).
“Domani, in prima mattinata, desidero che sia tu a condurre qui i genitori dei due giovani elfi”.
“Be iest lîn, adar” (Secondo i tuoi desideri), rispose Legolas, non senza rimpianto.
Cosa avrebbe detto a quei poveri genitori?
[fine flashback]
 
I corpi dei tre elfi morti erano adagiati entro bare di legno finemente decorate e intarsiate, le mani incrociate sul petto a stringere, l’esploratore la sua spada che sempre lo aveva accompagnato in battaglia, i giovani sei rose bianche a testa, con un petalo nero per ciascuna.
Thranduil, con indosso una veste nera come la notte, era dietro la bara dell’elfo più anziano, e attese il completo e assoluto silenzio per poter finalmente parlare.
Gli unici rumori udibili erano il singhiozzare sommesso e le parole di conforto, che nessuno osava mettere a tacere in alcun modo.
Guardandosi intorno, Legolas vide le espressioni sofferenti dipinte sul volto di Laerion e di Amarneth, la sorella dell’esploratore il cui spirito aveva trovato l’ultimo rifugio nelle Aule di Mandos.
Vide la disperazione sul volto della madre dei giovani, Gladeth,e la cupa rassegnazione sul volto del loro padre, di cui ignorava il nome.
‘Che cosa terribile, perdere i membri della propria famiglia’, pensò il principe, sapendo benissimo cosa si provava nel subire una simile perdita.
E Thranduil ne sapeva ancor di più: la moglie gli era stata strappata appena dopo un centinaio di anni di matrimonio, il padre era caduto in guerra sotto i suoi stessi occhi; Legolas non riusciva a capacitarsi si come riuscisse a mantenere quel’espressione imperturbabile, quella maschera di calma e compostezza, quando anch’egli aveva provato un simile dolore.
Ma smise di pensarci quando prese la parola: “And i men i amarth hain barthannen, ned i taur linad ú nîr. Dan… amarthwen anes lilómëa” (Lunga era la strada che il destino aveva riservato loro, nella foresta cantando senza dolore. Ma… il destino è stato pieno di oscurità). “Nínion an gwannad tîn, ar im harthon ne hain hîro hyn hîd ad ‘’wanath” (Piango la loro dipartita, e spero che essi trovino pace dopo la morte).
Fece per aggiungere altro, ma scosse la testa e si limitò a chinare il capo al cospetto di ognuno dei tre morti, spostandosi dinanzi alle tre bare; poi fece un cenno e due guardie accorsero, chiudendole con i coperchi, intarsiati d’argento, e mettendo così fine alla breve cerimonia.
Le bare vennero portate all'’esterno, ma né Legolas né il re uscirono: era diritto di colore che li avevano amati in vita, onorare i morti, non del re e tantomeno del principe.
“Non credevo avrei assistito ancora una volta a questa cerimonia”, sussurrò Legolas, andando a sedersi sullo scranno ch’era stato messo ai piedi del trono del padre da ormai diverso tempo.
Thranduil sospirò: “Nemmeno io. E non vorrei dovervi assistere né presenziarle mai più”, rispose, salendo i gradini del trono per accomodarsi sul seggio, le braccia posate nervosamente sui braccioli.
Nessuno dei due indossava ornamenti quel giorno, nemmeno la più sottile corona ornava il loro capo, nessun anello o altro gioiello ravvivava gli abiti scuri che portavano indosso; perfino lo scettro di quercia del re era rimasto chiuso nelle stanze reali.
“Spero che queste giornate colme di tristezza passino in fretta. Questo regno ha già avuto abbastanza fatti spiacevoli, non vorrei che sprofondasse nella più cupa insicurezza e che i suoi abitanti smettessero di credere nella luce che sempre, anche negli attimi più tenebrosi, riesce a comparire. Tutto questo deve avere una fine”, disse il re, risoluto.

Piccolo angolino autrice

Ok, so che il nuovo capitolo è un po corto, ma è di transizione. Parlerò poco, stavolta, limitandomi a dire che, nel prossimo capitolo, si cominceranno ad avere accenni alla trilogia del Signore degli Anelli. Comparirà il personaggio di Aragorn, vi anticipo, e ci saranno molti più riferimenti ai libri. Detto questo, non ho altro da aggiungere, se non ringraziare tutti coloro che hanno letto, recensito, o aggiunto la storia alle preferite, seguite o altro.


Hannon le

ElenCelebrindal
 
   
 
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